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 2012  agosto 19 Domenica calendario

LA PUNIZIONE FUORI DAL CARCERE

Per la prima volta i magistrati in tirocinio, nella didattica della nuova Scuola della Magistratura al via da ottobre, faranno anche l’esperienza di vivere in carcere alcuni giorni e notti: una novità che, di riflesso, misura quanta polvere vada tolta dalle desuete riflessioni sul perché punire, che cosa legittima a punire, come punire.
L’ampio ventaglio di risposte date nel tempo nutre la riflessione che il giurista Winfried Hassemer, già vicepresidente della Corte costituzionale tedesca, propone in Perché punire è necessario (Il Mulino): e se per un attimo ci si lascia guidare dalla bussola delle titolazioni di volumi pur tra loro diversissimi per presupposti teorici e conclusioni, questo di Hassemer riecheggia il titolo di un libro del 1978 di Vittorio Mathieu (Perché punire), che però sottotitolava Il collasso della giustizia penale, espressione simile sia al titolo Il declino del diritto penale, con il quale quasi 10 anni fa una raccolta di scritti del penalista tedesco Klaus Luderssen è stata curata da Luciano Eusebi (peraltro autore tre lustri prima de La pena in crisi), sia al sottotitolo Il sistema penale messo in discussione dato nel 1982 a Pene perdute di Louk Hulsman e Jacqueline Bernat de Celis.
Il gioco di rimando fra i titoli è solo uno dei modi per rendere l’idea del derby tra «giustificazionisti della pena» e «abolizionisti della pena» che giuristi e filosofi del diritto giocano, e sui fallimenti incrociati pareggiano, da secoli.
All’origine delle teorie giustificazioniste c’è la funzione retributiva della pena, reazione che castiga il reato: che sia etica come in Kant rispetto alla rottura del valore morale intrinseco alla legge, o che sia giuridica come in Hegel rispetto al ripristino dell’ordine legale ferito dalla violazione, la retribuzione del rispondere al male con il male è storicamente declinata via via come vendetta, come purificazione, come ristabilimento di un ordine naturale sconvolto dal reato.
Diversamente dalle teorie retributive, concentrate su ciò che è già accaduto, le teorie utilitaristiche della pena la giustificano invece per la sua prospettata capacità di raggiungere utilità future: per Montesquieu o Beccaria la pena è riconosciuta come un male, ma un male necessario a «impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini» e a «rimuovere gli altri dal farne uguali» (Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764). La pena smette di essere fine a se stessa, e diventa invece un mezzo per raggiungere un fine: di «prevenzione speciale» se la si concepisce per correggere il colpevole o neutralizzarlo, di «prevenzione generale» se si esibisce/minaccia la pena per rafforzare nella società l’adesione ai valori giuridici attaccati dal reo o per dissuadere potenziali imitatori dall’infrangere l’ordine.

Ma le teorie «utilitaristiche» della pena cadono proprio là dove vogliono basarsi: e cioè sulla (in)utilità della pena, almeno nella sua maggioritaria declinazione concreta che è il carcere. Non c’è operatore della giustizia che non sperimenti come il carcere, se risposta esclusiva e per qualunque violazione, si riveli inutile e controproducente, diventi scuola di criminalità, non riesca a far scendere il tasso di recidiva, benché costi sempre più allo Stato, e all’uscita dalle celle restituisca alla società quanta (se non più) insicurezza ne ha imprigionata all’entrata. Non occorre vaccinarsi dai fallimenti securitari statunitensi e dal modello della privatizzazione del carcere con antidoti come l’analisi di Elisabetta Grande nel suo Il terzo strike. La prigione in America (Sellerio, 2007); e nemmeno ci sarebbe bisogno di sporgersi sull’abisso del caso italiano, dove la «prepotente urgenza» del sovraffollamento, con 23 mila detenuti in più dei posti disponibili (appello un anno fa del Presidente della Repubblica tanto applaudito ma rimasto senza seguito) continua a esporci alle condanne europee. È invece sufficiente ritornare all’intuizione di Michel Foucault (Sorvegliare e punire, Einaudi) che il carcere, producendo l’effetto di rinnovare e moltiplicare i comportamenti delinquenziali, abbia mancato il proprio fine e tuttavia sia stato subito riutilizzato in altro modo: come strumento di gestione differenziata degli illegalismi, attraverso la specificazione della delinquenza di alcuni ceti rispetto a quella (meno stigmatizzata) di altri.
Il punto, fissato da Luigi Ferrajoli in Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale (Laterza), è che la pena deve assicurare due funzioni preventive, entrambe fondamentali ma distinte: prevenire i delitti, ma anche le pene arbitrarie e sproporzionate. E invece storicamente gli «utilitaristi» hanno badato molto alla prevenzione dei delitti futuri, a tutela della maggioranza non deviante, e molto meno alla prevenzione delle reazioni arbitrarie, a tutela della minoranza che sia ritenuta deviante.
È dalla crisi della pena in chiave utilitaristica che traggono linfa i più radicali «abolizionisti». Non quelli «pedagogici» alla Lenin, in speranzosa attesa che la convivenza sbocci spontanea una volta che la società si sia emancipata dallo sfruttamento capitalistico, e nemmeno quelli «ribellisti» e anarchici alla Max Stiller. Ma quelli duri e puri che, come Hulsman e Bernat de Celis in Pene perdute (Colibrì, 1982), al quesito «perché punire» rispondono che non c’è più un bel niente da punire: la punizione penale ha mancato le finalità sociali che in teoria perseguiva, insistere a riformarla è inutile, l’unica coerente scelta è abolirla (eccetto i casi gravissimi) per sostituire l’idea di crimine con l’idea di situazione-problema, una sorta di rischio sociale da affrontare con procedure negoziali extragiudiziarie.
Ma questa concezione del crimine porta molto vicino all’abolizione della nozione di responsabilità, esatto contrario di quanto ad esempio Mathieu valorizza in Perché punire: e cioè coscienza della libertà/responsabilità dell’individuo come presupposto dell’ordine sociale, e pena come sofferenza capace di attivare trasformazioni radicali nel colpevole.
Alla quadratura del cerchio — fermare la rincorsa a sempre nuove e frustrate dinamiche di criminalizzazione, e tuttavia non rinunciare al principio della responsabilità individuale — si candida non soltanto chi, come ora Hassemer, riconferma fede nella connotazione necessaria della pena a patto che la si assoggetti a un controllo continuo del proprio limite, ma anche chi sviluppa invece le teorie della «giustizia riparativa». Come Gianluca Tramontano in Percorsi di giustizia (Aracne). O come Gherardo Colombo, che in Il perdono responsabile (Ponte alle Grazie) muove dalle contraddizioni della concezione classica della pena che ben conosce per averle sperimentate sulla sua toga di ex pm, proprio come già in Giustizia e modernità (Giuffrè) anche il professor Federico Stella sulla toga di avvocato: Colombo è convinto che far male insegni alla fine solo a far male, osserva che la sofferenza imposta è buona solo a produrre obbedienza anziché consapevolezza, conclude che così la pena paradossalmente non crea ma distrugge responsabilità, finendo di fatto per sospingere la società a comprimere quella libertà che della responsabilità è l’altra faccia. Centrale, nelle dottrine della giustizia riparativa, diventa non il castigo o l’utilità ma la «relazione», la faticosa ricostruzione del rapporto infranto dal reato tra colpevole e vittima.
Illusioni impraticabili? Intanto, però, irrorano anche concreti progetti bipartisan di riforma del codice (commissioni ministeriali Nordio nel 2005 e Pisapia nel 2008) che per i reati di minor allarme sociale cominciano a immaginare lavori di risarcimento, servizio alla comunità, «messa alla prova» degli adulti come oggi avviene solo per i minori.