Teodoro Chiarelli, la Stampa 28/8/2012, 28 agosto 2012
L’INCUBO NELL’ISOLA DEI CASSINTEGRATI
L’ occupazione delle miniere della Carbosulcis di Gonnesa nel Sulcis. La disperata protesta in mare dei lavoratori dell’Alcoa di Portovesme. Prima ancora, gli operai dimenticati della Vinyls di Porto Torres, autoreclusisi all’Asinara, «Isola dei cassintegrati». Tre battaglie simbolo di una regione, la Sardegna, sull’orlo del precipizio. I numeri, i dannati numeri dell’Istat e della Banca d’Italia, parlano di una crisi che sembra irreversibile, drammatica.
«Rischiamo la desertificazione», ha denunciato appena un paio di mesi fa il presidente di Confindustria Sardegna, Massimo Putzu. La disoccupazione supera il 16%, ma arriva fin oltre il 45% per i giovani. Nell’ultimo anno hanno chiuso i battenti 1.213 aziende; 1.700 hanno dichiarato lo stato di crisi; 21 mila i posti di lavoro cancellati nel 2011. Dal 2007 al 2010 le esportazioni sono calate del 40%. In questo disastro l’unico appiglio è la cassa integrazione: 20 mila i lavoratori che ne usufruiscono, 110 mila le persone assistite in qualche modo con altri sostegni, 4 mila gli esodati fra operai e tecnici. Il Pil (prodotto interno lordo) della regione navigava ad aprile intorno al -1,3%, ma secondo Confindustria e Confcommercio a fine anno sprofonderà a -1,9.
Le cattedrali nel deserto
Delle cattedrali nel deserto degli anni Settanta e Ottanta restano solo ammassi di rottami a violentare coste e territori una volta selvaggi e bellissimi. Chi ricorda che negli anni del boom le miniere del SulcisIglesiente occupavano 14.500 persone? E guardando i flebili fumi della ex Sir, che pure ancora ammorbano l’aria di Porto Torres, come non pensare che sino all’inizio di questo secolo erano quasi 3.500 i lavoratori che risiedevano ad Alghero e nel golfo dell’Asinara? Il crollo di quello che fu l’impero di Nino Rovelli, il giro disinvolto di finanziamenti pubblici a fondo perduto (e infatti spariti nelle capaci tasche di finanzieri e politici senza scrupoli), i passaggi degli impianti all’Eni delle tangenti ai partiti: il risultato è che l’Italia è uscita dalla chimica dei detergenti e degli aromatici e la Sardegna ha finito per ritrovarsi con niente in mano.
Quel che resta di Ottana
Oggì tutto è fermo, arrugginito e in rovina. Cosa resta? Poco o nulla, se non qualche attività (non a caso definita «residuale» in un report del Sole 24 Ore) intorno a Ottana. Già, Ottana: fu il simbolo della rinascita economica della Barbagia con la creazione delle industrie «antibrigantaggio». Ancora chimica e tessile, soprattutto fibre e acrilico. Ancora un fallimento, ancora storie di malaffare e di tangenti.
A Cagliari il discorso non cambia: grande spazio al tessile a Macomer e Siniscola. Ma poi arriva la crisi, si smobilitano gli impianti e i telai si rimaterializzano nei Paesi dell’Est. E che ne è della gloriosa cartiera di Arbatax che ha rifornito decine di giornali italiani? Nulla, non c’è più nulla, tutto raso al suolo e spianato dai bulldozer. In attesa di nuove attività che, come Godot, non arrivano mai.
Industria e pastori in trincea
Persino la pastorizia, tradizionale attività sarda, rischia una mazzata tremenda. Diecimila i pastori che tremano e minacciano rivolte. C’è che le banche stanno chiedendo il rientro immediato dei mutui agevolati concessi dalla Regione negli ultimi vent’anni e che sono stati giudicati illegittimi dall’Unione Europea. Così restano le ultime fabbriche simbolo, protagoniste delle ultime disperate battaglie. Alla Euralluminia di Portovesme (fa capo ai russi della Rusal) operano solo 35 lavoratori su 400. L’azienda sconta, come Alcoa, l’alto prezzo dell’energia elettrica. Che in Sardegna costa il 25% in più rispetto a quel 305 che già penalizza le imprese italiane rispetto al resto dell’Europa. Motivo per cui la multinazionale americana Alcoa ha deciso di chiudere entro settembre lo stabilimento che occupa 500 addetti (più 300 nell’indotto). E sempre a causa del caro energia si è tirato indietro all’ultimo momento il fondo Aurelius che sembrava interessato a rilevare l’azienda.
Il futuro possibile
Tante parole, qualche pseudo-imprenditore approfittatore, scarse speranze per gli indomiti operai della Vinyls e la loro «Isola dei cassintegrati». Forse un miracolo, chissà.
Certo che è dura. Anche perché la Sardegna sconta un atavico ritardo nelle infrastrutture. È l’unica regione a non avere un’autostrada. La costruzione della strada Sassari-Olbia è attesa da 15 anni. Ed esistono solo 27 chilometri di ferrovia a doppio binario.
Resiste, sull’isola, una sola grande industria: la raffineria Saras della famiglia Moratti. È a Sarroch, vicino a Cagliari, e come tutte le raffinerie non è propriamente un toccasana per l’ambiente. Ogni mese, però, garantisce quasi 1.500 stipendi. Anche se il settore della raffinazione non va a gonfie vele un po’ in tutta Europa.
Restano le imprese agroalimentari di qualità e un robusto settore vinicolo: da alcuni anni conoscono una crescita costante. Poco, troppo poco, per la bellissima terra del vessillo con i quattro mori.