Gregorio Botta, la Repubblica 26/8/2012, 26 agosto 2012
CLON-ART
Pierre Menard, l´oscuro letterato inventato da Borges, aveva un´ambizione: voleva riscrivere il Chisciotte. Non una versione moderna del capolavoro di Cervantes, non una delle tante reinterpretazioni del cavaliere della Mancia, ma una riscrittura parola per parola. Una copia? Nient´affatto: pretendeva che la sua opera fosse autentica, più dell´originale. Quando Borges scrisse Pierre Menard, autore del Chisciotte, non immaginava forse che il panorama delle sue Finzioni (la raccolta che ospitava il racconto) ci sarebbe diventato un giorno così familiare.
E viceversa forse i visitatori entusiasti della mostra dedicata a Toutankhamon non immaginavano che, comprando il biglietto, sarebbero entrati in una pagina di Borges. Perché in quella mostra, che ora sta per chiudersi a Parigi, dopo un trionfale tour nelle capitali d´Europa, non c´è niente di vero: il carro, le statue, le sedie, i troni, la straordinaria maschera in oro massiccio, tutti i mille oggetti provenienti della tombe del leggendario faraone, alcuni esposti sotto inutili vetrine, sono ricostruiti in laboratorio, frutto di abili artigiani del Cairo maestri della resina e del gesso e delle più moderne plastiche chimiche, che hanno clonato gli ormai intrasportabili tesori egiziani. Insomma: una scenografia di Cinecittà, anche se fatta alla perfezione. La domanda è: che cosa ha spinto tre milioni di persone a Zurigo come a Bruxelles, a Madrid come a Budapest, a visitare una meravigliosa patacca? E soprattutto: che esperienza hanno fatto? Estetica, cognitiva, o semplicemente ludica?
«Ludo-educativa», risponde trionfante, l´uomo che ha inventato il progetto, Paul Heinen (impresario di multisala cinematografiche, parchi a tema, e creatore di foreste tropicali nel cuore di Amburgo, un altro falso), con questo definendo per sempre il pubblico come una massa infantile di alunni delle elementari. In Francia si è aperto il dibattito, lanciato dalla rivista Marianne: siamo entrati nell´era del fasullo. Giusto, sbagliato?
Soprattutto inevitabile. L´estetica del facsimile si sta già lentamente diffondendo sotto i nostri occhi. Grandi opere vengono clonate sempre più perfettamente per consentire ad un pubblico sempre più grande di visitarle. L´esempio più famoso sono le grotte di Lascaux, con quei meravigliosi affreschi preistorici che tutti abbiamo visto almeno in riproduzione. In riproduzione li vedono anche i visitatori: da 50 anni le grotte sono accessibili solo agli studiosi e agli specialisti, visite di massa avrebbero fatto scomparire per sempre le pitture di 17mila anni fa. Il pubblico deve accontentarsi della replica ricostruita a poche centinaia di metri. Il fatto che sia così vicina le garantirà un po´ dell´aura profonda e misteriosa dell´originale? Forse no, ma il turismo è salvo. E comunque il problema è stato già prontamente accantonato: c´è una Lascaux III pronta ad un grand tour in partenza da Bordeaux, per Chicago, Montreal, Sydney, che promette di replicare l´esperienza dell´originale, naturalmente accompagnata da apparati in 3D, esperienze multimediali e tutta la più avanzata techne contemporanea messa a disposizione.
Siamo a un passo da Disney o, se volete, da Las Vegas che ha costruito sull´idea di replica la propria estetica postmoderna. D´altronde il turismo di massa ha leggi ferree. Più aumenta, più, come un Creso, uccide ciò che tocca. E dunque ecco altre clonazioni: la Grotta di Chauvet-Pont-d´Arc (pitture parietali di 30mila anni fa scoperte nel 1994 in Francia) si prepara ad avere il suo doppio di resine e cemento: e anche se sarà un po´ più piccola dell´originale, questa volta riprodurrà non solo le pitture, ma anche temperatura, umidità e odori. Un´esperienza falsa, ma totale: costerà 43 milioni di euro, e dovrebbe attrarre fino a 400mila visitatori l´anno. E anche l´Egitto sta cominciando a porsi il problema: quanto a lungo sarà ancora visitabile la Valle dei Re? Quanto a lungo le Piramidi potranno permettersi di aprire le porte a milioni di visitatori? Potremmo persino immaginare un futuro con due Cappelle Sistine: una, a numero chiuso, destinata agli happy few che sono ammessi. Un´altra accessibile alle frotte di turisti che potranno ammirare i simil-affreschi di un simil-Michelangelo. Magari anche in 3D.
Quando Walter Benjamin scrisse L´opera d´arte nell´epoca della sua riproducibilità tecnica parlava di cinema e fotografia: e probabilmente non poteva pensare quali frontiere si stavano per spalancare sul mondo prossimo venturo. Aveva indicato come punto cruciale non solo quello dell´aura perduta dell´opera, ma anche quello dell´esponibilità. «Con i metodi di riproduzione tecnica dell´opera d´arte la sua esponibilità è cresciuta in una misura così poderosa che è avvenuto un cambiamento qualitativo della sua natura». L´esponibilità è, appunto, il problema. E la qualità di ciò che si espone è il dilemma che ci pone: che cosa stiamo vedendo quando vediamo una copia perfetta, indistinguibile, di un´opera? La domanda si è imposta in modo mirabile cinque anni fa,a Venezia, quando fu svelato quello che qualcuno definì "l´ultimo miracolo di Cana". Sotto gli occhi stupiti degli invitati l´artista digitale Adam Lowe mostrò le Nozze di Cana di Paolo Veronese collocate nel refettorio di San Giorgio – per il quale erano state dipinte, e nel quale restarono fino a quando Napoleone non se le portò al Louvre. Tutti gli esperti, da Salvatore Settis a Carlo Bertelli, furono d´accordo nel dire che la tela era identica a quella esposta a Parigi. Era il frutto di un anno di lavoro e di una tecnica molto avanzata: 2700 scatti digitali delle Nozze di Cana, rilievi laser per riprodurre le asperità del dipinto, riproduzione con scanner ad hoc fissata su una tela di lino irlandese preparata con colla animale e gesso come faceva il Veronese. Infine tutti i ritocchi fatti a mano, pennello e pigmenti. Risultato: grana, impasto, colori, tono del quadro, tutto uguale. Più uguale, persino, di quello del Louvre, visto che finalmente era stato restituito al luogo cui apparteneva. Dunque che cosa ha dipinto Lowe?
La domanda attende ancora una risposta. Entrando nel mondo di Walter Benjamin e di Pierre Menard, entriamo in una terra incognita in cui anche la categoria del falso e del vero tendono a slittare. «L´aura non nega di per sé l´esposizione – scrive Massimo Cacciari – ma impedisce che l´opera venga immediatamente fruita, obbliga ad un´osservazione lunga nel tempo, anzi ad un´attenzione propriamente in-finita… l´aura significa che l´opera riserva sempre qualcosa che eccede ogni spiegazione, che la sua essenza non è mai disvelabile». Ma la società contemporanea non ha tempo, e la spettacolarizzazione della nostra vita ci ha abituato, tra realtà digitali e simulazioni sempre più perfette, ad abitare in un similmondo, una specie di second life che ci accompagna come un´ombra fatta di pixel. La neve a Dubai o sullo stadio di Pechino, i parchi-safari a due passi dalle metropoli, i tour virtuali, gettano una ambigua luce d´inconsistenza sulla nostra esperienza. Se ogni cosa è riproducibile, diventa difficile trovare l´autentico. Molte artistar lo hanno capito. Guardate Jeff Koons o Murakami, per esempio: producono grandi giocattoli di lusso, che possono essere ripetuti, industrialmente, all´infinito. La loro factory è, letteralmente, una fabbrica. La loro aura si è trasformata in brand e produce milioni di dollari. Per il mercato dell´arte contemporanea hanno il crisma dell´autentico. Chissà se tutti quelli che le vedono se ne accorgono.