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 2012  agosto 26 Domenica calendario

GLI ECOLOGISTI AL VERDE - C’ è

stato un tempo, non molti anni fa, in cui gli ambientalisti erano interlocutori obbligati degli industriali. Alla fine degli anni Ottanta partecipavano alle assemblee di Fiat e Montedison, facendo sudare con lunghe liste di domande tignose manager come Cesare Romiti. Chicco Testa e Giovanna Melandri, per esempio, cominciarono così.
Raul Gardini, uno degli imprenditori più in vista dell’epoca (poi suicidatosi nel pieno di Tangentopoli) un giorno d’estate del 1987 invitò a pranzo nella sua casa di Ravenna lo stesso Testa (all’epoca responsabile delle politiche ambientali del Pci) ed Ermete Realacci (a quel tempo presidente di Legambiente). Quasi un summit. Ma perché oggi verrebbe da sorridere immaginando una cosa del genere, magari mettendo l’industriale dell’acciaio Emilio Riva al posto di Romiti o di Gardini?
Da almeno trent’anni il movimento ambientalista italiano vive un frustrante paradosso. Molte idee «ecologiche», importate dall’Europa o dagli Stati Uniti, sono diventate patrimonio comune anche da noi. Salendo e scendendo dalle teorie economiche alla vita quotidiana. Da questo punto di vista le lampadine fluorescenti, la marmitta catalitica o i pannelli solari si incrociano con le previsioni formulate dal «Club di Roma» nel 1972 (è il celebre rapporto I limiti dello sviluppo); con le equazioni di Nicholas Georgescu-Rogen, l’economista rumeno che negli anni Settanta inventò la «Bioeconomia», o ancora con i calcoli sui «costi sociali dell’inquinamento» elaborati dal francese Jean-Philippe Barde e trasferiti nei testi per gli universitari italiani da Emilio Gerelli (solo un titolo come esempio: Economia e politica dell’ambiente, il Mulino 1980).
Eppure questa cultura, così latente nelle società occidentali, in Italia ha mancato tutte le occasioni per trasformarsi in forza politica solida, in grado di partecipare da protagonista al governo del Paese. È rimasta una storia minoritaria, da comparsa rumorosa quanto marginale, che si è perpetuata fino ad arrivare davanti ai cancelli dell’acciaieria Ilva di Taranto.
Dal 1985 a oggi nel partito dei Verdi hanno militato personalità diverse e di varia provenienza, come Carlo Ripa di Meana, Gianni Mattioli, Gianfranco Amendola, Alex Langer, Francesco Rutelli, Massimo Scalia, Edo Ronchi, Grazia Francescato, Alfonso Pecoraro Scanio, Luigi Manconi. Ma nessuno è riuscito a raccogliere più del 3,5% in un’elezione. Di nuovo: perché? Neppure nelle fasi più favorevoli l’indeterminato consenso diffuso si è trasformato in voti, seggi, incarichi di governo pesanti. Il caso più clamoroso nel 1986, l’anno di Chernobyl. Le organizzazioni ambientaliste, insieme con i Radicali, guidarono la protesta contro il nucleare. A Roma la manifestazione anti-atomo portò in piazza oltre 200 mila cittadini. Ma nelle elezioni del 1987 i Verdi ottennero solo il 2,5% (peraltro come i Radicali): i più ottimisti pensarono che non fosse male come debutto. Invece quell’inizio coincideva già con la fine della parabola: nelle consultazioni politiche del 2008 la coalizione Sinistra arcobaleno (Verdi più Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Sinistra democratica) arrivò a stento al 3 per cento.
Dobbiamo, quindi, scartare una prima spiegazione che pure torna ad affacciarsi in questi giorni: nei tempi di crisi non c’è spazio per le istanze ambientaliste. Il caso Ilva, si argomenta, dimostra come non ci sia storia se l’opinione pubblica deve scegliere tra occupazione e rischio ambientale. Cioè tra uno svantaggio concreto e immediato (la perdita del posto di lavoro) e un beneficio differito (azzeramento del rischio di malattia). In realtà, se guardiamo alla distribuzione del consenso elettorale, i portabandiera dell’ambientalismo sono sempre stati penalizzati. Negli anni di crescita economica come in quelli di recessione, in tempi di inflazione a due cifre o di debito strabordante. Nella Prima come nella Seconda Repubblica. Ci fosse al governo Andreotti, Craxi, Berlusconi o Prodi, il risultato elettorale dei Verdi non è mai cambiato: un periferico 2-3 per cento.

Ma oltre ai numeri, c’è un problema di qualità. Si può perdere nelle urne, ma essere presenti, pervasivi nel dibattito politico e sociale. Specie se si sta discutendo di una vicenda come quella dell’Ilva, che sembra fatta apposta per riproporre nel modo più brutale possibile le contraddizioni del modello di sviluppo italiano. Invece, come ha notato in un’intervista al «Corriere della Sera» (14 agosto 2012) lo stesso Amendola, 70 anni, prima «pretore d’assalto», poi europarlamentare dei Verdi: «Oggi purtroppo l’ambientalismo è ridotto ai minimi termini. Sull’Ilva, a parte Angelo Bonelli e qualche gruppo su Facebook, non vedo molto. Dov’erano la Cgil, Vendola, Bersani, mentre la gente a Taranto moriva? Evidentemente finora non se n’erano accorti».
La risposta di Ermete Realacci, 60 anni, uno dei leader storici di Legambiente e oggi responsabile Pd per la green economy è altrettanto dura: «Mi sembrano dichiarazioni fuori dallo spazio e dal tempo. In realtà la questione ambientale ha fatto grandi passi in avanti. Chi avrebbe mai detto solo 15 anni fa che la Germania avrebbe rinunciato al nucleare o che in Italia ci sarebbero stati quasi 300 mila impianti per le fonti di energia rinnovabile?».
Resistiamo per un momento alla tentazione di spettacolarizzare la polemica e prendiamo invece lo scambio Amendola-Realacci per rientrare, da un’altra prospettiva, sul tema di fondo. In realtà tutti e due sembrano aver ragione. La dimensione ecologica fa parte del mondo contemporaneo, come sostiene Realacci (almeno nella sfera occidentale), ma non trova una corrispondente ed efficace rappresentanza politica, come nota Amendola.
Monica Frassoni, 48 anni, a lungo co-presidente dei Verdi nell’Europarlamento e oggi co-presidente del Partito dei Verdi europeo, sostiene che «in Italia esiste un problema di accesso ai mass media». Gli ambientalisti, è il ragionamento di Frassoni, «sono molto attivi, ma non riescono a farsi sentire, a contaminare coloro che fanno la politica dei partiti, la linea editoriale dei mass media. C’è come una barriera di cristallo che dobbiamo superare». Ma anche questa spiegazione, al netto della grande discussione sul pluralismo e controllo dei media in Italia, non convince fino in fondo. Negli ultimi vent’anni diversi partiti, movimenti e correnti di pensiero si sono affermati anche senza «il pieno accesso» ai media. Dalla Lega Nord a Beppe Grillo, passando per i Radicali. È la stessa Monica Frassoni a indicare un’altra linea di analisi decisamente più interessante: «Per i Verdi è arrivato il momento di uscire dalla contrapposizione tra economia ed ecologia, tra occupazione e ambiente. Noi siamo in grado di proporre un nuovo e diverso modello di sviluppo economico, da affiancare a una scelta politica per un’Europa federale. Siamo in grado di indicare come si creano nuovi posti di lavoro. E siamo pronti per entrare nelle pieghe del sistema produttivo italiano, dialogando, per esempio, con chi in Confindustria si pone il problema di come contenere i consumi energetici». Qualcosa del genere lo pensa anche Realacci, il quale osserva che «bisogna incoraggiare le imprese, a cominciare dall’Ilva, a investire in tecnologie pulite, perché queste creano anche più posti di lavoro».
Ma la svolta diciamo così «eco-sviluppista» richiede un pesante lavoro di chiarimento e di dialisi politica che in Italia non è stato neanche abbozzato. Questo sembra essere il punto chiave. La Federazione dei Verdi presieduta da Angelo Bonelli, 50 anni, si prepara a fondare «un nuovo soggetto politico» con un’assemblea «programmatica e statutaria» per i prossimi 13 e 14 ottobre. «L’idea — spiega Bonelli —, è costruire un partito con l’organizzazione dei francesi e i contenuti dei tedeschi».
Anche qui Germania, dunque. Il mito dei Grünen e del loro leader, Joschka Fischer. Nel 1983 e poi, più numerosi nel 1987, i Verdi comparvero nella Camera tedesca, il Bundestag. Si aggiravano irridenti, in jeans e maglione, tra le severe grisaglie dei deputati democristiani e socialdemocratici. Non volevano essere un partito ufficiale, non avevano un segretario, ma al massimo «un portavoce», naturalmente a rotazione. Rifiutavano sdegnosamente di «sporcarsi le mani», alleandosi con altre forze politiche, men che meno con i «venduti» della Spd. Si occupavano e intervenivano solo su questioni strettamente ambientali e sul tema della pace. Sul resto, cioè tasse, spesa pubblica, scuola, sanità, difesa, non avevano niente da dire.
Durò quasi quindici anni la trasformazione di questa pattuglia di guastatori in forza politica di governo. Il tempo necessario per la corrente guidata da Fischer, i «realos», i realisti, di avere la meglio sui «fundis», i fondamentalisti. Nelle elezioni nazionali del 2009 i Verdi hanno raccolto il 10,7%, ma nel 2011 nelle regionali del Baden-Wurttemberg sono saliti al 25%, capitalizzando (loro sì) l’impatto del disastro nucleare a Fukushima.
Fischer, 64 anni, ha lasciato la politica nel 2005, ed è stato uno dei ministri degli Esteri più rispettati in Europa. Basti ricordare il suo famoso discorso del 12 maggio 2000, tenuto all’Università Humboldt di Berlino, sulla necessità di passare all’Unione federale europea. È dalla fine degli anni Novanta che i Verdi tedeschi pensano in grande. Il loro programma è sempre concepito per guidare il Paese: i veti sono soverchiati dalle proposte. I «non so» semplicemente aboliti. Si candidano direttamente per il posto da cancelliere e non per strappare la poltroncina del ministero dell’Ambiente o, se va bene, dell’Agricoltura, come è accaduto in Italia.

Il paragone con l’ambientalismo tedesco sembra, quindi, molto ambizioso, ma proviamo ugualmente a prendere sul serio la dichiarazione di intenti dei Verdi italiani: vogliamo diventare come i Grünen. Bene, se questo è il modello, la prima cosa da fare è procedere al confronto-scontro tra «realos» e «fundis». Dove li collochiamo, tanto per fare l’esempio più vistoso, i «no Tav» della Val di Susa? Nel campo dei «realos»? Compresi quelli che tirano i sassi ai poliziotti?
La linea di demarcazione tra «realisti» e «fondamentalisti» è ancora troppo visibile praticamente in tutte le aree di stretta pertinenza ecologista: servizi pubblici (si possono liberalizzare?); agricoltura (colture di nicchia o estensive?); energia (eolico sì o no?); industria (Ilva, ma non solo). Non basta. Se si vuole costruire un partito «alla tedesca», occorrono idee chiare sui grandi assi portanti: Europa, alleanze internazionali, fisco, impresa, mercato del lavoro. Storicamente in Italia è fallito il tentativo ricorrente di saldare ambientalismo ed estrema sinistra. Oggi si comincia a riconoscere che quell’alleanza non è una strada obbligata. O comunque non è l’unica a disposizione, visto che nel mondo ecologista si incrociano le culture politiche più diverse, dai socialdemocratici ai cattolici. «Dobbiamo essere trasversali, dobbiamo andare a cercare voti anche nelle aree moderate», dice Bonelli.
In definitiva il dualismo tra «realos» e «fundis» spiega la «diaspora ambientale» tra vari partiti (Verdi, Pd, Sel). Su Taranto, tanto per restare ancora sull’Ilva, Bonelli sostiene che l’acciaieria va chiusa. Realacci dice che l’impianto deve modernizzarsi, ma non si può abbattere con «un colpo di machete» ed è, più o meno la stessa posizione di Nichi Vendola, governatore della Puglia e leader di Sel (Sinistra, Ecologia, Libertà). Su queste basi è possibile immaginare una rete di alleanze tra ambientalismi diversi? Lo stesso Realacci, ammette che «anche il Pd deve fare ancora molta strada».
Se vuole contare davvero, e non solo al tavolo con Riva, il mondo ecologista dovrà tornare sul problema di sempre, quello di un’identità chiara, comprensibile e percepibile dagli elettori potenziali, che forse non mancano neanche in Italia.
Giuseppe Sarcina