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 2012  agosto 27 Lunedì calendario

Se ci sarà il tempo di lanciare il grande piano di smaltimento delle cause civili, avrà lo stesso effetto di aggredire la montagna del debito pubblico

Se ci sarà il tempo di lanciare il grande piano di smaltimento delle cause civili, avrà lo stesso effetto di aggredire la montagna del debito pubblico. Sull’efficienza della giustizia, infatti, quei 5,5 milioni di cause pendenti pesano come una zavorra intollerabile. La ministra Paola Severino annuncia ora l’intenzione di mettere in campo una task force di 200 persone tra magistrati e avvocati che, a colpi di quarantamila sentenze l’anno, entro il 2018 potrebbero smaltire l’intero arretrato delle corti civili d’appello. Ma c’è un ma. Sono almeno due anni che si discute e si ragiona sul tema. E i precedenti progetti, ideati anch’essi negli uffici del ministero della Giustizia, sono abortiti sul nascere. Era il novembre 2010, ad esempio, quando l’allora ministro Angelino Alfano annunciò con squilli di fanfare che il piano di smaltimento era cosa fatta. Anche quella volta (l’attuale sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto, «padre» di questo piano, era all’epoca il consigliere giuridico di Alfano...) stava per scendere in campo una task force dedicata solo all’arretrato. S’ipotizzò di richiamare magistrati neopensionati, giovani avvocati e docenti in materie giuridiche. Avrebbero dovuto stabilire annualmente uno stock predefinito di controversie, almeno 100 a testa all’anno. Era previsto anche un compenso fisso per ogni lite risolta. La cosa non procedette per le convulsioni di quella maggioranza, dato che era alle porte lo strappo di Fini e la nascita del Fli. C’entrava poi una previsione di cancellazione di alcuni processi che tanto bene s’attagliava a un processo Mondadori che subito qualcuno pensò maliziosamente alla manina di qualche avvocato del Cavaliere. Stava per arrivare un decreto. Invece la cosa morì lì. Nel 2011 l’idea tornò a circolare. A febbraio il governo Berlusconi licenziò un ddl per lanciare 600 «ausiliari» contro l’arretrato pendente in corte d’appello e in Cassazione da oltre due anni. Venivano introdotte anche una «tagliola», ovvero il termine perentorio di sei mesi, scaduto il quale, se non si fosse comunicata alla cancelleria l’intenzione di andare avanti nel giudizio, il processo decadeva. Il ddl, inoltre, introduceva la cosiddetta «motivazione breve»: il giudice, entro 30 giorni dal deposito delle memorie, fissa l’udienza per la pronuncia con motivazione sintetica. Il sindacato degli avvocati, l’Oua, si mise di traverso in maniera decisa: era troppo basso il compenso previsto (20 mila euro all’anno), quindi non c’era l’obbligo per gli avvocati di cancellarsi dall’Ordine, quindi si rischiavano conflitti di interesse a ogni piè sospinto. Dal fronte dei magistrati, intanto, s’alzano già le prime voci critiche. Dice Cosimo Ferri, leader della corrente più moderata, Magistratura Indipendente: «La magistratura togata è in grado di dare risposte di qualità e tempestive, deve essere solo messa in grado di lavorare. Da anni chiede mezzi, risorse ed investimenti. Il giudice oggi è alle prese con riforme processuali che cambiano continuamente le regole del gioco. Servono riforme strutturali. Pertanto il nostro giudizio non è positivo perché questa riforma sancisce il fallimento della giustizia e la resa incolpevole della magistratura. Rimettere la decisione di un giudizio di appello ad un collegio composto da giudici reclutati a cottimo costituisce un’ingiusta sfiducia nella magistratura ordinaria e non risolverà il problema. Tra l’altro nell’ultima riforma sul giudizio di appello, approvata da questo governo e tanto enfatizzata (anche se criticabile da altri punti di vista), si indicano soluzioni diametralmente opposte a queste».