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 2012  agosto 27 Lunedì calendario

Ancora una volta giungono notizie poco confortanti da Berlino per quanti vorrebbero una soluzione più immediata possibile per la crisi dei debiti sovrani

Ancora una volta giungono notizie poco confortanti da Berlino per quanti vorrebbero una soluzione più immediata possibile per la crisi dei debiti sovrani.Un gruppo di accademici tedeschi euroscettici e guidati da Markus Kerber, Europolis, ha intimato ai giudici costituzionali di Karlsruhe di non emanare alcuna sentenza sulla legittimità della partecipazione tedesca al meccanismo di funzionamento dell’Esm, il Fondo salva-Stati permanente; sentenza attesa per il 12 settembre. Il gruppo ha spiegato che la Corte Costituzionale dovrebbe esprimere un proprio parere solo dopo che si sarà espressa anche la Corte di Giustizia Europea, adita sullo stesso punto da un parlamentare irlandese. Malgrado l’iniziale riserbo massimo di Karlsruhe, la Corte ha fatto sapere che intende rispettare i tempi prefissati per la sentenza, dopo la quale è molto probabile che lo scontro si sposterà al Bundestag, laddove i «falchi» e le posizioni di Europolis potranno trovare accoglimento tra le file dei liberali della FDP e dello stesso partito conservatore di Angela Merkel, in particolare, tra la CSU bavarese. E fin quando i tedeschi non si saranno espressi in favore dell’Esm, il fondo non potrà partire a tutela dei bond italiani e spagnoli, dato che si prevede che il meccanismo scatti al raggiungimento del sì della maggioranza di Stati dell’Unione, che rappresentano almeno il 90% del suo capitale. E la Germania conta da sola per il 27%. Ergo: se i tedeschi dicono «Nein», salta tutto. E ancora: potrebbero volutamente portarla per le lunghe, al fine di mantenere intatto il potere di ricatto verso la Bce, che stando allo Statuto non potrebbe intervenire a sostegno dei bond di uno Stato, in quanto ciò sarebbe assimilato a un intervento espansivo di politica monetaria, ossia inflazionistica, vietata dai Trattati. Tuttavia il punto è contrastante. Lo Statuto, in effetti, vieta che la Bce utilizzi la politica monetaria a sostegno dell’economia, come al contrario accade con l’americana Federal Reserve. Infatti, unico obiettivo di Francoforte è di mantenere i prezzi stabili nell’Eurozona, dove per stabilità s’intende un’inflazione annua non superiore al 2%. Questo perché l’Eurotower si basa su un assunto monetarista, secondo il quale l’inflazione non solo non sarebbe efficace nello stimolare l’economia, ma nel medio-lungo periodo porta a un livello sempre più alto di inflazione, associato a un «output» o pil uguale a prima. In altri termini, le politiche monetarie espansive sarebbero «Pareto-inefficienti», per utilizzare una terminologia da economisti, nel senso che comportano un danno, senza arrecare un beneficio. Ora, sappiamo che lo scontro nel board della Bce sta tutto intorno a questa interpretazione dello Statuto, con la Bundesbank a recitare il ruolo di depositaria della verità ufficiale e delle regole. Già nelle scorse settimane, il governatore Mario Draghi, anch’egli di scuola monetarista, ha palesato l’intenzione di intervenire sul mercato con operazioni aperte, al fine di sostenere il corso dei titoli di stato italiani e spagnoli. La ragione di tale intervento, per Draghi, si spiega con il fatto che i mercati non starebbero trasmettendo gli impulsi corretti e starebbero determinando una situazione ingiustificatamente penalizzante per BTp e Bonos. La Bce, quindi, avrebbe il potere di acquistare i nostri titoli, non per finanziare il nostro debito - cosa che sarebbe una forma mascherata e vietata di monetizzazione del nostro indebitamento pubblico - quanto per riaffermare i fondamentali degli Stati coinvolti dalla crisi. Si nota, ad esempio, che nel corso delle sedute, i titoli di stato irlandesi mostrano un differenziale di rendimento sui titoli decennali, rispetto ai Bund tedeschi, più basso dei BTp e dei Bonos spagnoli. Il paradosso è che Italia e Spagna sono sempre stati pagatori puntuali, mentre l’Irlanda si trova assistita da un piano finanziario internazionale, senza il quale avrebbe dovuto dichiarare default circa un anno e mezzo fa. Dunque, un mercato corretto dovrebbe penalizzare di più i bond celtici. Non essendo così, pare giustificato che la Bce possa acquistare i titoli penalizzati senza una ragione specifica, sebbene in modo temporaneo e senza trasformare l’intervento in un finanziamento indiretto del debito. Ma anche in questo caso i tedeschi, guidati dal «falco» governatore della Buba, il giovane e agguerrito Jens Weidmann, sono contrari. Secondo i tedeschi, infatti, acquistare i titoli italiani e spagnoli si trasformerebbe in un azzardo morale, nel senso che allenterebbe la spinta dei governi di Roma e Madrid a risanare le finanze pubbliche. Senonché, per essere credibili, bisogna essere quanto meno coerenti. Ora, la Germania vanta una storia pluridecennale di fortissima stabilità monetaria. Dopo la crisi dell’iper-inflazione del 1923-’24, quando un kg di pane arrivò a costare 4.500 miliardi di marchi, in seguito alla monetizzazione del debito da parte della banca centrale della Repubblica di Weimar, la Germania ha di fatto imparato la lezione di non stampare moneta per trovare una scorciatoia ai suoi problemi. Ma se questo è vero, sono almeno un paio gli episodi storici, che ci inducono a ritenere che in qualche occasione anche i tedeschi hanno bluffato. Negli anni Trenta, ad esempio, sotto la guida di Adolf Hitler, la Germania si riprese velocemente dalla crisi degli anni precedenti, attraverso un sistema monetario innovativo, quanto curioso, che prevedeva di stampare marchi a volontà, sebbene correlati non già all’oro, che Germania possedeva in scarse quantità, ma al lavoro e a ogni attività e bene concreto. Nacque una sorta di moneta parallela, denominata Mefo, che incrementò i marchi a disposizione dell’economia, attraverso un intricato sistema di certificati industriali. Certo, si dirà che la Germania del 2012 non si senta figlia orgogliosa di quegli anni. Peccato, che un economista tedesco e consigliere del cancelliere Angela Merkel, Peter Bofinger, in questi giorni ha fatto sentire la sua voce, sostenendo che quanto oggi i tedeschi rimproverano a Draghi è quello che la Germania ha fatto negli anni Settanta. Siamo in piena crisi petrolifera e la macchina produttiva tedesca inizia a segnare il passo, travolta da un’inflazione a due cifre, per via dell’innalzamento delle quotazioni del greggio. L’austera Buba, oggi detentrice del monetarismo, allora fu meno intransigente, quando intervenne con operazioni di mercato aperto e pure in contrasto con il mondo politico dei tempi, sostenendo che quelle operazioni non avevano il senso di finanziare il debito nazionale, quanto di trasmettere i giusti impulsi ai mercati monetari. Ma stando agli studi della Bnp Paribas, pare che la stessa cosa la Bundesbank l’avesse fatta verso la fine degli anni Sessanta. Insomma, i tedeschi avevano fatto gli italiani e oggi tengono sotto scacco l’Eurozona con diktat apparentemente frutto di coerenza ideologico-economica, ma forse più pragmaticamente figli della convenienza del momento. Certo, Otmar Issing, a capo degli economisti anti-Draghi, difende il buon nome della Germania, sostenendo che quegli interventi allora pesarono per l’1% solo del pil tedesco e che non vennero acquistati titoli di uno Stato mediterraneo in crisi. Lo stesso economista fa notare che nemmeno la Fed compra titoli del Texas o della California. Questo è senz’altro vero. Ma sarà sfuggito ai tedeschi che l’America ha un debito pubblico centrale, lasciando ai singoli Stati una capacità residua, per quanto alta, di autonomia fiscale. Insomma, il Texas o la California hanno pure debiti in proprio, ma il grosso è il debito federale di Washington, che serve per finanziare le spese collettive. Se applicassimo questo modello all’Eurozona, Bruxelles dovrebbe emettere i cosiddetti Eurobond, per rifinanziare quelli che oggi sono i debiti nazionali, mentre l’Italia o la Germania interverrebbero sui mercati, solo per finanziare eventuali deficit residui, per spese di secondo livello. In quel caso, sì che si dovrebbe accettare che uno Stato possa fallire senza che qualcuno intervenga. Succede anche in questi mesi negli USA e senza che la notizia faccia il giro degli stessi States. Il problema è che quando i titoli di uno Stato sono oggetto di attacco dei mercati per ragioni non specifiche, quanto legate alla scarsa fiducia di cui gode l’intera costruzione dell’Area Euro, è doveroso e ragionevole intervenire in loro favore, per ripristinare il corretto funzionamento dei mercati finanziari stessi. Ad esempio, uno studio recentissimo della Banca d’Italia spiega che solo 200 punti base sarebbe lo spread decennale sui titoli tedeschi, giustificabile sulla base dei nostri fondamentali economici. Questo significa che i restanti 250 punti sarebbero da addebitare alla crisi generale dei mercati, pertanto, da correggere con misure di livello europeo. Nessuno pretende di azzerare artificiosamente il differenziale di rendimento tra i nostri BTp e i Bund tedeschi. Se questo accadesse, i tedeschi avrebbero fin troppa ragione ad alzare la voce. Si tenta soltanto di riportare alla realtà gli investitori, visto che Italia e Spagna stanno pagando in modo eccessivo per le colpe di tutti. E non vogliamo certo aprire il capitolo spinosissimo della contabilità pubblica, perché si scoprirebbe con sorpresa di tanti tedeschi stessi che la Germania ha nei fatti un rapporto tra debito pubblico e pil non distante da quello italiano, se fossero, ad esempio, utilizzati gli stessi metodi di calcolo consolidato, che valgono per tutti gli altri Stati. Sappiano i sostenitori dei falchi teutonici che ancora oggi la Germania gode, ad esempio, di un beneficio contabile ad essa sola riservato, per cui grossa parte degli investimenti pubblici non viene considerata debito federale a livello ufficiale. Si tratta di una misura concordata a suo tempo con l’Europa, quando cadde il Muro di Berlino, al fine di sostenere la ricostruzione dell’ex Germania dell’Est. Per essere ancora più chiari, in Europa 2+2 non fa 4 per tutti, per Berlino fa 3. La matematica si è piegata alle ragioni dei tedeschi. L’Italia è in credito, senza dubbio. Giuseppe Timpone