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 2012  agosto 27 Lunedì calendario

Quando apparve la novella dello scrittore inglese Graham Greene «The quiet American», nel 1955, Neil Armstrong si laureava in ingegneria aerospaziale all’Università di Purdue, a 25 anni

Quando apparve la novella dello scrittore inglese Graham Greene «The quiet American», nel 1955, Neil Armstrong si laureava in ingegneria aerospaziale all’Università di Purdue, a 25 anni. Pyle, il giovane personaggio americano di Greene, era dunque suo coetaneo e condivideva con Armstrong l’aggettivo di «quiet», tranquillo, che nel libro non è certo un complimento. Per Greene, britannico, cattolico e cinico, Pyle è detestabile come tutti gli eroi americani (lo scrittore cambiava i suoi viaggi cercando di non fare mai scalo negli Usa), la sua tranquillità, l’idea che il mondo si possa migliorare, che i valori della democrazia vadano difesi, anche a costo di guerre, ripugnava. Con Pyle Armstrong aveva in comune età ed educazione da boy scout che giura sul destino americano. In quel 1955 ha già compiuto 78 missioni di combattimento durante la guerra di Corea, bombardando a bassa quota con il suo Panther, finché non urta su un pilone, perde l’alettone e deve lanciarsi col seggiolino. Gli astronauti che il presidente Kennedy, a sua volta eroe di guerra con il motoscafo Pt 109, voleva mandare sulla Luna «entro la fine degli Anni 60» sono diversi tra di loro. Duri ex piloti come Shepard che sognano il macho Chuck Yeager, il primo a superare barriera del suono e barriere dei burocrati. Devoti come John Glenn, poi senatore e candidato presidenziale democratico, che nella capsula che pare debba esser divorata da un incendio canta l’inno «Battle Hymn of the Republic», Glory Glory Alleluja, in onore a John Brown, eroe - spietato - della lotta alla schiavitù. Armstrong è il «quiet American», eroe che il mondo ama, certo però che il destino «speciale» americano, da Washington a Lincoln alla Luna, sia politica, religione, civiltà. Eroi americani di una volta, come Robert Jordan, che con Armstrong condivide la professione di quieto docente universitario e va a combattere contro il fascismo in Spagna dalle pagine di «Per chi suona la campana» di Hemingway. O Jimmy Stewart, idolo di Hollywood del film di Frank Capra, «Mr Smith va a Washington» a battersi contro corruzione del business e della politica, che si fa raccomandare pur di pilotare aerei contro la Germania nel 1944, malgrado l’età lo releghi tra gli istruttori: vuole anche nella vita il ruolo da «quieto eroe» dello schermo. O Glenn Miller, maestro delle orchestre swing di Moonlight Serenade, scomparso in divisa da maggiore sulla Manica, mentre vola a Parigi appena liberata nel 1944 per festeggiare la libertà a suon di boogie woogie. O i piloti di quella grande compagnia aerea che fu la Pan Am, che lasciati a terra i turisti della business class, volano per ore e ore per non lasciare Berlino affamata dal blocco sovietico nel 1948. Molti di loro erano già stati su quello che il regista Wenders chiamerà «il cielo sopra Berlino», ma per distruggere la capitale nemica: tre anni dopo ripercorrono la rotta da «quiet Americans», stavolta per salvarla. Armstrong disse dalla Luna alla base Nasa «Houston, qui base sul Mare della Tranquillità, l’Aquila è atterrata», in quello che, dopo la sua morte, suona come un haiku, un verso orientale, dove il Mare della Tranquillità è sigla del suo carattere e l’Aquila, stemma degli Stati Uniti, cifra della sua dura epoca, la Guerra Fredda. Si dice che Benjamin Franklin, padre della patria yankee, proponesse il tacchino selvatico, con le sue piume colorate, per lo stemma nazionale, visto che è animale indigeno e gli altri coloni preferissero – non a torto forse - la più nobile aquila. Armstrong, nato nell’Ohio dove i pionieri coltivavano patate e, da generazioni, decidono con il loro voto indipendente le sorti della Casa Bianca (dal 1944 hanno votato per lo sconfitto una sola volta, Nixon contro Kennedy 1960), amava l’Aquila della sua navicella spaziale, ma avrebbe compreso le rurali ragioni di Franklin. Sua moglie disse una volta che la gloria lo «corrodeva dentro», era umile, temeva che la sua fama oscurasse le migliaia di tecnici e lavoratori che gli avevano permesso di volare sulla Luna, come l’Astolfo dell’Ariosto in cerca di perdute ragioni umane. I tecnici, come i burocrati che i piloti disprezzavano, e perfino i politici, che anno dopo anno trovavano nel bilancio federale, malgrado le critiche roventi, i fondi perché la Nasa toccasse il cielo o atterrasse ora su Marte con il laboratorio Curiosity. «Where have you gone Joe di Maggio…?», dove sei finito Joe di Maggio, il tuo paese ha bisogno di te, cantavano Simon&Garfunkel rimpiangendo l’asso del baseball e marito della Monroe: dove siete finiti eroi gentili d’America capaci di affascinare il mondo, senza ghigno bieco, senza l’amarezza dello scrittore Cormac McCarthy e dei fratelli registi Coen, quando l’America era un paese per giovani? Eroi quieti e forti, non schizzati come quelli del romanziere chic Franzen, o stralunati come il Batman del filmone di Nolan. Neil Armstrong astronauta dal Mare della Tranquillità, non Lance Armstrong ciclista dall’Oceano del Doping. Era un’America laconica, di poche parole. Quando la Germania si arrende, chiudendo la Seconda guerra mondiale in Europa, il generale e futuro presidente Eisenhower chiede al suo staff di stilare un comunicato: gliene propongono tanti, turgidi di giustificabile retorica. Ike Eisenhower ringrazia e di pugno scrive alla Casa Bianca una riga «La missione di questa coalizione alleata è stata compiuta alle 0241 ora locale, 7 Maggio 1945». Come Armstrong dalla Luna «l’Aquila è atterrata». Il cordoglio generale per l’eroe spaziale, in una nazione divisa nell’acrimonia della politica e dello scontro culturale di web, radio e tv, nasce dalla nostalgia di eroi quieti, semplici, coraggiosi, che avevano ragione e che credevano nel dovere di compiere «la missione», per il paese e l’umanità. Se ne vedete in giro così, fatemi un fischio.