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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

POCHE DONNE AI VERTICI DI GOOGLE. L’ALGORITMO CHE SVELA LE DISEGUAGLIANZE

ostavano poco o erano addirittura gratuite. Così le cartoline e le cartoline postali (quelle senza immagine che potevano essere compilate su entrambi i versi) divennero il principale strumento di comunicazione dei militari italiani impiegati su tutti i fronti e in particolare in Russia. Richieste di generi di conforto («Mi raccomando il pacco, se non te lo fanno alla posta, vai al fascio che là lo fanno subito... sigarette buone e sapone e lame e un pennello»), sfoghi che aprono una finestra sulla reale situazione bellica, al di là della retorica propagandista («In questi momenti per noi tristi, l’unico conforto è quello di avere posta da casa»).
Dalla sconfinata steppa russa continuano a emergere testimonianze dei terribili momenti che videro prima l’avanzata e poi la sanguinosa disfatta dell’Armata italiana in Russia (Armir). Piastrine di riconoscimento che anche chi scrive ha rinvenuto nelle campagne attorno ai luoghi degli accerchiamenti finali, della cattura e dell’annientamento delle unità italiane. E anche documenti, come le cartoline mai spedite, finite nelle mani dei sovietici, che furono poi coscienziosamente catalogate e conservate. Fino a venire amorevolmente preservate nel museo della città di Voronezh. Le cartoline mai consegnate ai destinatari sono state riunite assieme a quelle custodite dal Museo storico del Trentino, sequestrate all’epoca dagli uffici della censura militare di Mantova. Il bel libro Vincere! Vinceremo! Cartoline sul fronte russo 1941-1942 (Fondazione Museo storico del Trentino, pp. 146, 17), a cura di Quinto Antonelli e Sergej Ivanovich Filonenko, raccoglie alcune delle più significative.
Quelle che i militari mandavano a casa sono quasi tutte illustrate con immagini che dovrebbero dare l’idea di una avanzata inarrestabile delle armate «del bene» (italiane e tedesche) contro «le forze oscure» dell’Est. Foto e disegni che si immaginerebbero gioiosi e trionfali, ma che invece spessissimo sono lugubri e premonitrici. Il fascista in camicia nera e pistola in pugno che affianca il tedesco con fucile e baionetta, più che ad attaccare sembra pensare a sopravvivere, mentre sostiene un compagno ferito a morte con i piedi su un ammasso di rovine. La «via della vittoria» sulla cartolina della divisione Pasubio è angosciante: una strada bianca che si perde verso l’orizzonte su una pianura sterminata. E che dire dell’immagine scelta dall’80° reggimento fanteria «nel nome di Roma»: un mitragliere ferito che in mezzo alla neve e al fumo continua a sparare, circondato dai corpi dei compagni caduti.
«Caro zio, con la presente vi do le mie notizie che sto bene», scriveva il 5 settembre del 1942 il nipote Antonio a Melino Michele fu Romeo di Anzano di Puglia, provincia di Foggia. Erano i giorni in cui i tedeschi erano all’offensiva a Stalingrado e gli italiani dirottavano sul fronte del Don le truppe alpine, inizialmente inviate nel Caucaso. Specialisti di montagna, equipaggiati con mortai e altre armi leggere, che si trovarono a fronteggiare in campo aperto i poderosi carri armati sovietici. Poche settimane dopo, il 19 novembre, sarebbe iniziata la grande controffensiva sovietica, che poi avrebbe coinvolto anche le truppe italiane.
Le uniche cartoline che riescono a interpretare con un certo senso artistico i dettami della propaganda sono quelle di Gino Boccasile, celebre illustratore del rotocalco «Le Grandi Firme», diretto da Pitigrilli. Sua è la cartolina con il colossale samurai che distrugge le navi angloamericane avendo alle spalle le bandiere nipponica, tedesca e italiana. La spedisce Guido Remelli della 131ª batteria del 26° gruppo corazzato. Sempre Boccasile realizzò le immagini destinate a illustrare le frasi del Duce: «No. La luce non viene da quell’Oriente. Di là giunge sempre più incalzante il crepitio dei plotoni di esecuzione». L’immagine ci mostra due bestiali bolscevichi che massacrano una famiglia di contadini in uno scantinato. A spedirla, con «tanti saluti a chi sempre saprà ricordare» è il nipote Vitale Corradini della 9ª brigata motorizzata. Destinataria la famiglia Tonelli Antonio di Palidano, Suzzara, Mantova.
Messaggi fiduciosi nella vittoria, ma anche tanti assai più incerti e preoccupati. Nonostante l’esperienza dell’inverno precedente, che aveva colto gli alleati dell’Asse impreparati al grande gelo, gli italiani sembrano ancora non equipaggiati adeguatamente. Il 16 settembre del 1942 l’autista Agosti Luigi scrive alla mamma Maria Cavalli a Mantova: «Ora qui ha già cominciato a far freddo; l’appetito è tanto e la razione che ci danno è poca cosa». E Aleardo Pecorari del reggimento artiglieria a cavallo già il 28 agosto 1942 raccomanda al fratello in Italia: «Per la roba di lana invernale, preparatela; poi quando vi pare comodo fate il pacco».
Di tutt’altro tenore, naturalmente, i messaggi inviati dall’Italia. Le immagini sono rassicuranti, tranquillizzanti. Corso Vittorio Emanuele a Milano con il traffico pedonale di ogni giorno, dal parroco di Ronco Briantino al lanciere Brambilla Giuseppe del 5° Novara. Una «sirena bruna», in castigato costume da bagno, da Riccione con i saluti di Cammorato Carmela al sergente Pamer Pangrazio del 2° squadrone Savoia cavalleria.
Sul fronte interno si vuole dire ai 230 mila uomini dell’Armir che tutto va più che bene. Il dopolavoro «è il ponte tra il partito e il popolo che combatte e lavora»; il bambino (sempre di Boccasile), che tra le braccia del papà soldato alza al cielo il salvadanaio, ci sprona: «Difendiamo il nostro risparmio». Poi le aziende, le parrocchie, tutti al fianco dei «nostri soldati difensori della fede»: Breda, Fiat («Ali fasciste dominatrici del cielo»), Caproni («Le maestranze seguono con legittimo orgoglio le gesta dei loro fratelli in armi»). Ma ancora poche settimane e per l’Armir sarà la fine.
Massimo Gaggi