Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 26/08/2012, 26 agosto 2012
IL CASO DI JULIAN ASSANGE I PARADOSSI DEI PROGRESSISTI
Le scrivo per chiederle un parere sul caso di Julian Assange. Il giornalista australiano è colpevole di lesa maestà? Riuscirà a evitare la prigione per un’accusa pretestuosa? Ha travalicato il diritto di cronaca? Qualcuno è stato veramente danneggiato dalla fuga di notizie passate per Wikileaks? È stato un peggiore vulnus per la democrazia la fuga di notizie di cui sopra o la persecuzione contro il suo autore?
Marco Vedrietti
parvoeti@gmail.com
Caro Vedrietti, dal tenore delle sue domande ricavo l’impressione che sulla vicenda di Assange lei abbia già idee molto chiare e voglia soltanto una conferma delle sue convinzioni. A me sembra, invece, che in questa storia vi siano alcune paradossali contraddizioni. Dopo il caso giudiziario e diplomatico scoppiato in Gran Bretagna, Assange sembra essere il beniamino di coloro che lo considerano il profeta della trasparenza totale, il paladino del diritto all’informazione, la vittima della rabbia con cui molti governi, fra cui soprattutto quello degli Stati Uniti, hanno reagito alle indiscrezioni di Wikileaks. Queste sono certamente posizioni liberal e progressiste pubblicamente condivise negli scorsi giorni da due registi cinematografici americani, Michael Moore e Oliver Stone, che sono, per l’appunto, fra i maggiori esponenti della cinematografia di sinistra. Eppure esistono nella vicenda almeno tre aspetti che l’opinione pubblica progressista sembra avere ignorato.
In primo luogo Assange è accusato di stupro da due giovani donne svedesi. Sembra che il rapporto, all’inizio, fosse consenziente e che abbia smesso di esserlo nel momento in cui le due donne si sono ribellate a certi modi violenti del loro partner. Molte persone, in altri Paesi, sosterrebbero ridacchiando che se le donne stavano al gioco, questo non può essere considerato uno stupro. In Svezia, invece, sembra prevalere la convinzione che una donna abbia gli stessi diritti di un uomo e sia sempre libera di cambiare idea. A me questo sembra giusto e «progressista»; ai sostenitori di Assange, evidentemente no.
In secondo luogo, la magistratura sembra essere implicitamente accusata di agire per conto delle autorità americane. Le due ragazze sarebbero dunque agenti della Cia? I servizi americani avrebbero comperato gli inquirenti e i funzionari del ministero degli Esteri svedese? Gli amici di Assange preferiscono credere a questi improbabili scenari e ignorano che la Svezia moderna, particolarmente attenta al rispetto dei diritti umani e civili, è il Paese meno incline a estradare un imputato verso uno Stato in cui correrebbe il rischio di una condanna a morte.
In terzo luogo, gli amici di Assange non hanno smesso di lodare la linea adottata dall’Ecuador e hanno fatto del suo presidente, Rafael Correa, un paladino dei diritti e delle libertà civili. Peccato che Correa, come ha ricordato Pierluigi Battista sul Corriere del 23 agosto, abbia spesso cercato di mettere a tacere la stampa del suo Paese e sia responsabile di leggi che, oltre a consentire un certo controllo governativo dei mezzi d’informazione, prevedono il carcere sino a tre anni per i giornalisti «diffamatori».
Sergio Romano