Sebastiano Grasso, la lettura (Corriere della Sera) 26/08/2012, 26 agosto 2012
MANIFESTI, IL SECOLO AL MURO
Dalla cartellonistica al manifesto moderno. «L’arte della pubblicità è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi, arte fascinatrice che audacemente si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti delle strade, dappertutto; si tentò persino di proiettarla sulle nubi».
Già, sulle nubi: il Manifesto dell’arte pubblicitaria futurista di Fortunato Depero parla chiaro. In un crescendo, la definisce «viva, gioconda, spavalda, esilarante».
In realtà, nell’ambito della storia della cartellonistica pubblicitaria europea, l’Italia arriva un trentennio dopo la Francia. Il primo manifesto esce a Parigi nel 1836 (un’intera pagina sul quotidiano La Presse). A Milano, invece, nel 1863, in occasione del Faust di Gounod alla Scala. Litografo, Luigi Rossetti.
Dopo è un fiorire di iniziative. Dal 1874, Casa Ricordi — e per oltre mezzo secolo — farà la parte del leone. Nei primi tempi, i pittori che si cimentano con la cartellonistica si ispirano a verismo e scapigliatura, ma una volta entrati a contatto con le suggestioni di Jules Chéret, Alfons Mucha ed Henri de Toulouse-Lautrec, si abbandonano ad un’inventiva straordinaria.
Quale sia stata l’incidenza dei manifesti in tutt’Europa tenta di spiegarlo la mostra andalusa del Museo Picasso di Malaga, curata da Carlos Pérez. Presenta 175 opere di 91 autori, realizzate dal 1888 («Dal momento in cui si cominciarono a compiere i grandi viaggi») al 1938. Una rassegna davvero suggestiva.
Il fascino dell’affiche non conosce frontiere. Punto di partenza, pittura e scenografia, anche se, poi, il manifesto non è espressamente né l’una, ne l’altra, ma il mélange di entrambe.
Basta fare anche i nomi di Bonnard, Matisse (Esposizione internazionale di Belle Arti a Zurigo), Rodchenko (Cinema-occhio), Mucha e, fra gli italiani, quelli di Boccioni, Dudovich (Bianco e nero, La Rinascente, Agfa), Cappiello (Casinò de Paris, Bitter Campari con cui si misurano molti altri, fra cui Nizzoli), Depero (Teatro degli Indipendenti, Mostra d’arte a Como, Mandorlato), Balla e dello stesso Marinetti. E, poi, Mazza (Corse a San Siro), Villa (La bicicletta), Hohenstein (Monowatt), Metlicovitz (Calzaturificio di Varese), Fabiano (Pneumatici Michelin, cui hanno dedicano affiches anche O’Galop, Broders e Rageot), Plinio (Fiat 509), Sepo, Boccasile, Mataloni. Curata da Luigi Cavadini la parte che riguarda l’Italia. In catalogo un suo eccellente saggio intitolato La pubblicità italiana agli inizi del XX secolo e la «ricostruzione futurista».
Anche se il prototipo del «manifesto» (chiamiamolo così solo perché stava appiccicato su un muro), risale al 1477, ad opera dell’inglese William Caxton, i primi cartelloni pubblicitari si devono, appunto, a Jules Chéret (presente a Malaga con Casinò de Paris, Camille Stéfani) ed Henri Toulouse-Lautrec (Molin Rouge, Divan Japonaies e altri).
Autore di ben 368 affiches, Toulouse-Lautrec (morto a 37 anni), si scrolla di dosso il pompierismo delle Accademie, prende le distanze dall’impressionismo e indica la strada all’art nouveau. Gli piace Degas, ammira l’arabesco di Ingres, la linea continua e il colore compatto delle stampe giapponesi. Attorno a lui, il movimento dei nabis (Denis, Vuillard, Sérusier, Bonnard), il divisionismo di Seurat e Signac, i fermenti nati attorno all’Esposizione mondiale di Parigi, del 1889, il suicidio nel 1890 di Van Gogh (amico odiato da Toulouse-Lautrec perché scoperto a letto con la sua donna, Marie Valadon — che gli darà un figlio, Mautrice Utrillo, dal nome del padre adottivo — ; ritratta poi, per vendetta, a gambe aperte e col profilo di Vincent sul pube), la fuga di Gauguin a Tahiti nel 1891, le bombe anarchiche contro il governo.
Il primogenito del conte Alphonse-Chaeles-Marie è il re dei café-concert («saloni criminali» dell’avanguardia), di ristoranti e bordelli. L’iconografia della Belle Époque rappresenta libertà individuali, felicità e spensieratezze che, in realtà, sono solo l’altra faccia di sfruttamento e povertà. Chéret e Toulouse-Lautrec danno vita ad «una forma d’arte nuova e vitale». Pubblicità di prodotti, ma anche di idee politiche.
Il manifesto crea un nuovo linguaggio diretto soprattutto alle masse. E, naturalmente — legato alle avanguardie che si succedono, come costruttivismo, futurismo, surrealismo ed altre formule come il Bauhaus — diventa anche specchio e documento dei cambiamenti che avvengono in pittura, scultura e architettura.
Scrive Boccioni: «Gloria alle grandi réclame che si ripetono violentemente espressive a tratti uguali, esasperando gli esteti dell’Arcadia e che salgono allegramente le colline e le montagne, fiancheggiando le funicolari, assistono belle serene utili espressive, sull’attenti delle loro stanghe di legno, al rincorrersi puntuale dei treni di lusso carichi di affarismo energetico e d’imbecillità turistica, e degli accelerati carichi di professori». E Marinetti: «La pubblicità ha soltanto una ragione d’essere: quella di agganciare la curiosità del pubblico con la massima originalità, la massima sintesi, il massimo dinamismo, la massima simultaneità e la massima portata mondiale. Quindi, dev’essere futurista».
Poteva essere diversamente?
Sebastiano Grasso