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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

COSÌ IL SUCCESSO HA SCHIACCIATO FOSTER WALLACE

Scrivere o morire. Anzi, scrivere o ammazzarsi. La storia della letteratura occidentale, soprattutto quella degli ultimi due secoli, dimostra senza mezzi termini come la scrittura sia, per molti autori, un antidoto al male di vivere. La crudeltà, la spietatezza, la mancanza di senso dell’esistenza, spesso percepite in modo intollerabilmente acuto da chi ha avuto in dote la sensibilità esasperata del creativo, possono risultare un poco più sopportabili se filtrate ed elaborate attraverso la reinvenzione consentita dalla pagina scritta.
Enorme è il numero di romanzieri - tanto che sarebbe sciocco tentarne un pur lacunoso elenco - per i quali scrivere ha rivestito una funzione anche (se non eminentemente) terapeutica, come se riplasmare la realtà per mezzo di narrazioni rendesse l’esperienza del reale meno atroce. Il fatto che la letteratura svolga una funzione salvifica, o se non altro consolatoria, è ovviamente avvertito anche da chi è soltanto un lettore, poiché leggere permette a chiunque di vivere più di una vita, permette di uscire temporaneamente da sé facendo poi ritorno in sé stessi con maggior consapevolezza (e magari maggiori domande) sul proprio conto.
Ma la letteratura, per chi scrive, ha una valenza ulteriore. Chi scrive, infatti, formula più o meno consciamente questo pensiero: in fondo, se il vivere costituisce lo spunto per sempre nuove scritture, significa che lo stare al mondo - benché sia così insopportabilmente doloroso - possiede una sua utilità, una sua ragione, un suo motivo. «Quando mi chiedono perché amo la letteratura mi viene spontaneo rispondere: perché mi aiuta a vivere», ha dichiarato una volta il grande critico e filosofo bulgaro Tzvetan Todorov. È stato, probabilmente, anche un pensiero dello scrittore statunitense David Foster Wallace, o almeno lo è stato per una parte non breve della sua vita. Nato a Ithaca, nello stato di New York, il 21 febbraio 1962 e morto suicida a Claremont, nella contea di Los Angeles, il 12 settembre del 2008, Wallace è autore di tre romanzi (di cui uno, l’ultimo, intitolato Il re pallido, incompiuto) nonché di svariati saggi e raccolte di racconti. Tutta la sua produzione - fra cui occorre ricordare perlomeno i romanzi La scopa del sistema (1987) e il fluviale Infinite Jest (1996), l’antologia di racconti La ragazza dai capelli strani (1990) e il saggio Una cosa divertente che non farò mai più (1997) - è stata tradotta in italiano, facendo diventare Wallace, anche da noi, uno dei pochi autori di culto odierni, uno scrittore capace di suscitare entusiasmi e adesioni incondizionate così come delusione e noia.
All’opera di Wallace, alla sua virtuosistica scrittura capace di sbattere in faccia al lettore, con un’amara e intelligente ironia, le fragilità e le nevrosi della contemporaneità, ma soprattutto al Davide Foster Wallace uomo e alla sua tribolata parabola esistenziale è dedicata l’ampia biografia Every Ghost Story is a Love Story. A Life of David Foster Wallace (Viking, pp. 356, $ 27.95) di D.T. Max, insegnante alla Harvard University e collaboratore del raffinato settimanale The New Yorker.
L’oggetto principale dell’indagine di Max è la depressione che, a partire almeno dal 1989, quando l’allora ventisettenne David venne ricoverato in una clinica psichiatrica, è stata l’infame ma fedele compagna della vita di Wallace. Originato da un articolo che Max aveva pubblicato nel 2009 su The New Yorker, Every Ghost Story is a Love Story si basa sia sullo spoglio e l’analisi di alcune corrispondenze private di Wallace sia su interviste inedite a familiari, amici e collaboratori di quest’ultimo, arrivando a delineare un’immagine plausibile ed esaustiva dello scrittore e, in modo particolare, dei suoi anni giovanili. Ne scaturisce il ritratto di un individuo straordinariamente dotato sotto il profilo intellettuale ma anche imprevedibile e contraddittorio, vittima di attacchi di panico e precocemente afflitto da un’ansia patologica benché, in gioventù, fosse considerato dai suoi compagni di classe brillante, affabile e addirittura gioviale.
Attratto dalla filosofia, specialmente dalla figura e dal pensiero di Wittgenstein, nel 1985 Wallace si laurea proprio in Filosofia e Letteratura inglese. Un dettaglio, questo, che Max ritiene decisivo per scandagliare la psicologia di Wallace. Filosofia, difatti, è la materia di cui era docente il padre di David, mentre la madre insegnava letteratura inglese, e Max sottolinea a più riprese come Wallace sia stato letteralmente schiacciato dalle altissime aspettative dei suoi genitori.
Un peso evidentemente troppo grande, che neppure il successo internazionale è riuscito a rendere meno gravoso. Un peso che, assieme ad altri, in primo luogo la lucida consapevolezza dell’impossibilità - connaturata all’esperienza del vivere - non solo di serbare ma anche solo di conseguire per breve tempo la felicità e la pace, ha prodotto l’irreparabile. E quando, quel 12 settembre di quattro anni fa, la moglie Karen ha trovato David impiccato nel patio della loro casa di Claremont, credere alla bella frase di Todorov è diventato molto più difficile.