Antonio Carioti, Corriere della Sera 28/08/2012, 28 agosto 2012
IL «FASCIOCOMUNISTA» PENNACCHI: GRILLO MI SPAVENTA —
Nella diatriba fra il segretario del Partito democratico e il leader del Movimento 5 Stelle, lo scrittore Antonio Pennacchi, premio Strega nel 2010 con il romanzo Canale Mussolini, si schiera a spada tratta dalla parte di Pier Luigi Bersani. Ma con una riserva: «Ha sbagliato — dichiara al Corriere — quando ha detto che Beppe Grillo è un fascista. Doveva dire che è un nazista».
Lei è autore del romanzo autobiografico «Il fasciocomunista» e ha scritto diversi libri sulle realizzazioni del regime littorio. Non è un po’ benevolo nei riguardi di Benito Mussolini?
«Il fatto è che il termine fascista, nel gergo comune, ha in gran parte perso il suo significato originario, cioè il riferimento al fenomeno politico che ha segnato l’Italia tra le due guerre mondiali. Oggi chiunque tenga un comportamento aggressivo viene bollato come fascista. Da tempo è diventato un semplice insulto. Ma il fascismo non è stato soltanto violenza: in vent’anni di storia ha compreso al suo interno un po’ di tutto».
Però un certo culto del manganello le camicie nere l’hanno alimentato.
«Non nego affatto lo sbandieramento dell’aggressività e della violenza da parte fascista. Dico però, e qui mi permetto di correggere Bersani, che il linguaggio ingiurioso e demonizzante tipico di Grillo, ma usato anche da Antonio Di Pietro, a mio avviso va più in là».
In che senso?
«Bersani è il leader di una sinistra che, nonostante gli errori compiuti, rappresenta da sempre vaste masse popolari, che credono in un primato dell’interesse pubblico sugli egoismi privati. Grillo e Di Pietro chi sono? Sono demagoghi, campioni dell’antipolitica che si ergono a giudici assoluti del bene e del male. È significativo che Grillo imponga ai suoi di non andare in televisione e di non avere rapporti con la stampa. L’unico che parla con il pubblico, l’unico che decide deve essere lui. A me sembra una logica vicina più al nazismo che al fascismo».
Ma il problema fondamentale è il potere dispotico del capo?
«No, il punto è la demonizzazione totale dell’avversario, che accomuna Grillo e Di Pietro. Si sentono depositari della verità e trattano gli altri politici come una sorta di sottouomini. Quando dico che uno è uno zombie, un morto che cammina, gli tolgo la dignità umana. Un atteggiamento folle».
Lei pensa che Grillo e Di Pietro rappresentino un pericolo per la democrazia?
«Non saprei dirlo. Sono uno scrittore e non un analista politico. Però questi comportamenti mi spaventano. La politica non ha brillato molto in Italia negli ultimi vent’anni, ma il rimedio non è il rifiuto della complessità, né il ricorso a ricette semplicistiche. È facile dire no alle fabbriche, invocare il verde e le piste ciclabili. Ma come si costruiscono le biciclette senza l’industria metallurgica?».
Allora bisogna affidarsi ai partiti tradizionali?
«Siamo in una fase di transizione difficilissima: la globalizzazione non si può arrestare e porta con sé problemi immensi per questa povera Italia, che oggi appare un Paese sbandato e senza speranza. Non se ne esce senza un’assunzione collettiva di responsabilità. Da anni dico che occorre un nuovo patto costituzionale per riscrivere insieme le regole. Ma non si può farlo rifiutando il dialogo con gli altri. Chi si oppone al confronto assume una posizione eversiva».
Non le sembra un’accusa troppo grave?
«I casi sono due. O si ha un progetto rivoluzionario da perseguire, ma non mi pare questo il caso di Grillo e Di Pietro, oppure si gioca allo sfascio in nome del proprio ego sproporzionato, della propria smisurata megalomania. Detto questo, il mio mestiere non è studiare la politica, mi limito a scrivere storie. Ma le storie che raccontano Grillo e Di Pietro non mi piacciono proprio».
Antonio Carioti