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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

IL MISTERO DEI BATTERI SCONOSCIUTI

L’ambulanza sfrecciava verso l’ospedale federale per la ricerca, un edificio di mattoni rossi. Era il 13 giugno del 2011, e il personale paramedico trasportò d’urgenza una donna di 43 anni, gravemente ammalata, al reparto di terapia intensiva. La paziente presentava un raro disturbo polmonare e annaspava in cerca d’aria. Solo poche ore prima, l’ospedale aveva saputo che la donna era stata infettata da un batterio mortale, appartenente a un ceppo resistente quasi a ogni antibiotico.
Malgrado l’ospedale avesse adottato le più rigorose misure di isolamento, il batterio – la
Klebsiella pneumoniae–
ben presto si è diffuso in tutto l’ospedale, infettando diciassette pazienti, sei dei quali in seguito sono deceduti. Erano stati contagiati dalla donna? E se così era stato, com’era riuscito il batterio a eludere i rigorosi controlli praticati da uno
dei più sofisticati ospedali della nazione: il Clinical Center of the National Institutes of Health di Bethesda, nel Maryland?
Quanto accadde in seguito è un mistero che ha richiesto il ricorso al sequenziamento genico rapido del genoma di un batterio, compiuto mentre questo è intento a riprodursi, e l’impiego delle informazioni così ottenute al fine di risalirne alle origini e comprenderne la traiettoria. I risultati, pubblicati online sulla rivista
Science Translational Medicine,
evidenziano una catena di trasmissione assolutamente imprevista e la presenza di un organismo che può rimanere inosservato per un periodo di tempo assai più prolungato di quanto fosse ritenuto possibile. Il metodo usato potrebbe rivoluzionare il modo in cui gli ospedali rispondono alle infezioni ospedaliere – che causano ogni anno più di 99 mila decessi.
Inizialmente l’ospedale riteneva
di essere in grado di conterisultò
nere i batteri killer, capaci di causare facilmente la morte in pazienti il cui sistema immunitario è indebolito dalla malattia. I medici sapevano che una volta entrati nel flusso sanguigno dei pazienti, i batteri sarebbero stati praticamente inarrestabili. L’ospedale ha quindi deciso di optare per un approccio chiamato
“isolamento potenziato da contatto”, in base al quale la paziente fu isolata all’interno di una camera del reparto di terapia intensiva. A un mese dal suo ricovero, la paziente è stata dimessa. Sembrava che nessuno fosse stato infettato dal batterio, e tutti tirarono un sospiro di sollievo. Il 5 agosto però, i tecnici del laboratorio
individuarono il batterio nella trachea di un paziente che non era mai entrato nel reparto dove era stata ricoverata la donna. Dai risultati di laboratorio non era possibile comprendere se a infettare l’uomo era stata la paziente o un superbug che con questa non aveva nulla a che fare. Il 15 agosto un altro paziente
positivo al micro-organismo, e il 23 fu la volta di un altro. L’infezione sembrava colpire al ritmo di un paziente a settimana. Segre, una ricercatrice del genoma, propose allora di effettuare il sequenziamento dell’intero genoma del batterio della prima paziente, per poi paragonarlo con il sequenziamento dei batteri delle altre persone infettate. La procedura rivelò che tutti i
Klebsiella pneumoniae
erano riconducibili alla prima paziente, che in tre occasioni aveva trasmesso i batteri presenti nei suoi polmoni e nella sua gola. «Rendersi conto all’improvviso di avere a che fare con una fase di latenza così prolungata era molto preoccupante », dicono i medici. Un vero e proprio mistero. In che modo i batteri erano riusciti a passare dalla prima paziente a quelli successivi? Il personale ospedaliero aveva continuato a lavarsi scrupolosamente le mani e aveva tenuto i pazienti infettati in isolamento, nel reparto di terapie intensiva, lontani anche gli uni dagli altri. Quando i ricercatori cercarono tracce del batterio
nelle mani del personale ospedaliero, non ne trovarono alcuna. Lo individuarono però all’interno di un respiratore che era stato impiegato da un paziente che pur essendo entrato in contatto con il batterio non si era ammalato. Il respiratore era stato successivamente pulito, ma la procedura di disinfezione non aveva funzionato. In seguito, altri batteri furono individuati negli scarichi dei lavandini, anche dopo che le camere erano state pulite. Per eliminarne ogni traccia, l’ospedale finì per rimuovere le tubature. Infine, i medici hanno intrapreso il difficile compito di raccontare ai pazienti – compresa la donna la cui infezione era costata la vita ad altre sei persone – ciò che era accaduto. «Erano comprensibilmente sconvolti », affermano. D’altronde, come avrebbero potuto non esserlo?
(©The New York Times La Repubblica Traduzione di Marzia Porta)