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 2012  agosto 27 Lunedì calendario

SULLA PELLE DI SOLOFRA IL MARCHIO DELLE GRIFFE

Sono lontani gli anni in cui Osama Bin Laden era solo un imprenditore e nella sua testa, probabilmente, c’erano forme d’affermazione molto differenti dalla tragedia dell’11 settembre 2001 e dalla trafila di attentati a matrice terroristica che l’hanno reso tristemente famoso. E sono lontani gli anni in cui un giovane Michael Jackson girava il video di "Thriller", l’album-cult del 1982 poi risultato più venduto di sempre.
Quelli erano gli anni del vero boom del polo conciario di Solofra, un paesino di circa 10mila cittadini nell’entroterra irpino, tuttora verde e rigoglioso, una piccola Svizzera - fuori e dentro le fabbriche - nel cuore della Campania.
Il numero uno di Al Qaeda spesso si recava nelle concerie di Solofra per comprare pellami di alta qualità per le sue imprese in Pakistan e Afghanistan. La popstar americana, invece, indossò nel suo video un giubbotto di pelle rossa a strisce nere che era stata commissionata a una conceria del piccolo centro irpino.
Adesso il mondo è completamente cambiato e sono lontani i numeri di un distretto che ha mutato via via anche i propri confini. Ma la qualità dei pellami, la tradizione e la rapidità produttiva restano il fiore all’occhiello di quel fazzoletto di terra che, al netto delle fluttuazioni valutarie, quasi pare non scoraggiarsi neppure per l’aggressione continua delle economie emergenti.
«Siamo ancora quelli degli anni Ottanta? - si domanda Teresa Martucci, decana degli imprenditori conciari di Solofra e cavaliere del lavoro dal 1991, una donna che ha vissuto il polo irpino dalle origini -. Non direi. Non è solo una questione di paradigma economico cambiato, inutile dilungarsi sugli effetti delle ultime crisi congiunturali. Il polo conciario di Solofra è cambiato perché sono diverse le richieste del mercato. Se in passato i nostri interlocutori erano le industrie, oggi sono i grandi creativi della moda e i loro uffici stile. E il nostro distretto è chiamato ad anticipare mode e tendenze. Il compito è difficile ma stimolante al tempo stesso: fondere artigianato e industria per "mettere su pelle" la creatività degli stilisti e anche la nostra. Solofra - aggiunge l’agguerrita imprenditrice - non è più il deposito delle industrie manifatturiere del mondo, ma una fucina di idee e innovazione. Un enorme laboratorio a servizio della moda mondiale».
Ancora una ventina d’anni fa il distretto si estendeva su un territorio di circa 60 chilometri quadrati, nella zona sud-occidentale dell’Irpinia, e comprendeva anche i comuni di Montoro Inferiore e Superiore oltre che Serino.
Adesso il tutto si è ripiegato quasi completamente nel centro solofrano. La produzione resta specializzata nella concia di pelli ovi-caprine essenzialmente per calzature, abbigliamento e pelletteria per grandissime griffe: da Ferragamo ad Armani, passando per Gucci, Prada e Moschino solo per citare qualche esempio.
«Negli ultimi trent’anni - racconta Angelo Sari, a capo della sezione conciatori dell’Assindustria di Avellino r titolare di un’azienda che conta 38 dipendenti e fattura poco meno di 9 milioni - ci siamo riciclati tre volte: agli inizi degli anni Ottanta la quasi totalità della nostra produzione era orientata alle fodere da calzatura. Poi tra l’80 e il ’90 è cresciuto a dismisura l’abbigliamento. A fine anni Novanta, a cavallo della prima crisi finanziaria asiatica, ci siamo convertiti a pelletteria e calzature e le forniture per l’abbigliamento si sono ridotte a una nicchia di altissima qualità. Ma chissà tra vent’anni ancora cosa accadrà: oggi si sta combattendo la terza guerra mondiale con la Germania, che ci incalza perché siamo l’unica nazione europea che per cultura e tradizione industriale può ostacolare i suoi progetti di controllo di gran parte dell’economia continentale».
Questa evoluzione - come ovvio, ha avuto in ogni caso un impatto sul reticolo di aziende del polo. Nell’inchiesta pubblicata vent’anni fa dal Sole 24 Ore, «si fotografavano 130-150 aziende capaci di un ciclo completo della lavorazione - spiega Rosanna D’Archi, che da sempre segue il comparto, un’istituzione di Assindustria Avellino -. Le altre, circa il doppio, si occupavano di singole fasi di lavorazione».
In totale, all’epoca, erano circa 3.500 gli occupati. Il fatturato oscillava tra gli 800 e i mille miliardi di vecchie lire. Nel 2012, considerando anche gli effetti dello tsunami recessivo ancora in piena espansione, Assindustria conta 89 aziende che effettuano il ciclo completo della lavorazione, che salgono a 129 se si contemplano anche quelle che si occupano dei prodotti chimici e dei servizi a sostegno del polo. Gli addetti sono scesi a 1.800-2mila unità e il fatturato non supera i 350-400 milioni annui, di cui poco più di un centinaio derivanti dall’export (dati Osservatorio nazionale dei distretti italiani). Anche perché sono scomparsi alcuni marchi storici del distretto (come la Albatros, la Conceria Iuliani e la Map) e altri sono in difficoltà. E le dimensioni delle singone aziende si sono targettizzate verso il basso: in media 10-20 dipendenti con punte, per le sigle più strutturate, di 45 addetti.
Restano invece immutati i mercati di approvvigionamento delle materie prime (Medio Oriente, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Nigeria e Sudafrica) - che però adesso impongono l’acquisto di semilavorati spazzando via tutta una parte della filiera indigena - e le piazze di sbocco: i pellami per calzature e pelletteria sono destinati quasi esclusivamente al mercato domestico, mentre quelli per l’abbigliamento sono destinati prevalentemente a varcare i confini per raggiungere Germania, Stati Uniti, Cina, Corea del Sud e Turchia.
«Questa è un’economia consolidata - sottolinea, con orgoglio, Sari - e nessuna economia emergente potrà spazzarci. Anche perché l’organizzazione e la qualità che siamo in grado di garantire qui a Solofra è assolutamente inimmaginabile in altre parti del mondo».
L’allusione è soprattutto all’agguerrita concorrenza cinese, che comunque sta sortendo l’effetto di far lievitare i costi di approvvigionamento: «I cinesi acquistano grandi quantità di materia prima e la sottraggono al mercato, facendo così lievitare i prezzi», spiega la D’Archi.
«Ma fortunatamente le transazioni avvengono su area dollaro - aggiunge Sari - e per noi questo mitiga l’impatto speculativo di altri Paesi. Piuttosto siamo in affanno per le diseconomie che patiamo per un sistema-Italia che è alla frutta: altro che articolo 18, 27 o 45. Paghiamo costi sociali e burocratici altissimi».
Il riferimento non è solo all’incredibile vicenda della depurazione delle acque che ha contraddistinto le cronache locali negli ultimi trent’anni e ai costi connessi, ma anche e soprattutto alla marea di certificazioni e autorizzazioni che occorrono per conciare pelli a differenza di quanto avviene in altre piazze internazionali. «Non voglio ricapitolare la via crucis del nostro depuratore, una vicenda ricca di passaggi giudiziari e di ingerenze della politica. Se ci avessero fatto gestire da soli la partita… - commenta Sari -. Ora siccome per legge ci hanno detto che il nostro impianto di depurazione è da considerarsi un tutt’uno con quello non lontano dell’area di Mercato San Severino, ultima tappa prima dell’innesto nel fiume Sarno, ci hanno imposto di pagare anche gli oneri di depurazione per quella fetta del territorio. Vi immaginate i costi? Il doppio di quelli a carico di altri poli concorrenti in Italia. E vogliamo discutere delle dogane? La direzione Campania-Calabria-Molise ci ha detto che non possiamo importare più sfruttando le facilitazioni Iva, perché nel territorio di riferimento c’è troppa evasione. Dunque, penalizzano noi che siamo in regola perché c’è qualcun altro che evade e perché loro non riescono a effettuare i controlli. E potrei continuare - dice ancora Sari, che è una sorta di fiume in piena -: sapete quanto tempo mi occorrerebbe per mettere su una nuova linea produttiva se volessi far fronte a picchi di ordinativi? Almeno due anni. Meglio, dunque, affidarsi a contoterzisti qualificati del territorio. Come farei a rispondere alla Armani che il 25 luglio vuole andare in produzione e che si è riservata qualche giorno per scegliere i pellami?».
Il segreto comunque sta tutto nello spirito di reazione di questa popolazione di impenditori con il nobile Dna dell’artigiano. «La crisi impone scelte - spiega Pinuccio De Vita della Deviconcia, azienda-gioiello fondata negli anni Settanta e attualmente capace di una produzione di 500mila quintali di pellami trattati -. È uno sprone ad attuare sistemi di gestione moderni: siamo continuamente impegnati nella ricerca, nel rinnovamento di mercati e di prodotto. Noi, per esempio, siamo passati in un decennio da 38 a zero dipedenti per risalire adesso, dopo quattro anni di crisi acuta, a 42 unità e una decina di milioni di fatturato da pelletteria e calzature. La verità è che ci siamo reinventati continuamente, formando noi stessi e le maestranze, producendo a basso impatto ambientale, investendo in innovazione e in ricerca: le grandi firme chiedono modifiche continue. Come noi, ne conterei altri quindici-venti. Siamo quelli che trainano il distretto per davvero».
Un distretto che adesso sta già guardando al suo futuro. Nei prossimi giorni, dopo la firma pubblica, dovrebbe essere costituito il contratto di rete dei conciatori. «Servirà anche a difenderci meglio, oltre che a produrre con sinergie importanti - puntualizza Sari -. Speriamo che anche le istituzioni ci aiutino. Incentivi? Basterebbe che stessero fermi. La politica ci ha già danneggiato tanto e gli enti di promozione non sempre sono efficaci».
«Magari un po’ di fondi per la ricerca e per una migliore politica fieristica sarebbero auspicabili - conclude De Vita -. È finito il tempo delle chiacchiere, noi continuiamo a fare da soli e a fare bene. Abbiamo una voglia imprenditoriale radicata, speriamo che non ce la facciano passare».