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 2012  agosto 26 Domenica calendario

ABBASSO I LIBRI DI SCUOLA, VIVA I LIBRI

Prima che cominci la scuola, comincia la lunga fila in libreria per acquistare i libri di testo. Quando i figli sono diventati abbastanza grandi e dicono: «Vado a comprarli con i miei amici», quello è uno dei momenti più felici nella vita di un genitore. L’entità dell’esborso economico non cambia, ma sottrarsi a quel rito significa sottrarsi a quella seduta psicoanalitica in cui ti rivedi studente, alle prese con cognomi che di solito pronunciavi a coppie (come liberarsi dell’ossessivo Salinari-Ricci?), e che riportano alla tua antologia o al libro di matematica.
I commessi scompaiono in antri segreti e tornano con pile di libroni: questi sono nuovi, questo è usato, in buone condizioni, in pessime condizioni. Nei libri usati in buone condizioni, c’è qualche cuoricino o fiorellino, o c’è scritto «ti voglio bene» chissà a chi.

Per il resto, i libri nuovi e quelli usati in buone condizioni si differenziano per una questione temporale: gli usati sono già abbondantemente sottolineati, i nuovi sono pronti per essere abbondantemente sottolineati. Perché i libri di testo, come è noto, più che leggerli, si sottolineano. Perfino un romanzo, se te lo fanno leggere a scuola, cominci a sottolinearlo in modo sconsiderato e abbondante. Spesso, gli studenti pensano che attraversare un libro di testo sia un happening, e ognuno lascia la sua traccia pagina per pagina. Infatti, i libri di testo si riconoscono dal gonfiore, dal fatto che le pagine non posano su altre pagine.
C’è però una cosa inquietante, che vedi mentre aspetti in libreria che arrivi il tuo numero 6.436 (ora sono a 12): gli studenti, quando prendono in mano quella pila di libri, sembrano contenti. Li guardano e li accarezzano, e a casa metteranno sovraccoperte per non sciuparli, sono intenzionati a starci attenti. E poi, durante l’anno, il rapporto si trasforma e approda a un odio, alla nausea. I nomi degli autori si pronunciano col tono delle bestemmie. E allora la domanda che ci facciamo tutti è: ma serviranno davvero, questi libri di testo?

Forse è una domanda un po’ oziosa, forse troppo complessa. In ogni caso, rimane la questione di fondo: se il mondo — e il mondo della conoscenza prima di ogni altro — negli ultimi venti anni è stato rivoluzionato, perché la scuola è rimasta ancorata alla formula dei libri di testo?
La risposta più semplice e salda è: i fondamenti nozionistici non sono cambiati; la data del trattato di Vienna, le declinazioni del latino e le leggi della termodinamica quelle sono. Le nozioni sono le stesse. Però allora basterebbe un grande libro di nozioni universali, un grande testo simile al Libro dei fatti, e poi tutto il resto potrebbe essere a disposizione delle scelte dei professori, insieme alla classe.
In funzione delle diversità e delle esperienze che si possono fare quest’anno, rispetto allo scorso anno. Si potrebbe infatti dire che ogni studente è una storia di vita singolare, ma anche questo sarebbe riduttivo: gli studenti cambiano fisicamente e mentalmente mese dopo mese, quindi ci si trova davanti di continuo a una evoluzione dell’esperienza.
Sarà per questo che ci sono i libri di testo: per fermare qualcosa in un ambiente che è sempre in movimento, da far girare la testa. La scuola ha — avrebbe — la funzione di fermare dei concetti basilari in un microcosmo dove nulla riesce a fermarsi anche solo per un attimo.
I libri di testo hanno due caratteristiche negative: sono troppo vecchi o sono troppo nuovi. Quelli vecchi sono stantii, lontani dalla vita che si vive; impongono un percorso rigido, uguale per generazioni. Suggeriscono con eccessiva convinzione e sintesi che ci sia stato un passaggio in Leopardi dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, ed è avvenuto una mattina intorno alle undici. Oppure astraggono dal contesto «il fine giustifica i mezzi», per arrivare in fondo al programma, e rendono Machiavelli, una delle menti più sofisticate della storia di questo paese, una specie di barbaro. Quelli nuovi sono aperti, multimediali in modo astratto, rimandano a quasi tutto: diventano una traccia talmente viva e possibilista, da essere quasi inutile, perché essendo opera-mondo nel senso deteriore, a quel punto tanto vale affidarsi direttamente al mondo. Faccio solo un esempio, riguardo al sapere antico e moderno (ma non contemporaneo, mi raccomando!): tutti i testi sono a disposizione gratuita sul web. Da Cicerone a Manzoni a Pirandello, si può avere tutto in un lampo, in modo del tutto legale. Per non parlare di date e nozioni di base. Ciò significa che il percorso di conoscenza che ogni singolo professore ha la possibilità di tracciare potrebbe essere molto libero.
Ecco, è su questa libertà che si discute — che si può discutere. In fondo, la presenza del libro di testo, e la lunga attesa in libreria, servono a qualcos’altro: a tracciare un percorso — il programma — che sia realizzato alla fine dell’anno. E allora, la domanda che bisognerebbe farsi per davvero è: perché, quando i nostri figli tornano a casa e ci dicono che il professore ha suggerito di leggere un’altra cosa (un libro intero, non un brano dell’Antologia), o di vedere un film, o di constatare direttamente nella realtà un presupposto scientifico, siamo così contenti? Ci sembra cioè che si sia fatto un passo avanti rispetto al poco che ci aspettavamo. Ci sembra che i libri di testo, che all’inizio dell’anno si comprano con entusiasmo per la quantità, la promessa, l’odore (con meno entusiasmo riguardo ai soldi), poi è meglio che vengano messi da parte quante più volte è possibile. Di conseguenza, la nostra legge del giudizio, è la seguente: il professore è tanto più bravo quanto meno usa il libro di testo.

Cioè, nella sostanza, noi riteniamo che la scuola diventi concreta, diventi esperienza, quando esce dallo schema tracciato. Non è una contestazione, è una constatazione. Che deriva dalla presa di coscienza che arriva, presto o tardi, e che dentro la scuola è troppe volte dimenticata: e cioè, che il percorso di conoscenza è ciò che più importa, e che la conoscenza è un orizzonte che sta sempre davanti, per tutta la vita. Che qualsiasi sapere prezioso ti porti fuori dalla scuola, è soltanto un inizio, e non ci sarà il momento in cui si smette. Insegnare e imparare, il fondamento dell’istituto scolastico, non è conclusivo. La scuola, invece, con i suoi cicli di interrogazioni, voti e programmi da portare a termine, sembra più attenta al risultato autoreferenziale che a quello di costruire un primo mattone per la persona che verrà fuori da quello studente. Non succede sempre, ma succede troppo spesso: il dovere si conclude con l’ultimo esame, poi liberi tutti dalla pressione della conoscenza. E i colpevoli sono tutti: dagli studenti ai genitori, dai professori agli autori di libri di testo.
Forse è da questo che deriva l’odio che si forma settimana dopo settimana, per i libri di testo: dall’idea che c’entrino solo con le ore scolastiche, e poi spariranno per sempre, anche dalla memoria. Invece, quello che dovremmo pensare tutti della scuola, è sintetizzato da questa frase di Sciascia: «Io spero che la scuola sia così, che consenta un margine di ozio, di libertà, perché ciascuno si scelga anche i propri maestri al di fuori della scuola».
Francesco Piccolo