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 2012  agosto 26 Domenica calendario

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«Mi dia una Inca Kola, per favore». Con tutta la simpatia per la bibita imbottigliata ai piedi delle Ande, è improbabile che, nei prossimi anni, vi ritroviate a reclamarla, al posto di una Coca o di una Pepsi, al banco del bar. Mai dire mai, però e, soprattutto, meglio non liquidare con un´alzata di spalle prodotti ignoti fino a ieri, solo perché la provenienza è, al momento, poco familiare. Presto ce li troveremo davanti continuamente, avremo memorizzato i nomi e ci sembreranno marchi conosciuti da sempre. È quello che sta già avvenendo, giorno dopo giorno, nella nostra topografia di consumatori. Magari non chiederemo l´Inca Kola, ma ci troveremo a dire: «No, grazie, preferisco i cioccolatini Ülker». Anzi, probabilmente lo abbiamo già fatto: in fondo il gigante turco dei dolci ha comprato Godiva, il marchio più celebre del cioccolato belga. E, in America e in Inghilterra, c´è già chi propone: «Perché, invece che da McDonald´s, non ci facciamo un bel pollo piccante da Nando´s? Quel piri-piri sudafricano mi fa impazzire». Per spegnere la sete relativa, in qualunque parte del pianeta ci troviamo con un bicchiere in mano, finiremo per scegliere in un ventaglio di decine di birre che, per probabilità statistica, risalgono quasi certamente a uno dei due giganti mondiali del luppolo: SAB-Miller o InBev. Il primo è sudafricano, il secondo brasiliano, anche se la sede sociale è in Belgio. E, se la birra si accompagna a un dopocena davanti al televisore, a vedere una partita di football americano, un altro nome, da questo autunno, ci verrà martellato in testa: Lenovo. È il nuovo sponsor della National Football League. È una marca di computer. Cinese.
I primi dieci anni del nuovo millennio ci hanno consegnato una rivoluzione epocale: l´ascesa delle aziende dell´ex Terzo Mondo e l´affermarsi di nuovi logo commerciali, improbabili fino a ieri, ma che stanno, invece, sovvertendo le gerarchie del secolo scorso. Le statistiche non colgono ancora appieno il fenomeno, se non a macchia di leopardo. Nella classifica delle prime cento multinazionali del mondo, stilata dall´Onu, fuori dai perimetri tradizionali dell´Occidente (Giappone compreso) ci sono, per ora, solo tre aziende: due conglomerate cinesi (Hutchinson Whampoa e Citic) e un colosso minerario brasiliano (Vale). Ma la classifica è calcolata in base al patrimonio estero delle aziende: misura, cioè, la loro presenza internazionale. La molla che spinge i nuovi protagonisti dell´economia mondiale è, invece, la presenza, alle loro spalle, di enormi mercati interni, che consente volumi di produzione così alti da catapultarli sui nostri mercati. Il risultato è semplice e sconvolgente, a Roma, a New York, come a Francoforte: siamo entrati nel negozio per comprare un buon vecchio televisore Philips e ne usciamo con un Lg. Pensavamo a un telefonino Nokia e abbiamo comprato un Htc. Avevamo deciso per una lavatrice Indesit e, sul carrello, c´è una Haier. Avevamo promesso a nostro figlio un Dell e, invece, gli abbiamo comprato un pc Lenovo. Lg, Htc, Lenovo e Haier, adesso, sono entrati nella nostra toponomastica di consumatori e ci resteranno.
Interbrand è una società di consulenza che stila regolarmente la classifica dei cento marchi più preziosi, quelli cioè il cui nome è, per il consumatore, insieme garanzia e richiamo. Per l´Italia ci sono solo Gucci e Armani. Per il resto, una valanga di americani, giapponesi, europei. Fuori dal coro soltanto Samsung e Hyundai (Corea), Corona (Messico), Htc (Taiwan). Difficile che duri. La forza di un marchio, di un brand, di un logo non è data solo dalle vendite (vedi il centesimo posto in classifica della Harley Davidson), ma alla lunga le vendite fanno la differenza. E qui non ci sono dubbi. La cinese Haier è leader mondiale nella vendita di elettrodomestici bianchi (frigo, lavatrici, lavapiatti). La Htc è una delle aziende che vende più smartphone agli americani. Solo Hewlett Packard (e di poco) vende nel mondo più personal computer dei cinesi di Lenovo. Huawei (ancora cinesi) ha appena superato Ericsson nella vendita di infrastrutture per le telecomunicazioni (tipo le reti per i telefonini). L´85 per cento delle batterie al litio che alimentano i cellulari del pianeta viene da un´azienda ancora cinese, la Byd. La coreana Samsung è stata capace di intaccare l´egemonia Apple su tablet e smartphone.
Non è la prima volta che il mondo conosce questi ribaltamenti. Negli anni ´70-80 era avvenuto con i giapponesi, nelle auto (Toyota, Nissan), come nell´elettronica (Sony, Panasonic). Ma le aziende del Sol Levante avevano in mente un´offensiva sui ricchi mercati dell´Occidente. In larga misura, si sono mossi con la stessa ricetta (efficienza, innovazione) e la stessa strategia (i mercati occidentali) i loro successori: i coreani. La differenza con i nuovi protagonisti cinesi come Huawei e Lenovo, o indiani (Tata o il colosso della medicina generica, Ranbaxy) è che i marchi emergenti puntano anzitutto al loro enorme mercato interno e a quello degli altri paesi in via di sviluppo. E hanno ragione, perché è lì che ci sono i mercati del futuro e loro li conoscono meglio.
Una grande società di consulenza, la McKinsey valuta che nel 2025 i consumi nei paesi emergenti varranno 30mila miliardi di dollari: il triplo di oggi. L´Occidente dovrà accontentarsi di metà dei consumi mondiali. Su un miliardo di famiglie capaci di guadagnare più di 20mila dollari l´anno, la crema della classe media, il sessanta per cento vivrà nell´ex Terzo Mondo. Conclusione: la stragrande maggioranza della domanda di elettrodomestici e di elettronica verrà da questi mercati. Già oggi si vendono più auto e telefonini in Cina che negli Stati Uniti. Le conseguenze si vedono: cinque dei dieci maggiori produttori di automobili sono oggi nei paesi emergenti.
Ma se l´asse dei mercati si sposta, non cambiano solo la localizzazione delle fabbriche o i flussi import-export. «Le preferenze dei consumatori dei mercati emergenti - nota McKinsey - determineranno l´innovazione globale nel disegno dei prodotti, nella loro fabbricazione, nei canali di distribuzione e di fornitura». Fuori dal gergo delle consulenze aziendali, è un avvertimento di cui dovremo tener conto. Poiché chi produce a livello mondiale non può fare troppe variazioni nei prodotti, significa che saranno disegnati, invece che, come oggi, sui gusti occidentali, su quelli dei mercati che contano. Guideremo una Chery (cinese) o una Tata (indiana) con meno spazio per le gambe rispetto a oggi (le scocche terranno conto del mercato cinese) di un bel verde pistacchio o rosso fuoco (agli indiani piacciono i colori forti). E i pezzi di ricambio andranno prima a Mumbai che a Milano.