Beatrice Borromeo, il Fatto Quotidiano 24/8/2012, 24 agosto 2012
TUTTE LE TELEFONATE DEL PRESIDENTE
Roma
È nel bel mezzo della crisi per una strage all’Università del Mississippi che John Kennedy esclama, seppur con sarcasmo: “Era dalla Baia dei Porci che non mi divertivo tanto”. E non è, questa, l’unica - né la più imbarazzante - delle conversazioni presidenziali rimaste impresse nei nastri che, a futura memoria, le hanno registrate. Come quando Ronald Reagan, dopo essersi accorto di aver invaso uno Stato centroamericano del Commonwealth senza avvertire Margareth Thatcher, si giustifica balbettante con la Lady di Ferro: “Temo ci sia stato un errore di comunicazione”. O quando un tronfio Lyndon Johnson detta l’agenda della mattina a un futuro collaboratore: “Voglio che tu mi baci il culo nella vetrina di Macy’s a mezzogiorno e mi dica che profuma di rose”.
IL CASO è certamente diverso da quello italiano, visto che il nostro presidente della Repubblica non ha un ruolo politico, bensì di garanzia. Ma mostra un approccio differente verso la gestione del potere, che negli Usa deve essere costantemente tenuto sotto controllo. Tanto che neanche l’uomo più potente del mondo, in America, può appellarsi all’inviolabilità della sua carica istituzionale. Come invece accade da noi, almeno stando al conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale, secondo cui i pm di Palermo avrebbero dovuto distruggere le intercettazioni tra Napolitano e Mancino prima ancora di averle ascoltate. Il capo dello Stato (dicono i suoi avvocati) è protetto da un’immunità-inascoltabilità che cessa solo in caso di messa in stato di accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. Anche se nella Carta (sia nella nostra sia in quella a stelle e strisce) questo scudo non c’è. “Se oggi Obama si trovasse nella situazione di Napolitano”, riflette il deputato e giornalista Furio Colombo “nessuno invocherebbe la Costituzione, né per difenderlo né per criticarlo. Il dibattito certamente sarebbe acceso ma resterebbe solo sul piano politico”.
Difficile dunque spiegare le pretese del Colle oltre Oceano, dove ogni chiacchiera, riunione, sfuriata e gaffe, dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, viene registrata e, non di rado, resa pubblica. E non solo per farsi due risate. “Fu la first lady Eleanor Roosevelt a dirmi quanto fosse importante mettere sotto intercettazione il presidente”, ricorda Colombo, che spiega: “La tesi è che si protegge il potere sorvegliandolo continuamente. In caso di disputa, il presidente e il suo staff devono sempre essere in grado di proteggersi con prove inequivocabili, non soggettive”.
Tant’è che nel 1971, durante l’amministrazione Nixon, viene installato il primo sistema di intercettazioni che copre alcune zone della Casa Bianca. Sette microfoni vengono piazzati nell’ufficio più celebre al mondo (l’Oval Office); cinque sulla scrivania del presidente, una per ogni lato del caminetto. Due cimici poi, nascoste sotto un tavolo vicino alla sedia presidenziale, captano le voci di segretari e consiglieri anche nella Cabinet Room. Strumenti che, all’epoca, trasmettevano le conversazioni a registratori sistemati nelle cantine della Casa Bianca.
Non solo. Allora come oggi ogni mossa del presidente viene appuntata su un diario: a che ora si alza, le telefonate che riceve (anche nel suo appartamento privato), chi invita la mattina al breakfast ufficiale, con chi s’incontra durante la giornata e così via.
NELLA PRIMAVERA del 1972 anche Camp David, la residenza presidenziale tra le montagne di Aspen, Colorado, viene disseminata di microspie. Ma quasi nessuno, all’epoca, ne è a conoscenza. Almeno fino al 13 luglio 1973, quando Alexander Butterfield, alto funzionario nell’amministrazione Nixon, svela al mondo quello che in pochissimi sanno: la Casa Bianca è intercettata. Anzi, ha scelto di auto-intercettarsi. Una rivelazione senza cui forse non ci sarebbe stato lo scandalo Watergate, visto che proprio in quei nastri gli investigatori trovano la prova che Nixon aveva tentato di coprire lo spionaggio al quartier generale democratico, nel Watergate Hotel. Non solo: anche la “pistola fumante” - la cassetta in cui Nixon e il capo del suo staff complottano per ostacolare le indagini - viene scoperta grazie alle intercettazioni. Senza le quali, dice Bob Woodward (il giornalista del Washington Post che insieme a Carl Bernstein svelò lo scandalo), “sarebbe rimasta sempre un’ambiguità sull’accaduto”. Invece i nastri ci sono e, dopo averli ascoltati, non solo i cittadini, ma anche i Re-pubblicani scaricano il loro compagno di partito. Da lì l’impeachment e, dopo quattro giorni, le dimissioni di Nixon.
UN ANNO E MEZZO fa, su questo giornale, Carl Bernstein spiegava che gli articoli del Post avevano fatto breccia perché “il sistema politico funzionava, era sano a tutti i livelli: dal giornalismo al Congresso”. E se lo era, gran parte del merito va alle intercettazioni stesse, che non hanno lasciato dubbi sull’accaduto.
Grazie alle registrazioni restano pochi dubbi anche sul temperamento dei presidenti più celebri, non solo di Nixon (che, cercando di risolvere la matassa Watergate, rifletteva: “Per queste cose, riciclaggio, eccetera, ci vorrebbero dei mafiosi, noi non le sappiamo fare, non siamo mica criminali”). Ci sono anche lo sconforto di Johnson (“Vorrei solo un gran sollievo e un po’ di amore”); la mancanza di fantasia di Bill Clinton, che saluta ogni possibile contribuente con la stessa frase (“bella cravatta!”); e l’odio di Dwight Eisenhower per uno scoiattolo che, nel parco della Casa Bianca, continua a rubargli il golf (“prendete un fucile e sparategli!”). Chissà che anche Napolitano, nelle misteriose telefonate, non stesse tramando contro l’ilare upupa e l’ormai famoso cinghialotto, un po’ troppo impettiti per aggirarsi nella tenuta presidenziale.