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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

LA NUOVA FRONTIERA DEGLI IDROCARBURI

In principio fu il gas. Agli inizi del XXI secolo, gli Stati Uniti ne producevano sempre meno; presto ne sarebbero diventati grandi importatori, poiché i consumi continuavano a crescere. Così una piccola società texana - la Mitchell Energy - decise di gettarsi in un’avventura rischiosa, seguendo un modello pionieristico che da sempre rende imprese spesso minuscole le vere protagoniste di ogni innovazione di frontiera in America. L’avventura verteva sul tentativo produrre gas da giacimenti non convenzionali, conosciuti ma fino ad allora mai sfruttati per ragioni economiche e assenza di adeguate tecnologie.
Chiamati "shale" o "tight", questi giacimenti sono costituiti da rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla: quando quest’ultima è predominante, si parla di shale, altrimenti le formazioni sono semplicemente tight. In molti casi, giacimenti tight sono confusi con gli shale, perché all’analisi dei dati di giacimento risultano pressoché simili. A vederle a occhio nudo, le rocce di cui si compongono possono ricordare granito o cemento e nessuno crederebbe che contengono gas e petrolio in enormi quantità. In effetti, per tutto il secolo scorso il loro bassissimo livello di porosità e permeabilità ha reso impossibile estrarre le preziose fonti di energia che imprigionano a costi contenuti e in quantità accettabili. Da qui la sfida improba della piccola Mitchell.
La società aveva sperimentato una nuova combinazione di due tecnologie già esistenti su giacimenti di shale gas, la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica, o "fracking". Nella perforazione orizzontale, la trivella scava un pozzo in verticale nel sottosuolo, per poi deviare a 90 gradi ed entrare in lunghissimi ma poco spessi strati di rocce orizzontali che, come spugne solide, imprigionano idrocarburi. È a questo punto che interviene la fratturazione idraulica. Mentre la trivella procede, si "sparano" acqua, sabbia (o ceramica) e agenti chimici all’interno del pozzo, a intervalli regolari. L’acqua rompe la roccia, sabbia e agenti chimici impediscono che le fratture create si richiudano o implodano. e favoriscono la "fuga" in superficie di gas e petrolio.
La Mitchell (1) si gettò nell’avventura nel 2000 nel giacimento di Barnett Shale (in realtà, un giacimento tight), in Texas. Dopo molte difficoltà iniziali ebbe successo, dimostrando che gli immensi giacimenti di shale gas degli Stati Uniti potevano essere sfruttati.
Fu l’inizio di una rivoluzione silenziosa, che esperti e grandi compagnie petrolifere snobbarono a lungo. A partire dalla regina delle multinazionali del petrolio, la Exxon, tutti ritenevano che quella dello shale gas fosse una bolla destinata a sgonfiarsi presto, per molte ragioni: il gas effettivamente recuperabile era solo una minima frazione di quello contenuto nei giacimenti; la produzione iniziale fluiva impetuosa, ma declinava altrettanto rapidamente; i costi sembravano non remunerativi. Inoltre, tutti sottovalutarono la dimensione delle riserve di shale gas.
Ma una miriade di minuscole, piccole e medie società petrolifere americane non si persero d’animo, e sfidarono la nuova frontiera sostenute da fondi privati, banche e private equity, perforando nuovi giacimenti di shale gas in altre parti del Paese a un ritmo impressionante, che al culmine del fenomeno superò i 1.300 nuovi pozzi ogni dieci giorni. Quando un pozzo produttivo cominciava a declinare, era più che compensato dalla produzione dei nuovi.
Così, partendo da zero nel 2000, là produzione di shale e tight gas superò i 100 miliardi di metri cubi già nel 2010 (per raffronto, l’Italia ne consuma circa 85 miliardi l’anno) e ha continuato a crescere fino a saturare il mercato e contribuire al collasso dei prezzi del gas negli Stati Uniti verificatosi agli inizi di quest’anno, quando gli americani pagavano un metro cubo di gas un quinto degli europei e un ottavo dei giapponesi.
Nel frattempo anche le grandi multinazionali si erano gettate sullo shale gas, ma lo avevano fatto con grande ritardo e nel momento peggiore - quello dei prezzi più alti. Dopo averlo a lungo snobbato, nel 2009 la Exxon comprò la più grande società produttrice di shale gas, la XTO, pagandola oltre 40 miliardi di dollari (compreso il debito). Passato poco più di un anno, i prezzi crollarono.
Intanto l’intraprendenza temeraria della piccola e media industria aveva già preso di mira un’altra frontiera, quella dello shale oil (da non confondere con l’oil shale, che si estrae da giacimenti più superficiali e deve essere trattato prima di ricavarne un precursore del petrolio, detto cherogene). Fino al 2007 si era pensato che fosse impossibile estrarre il petrolio da queste formazioni poiché la sua molecola - più grande di quella del gas - non sarebbe potuta fuggire dai pori di pochi nanomicron di rocce a bassissima permeabilità.
Tuttavia, tra il 2006 e il 2007, una media compagnia petrolifera - la EOG Resources - ripetè l’esperimento della Mitchell su un immenso giacimento di shale oil, quello di Bakken (in realtà, un altro giacimento tight), in North Dakota. Di nuovo, ciò che sembrava impossibile si rivelò possibile: il petrolio fluiva in quantità significative.
La crisi finanziaria e il crollo dei prezzi del greggio del 2008 (2) rallentarono lo sviluppo della nuova frontiera, ma già nel 2010 la produzione di shale oil in North Dakota raggiunse livelli che nessuno aveva immaginato. Adesso, lo Stato confinante con il Canada è diventato il terzo produttore degli Stati Uniti, scalzando la California, grazie a una produzione di shale oil dal solo giacimento di Bakken di oltre 700.000 barili al giorno, più di quanto non produca il più grande giacimento del Kuwait. Ma la produzione è in crescita esponenziale, e potrebbe quadruplicare entro il 2020.
L’epifania del North Dakota ha aperto una nuova corsa all’oro nero, poiché il sottosuolo americano nasconde almeno una ventina di grandi giacimenti di shale oil, alcuni di dimensioni paragonabili a quello di Bakken. È il caso di Eagle Ford, in Texas, subito diventato una meta bollente dei nuovi pionieri del petrolio, che oggi produce oltre 300.000 barili al giorno di greggio tight, mentre non ne produceva un solo barile nel 2010. E poi ci sono i giacimenti del Permian Basin (Texas), di Utica (Nord-Est), Niobrara (Colorado) e altri ancora. Ovunque l’attività si è fatta frenetica, con centinaia di pozzi perforati ogni settimana. E gran parte di questa produzione è redditizia anche con prezzi del petrolio compresi tra i 50 e i 65 dollari a barile.
Il boom dello shale ha permesso agli Stati Uniti di riconquistare il predominio mondiale nella produzione di gas. Entro il 2020, inoltre, potrebbe consentirgli di diventare il secondo produttore al mondo di petrolio a ridosso dell’Arabia Saudita, grazie a una produzione di shale e tight oil che punta a superare i 4 mbg entro questo decennio - più del doppio di quanto produceva la Libia prima della caduta di Gheddafi, molto più di quanto producono oggi Iran o Iraq.
Ma c’è molto di più. La corsa alla nuova frontiera americana del gas e del petrolio è diventata il singolo fattore di crescita economica e occupazione più forte per gli Stati Uniti, con effetti a cascata su molti settori produttivi. Allo stesso tempo, ha aperto una dimensione nuova per gli idrocarburi del nostro pianeta. I giacimenti di shale nel mondo, infatti, sono ancora in gran parte sconosciuti, ma potrebbero essere immensi e, soprattutto, sono vergini. Inoltre, la combinazione di perforazione orizzontale e fracking può consentire di estrarre molto più gas e greggio anche da giacimenti tradizionali, da cui oggi si riesce a estrarre in media soltanto il 35 per cento degli idrocarburi. Tuttavia, la rivoluzione non è immune da problemi e dilemmi.
Negli Stati Uniti, la mancanza di sistemi adeguati di trasporto, i calcoli economici dei raffinatori e il sostanziale divieto di esportare greggio (per ragioni di sicurezza nazionale) stanno creando molti ostacoli a uno sviluppo ancora più impetuoso dello shale oil. Di converso, il crollo dei prezzi del gas ha provocato un dimezzamento dell’attività sul fronte dello shale gas. In secondo luogo, non è detto che il successo statunitense sia replicabile su scala mondiale, almeno in tempi rapidi.
Per ciò che sappiamo, potrebbero esistere immensi giacimenti shale e tight in molte parti del mondo, ma si conoscono con buona approssimazione solo quelli degli Stati Uniti. Solo negli Stati Uniti e in Canada, inoltre, esistono mezzi di perforazione sufficienti a operare la fratturazione idraulica su vasta scala: un fattore critico, poiché i giacimenti shale e tight richiedono una perforazione intensiva per mantenere e aumentare la propria produzione. A complicare le cose, solo negli Stati Uniti i diritti minerari sulle risorse del sottosuolo sono in mano a privati cittadini (nella quasi totalità del resto del mondo appartengono solo agli Stati), che pertanto hanno un forte incentivo a venderli o affittarli a compagnie petrolifere. Infine, solo negli Stati Uniti (e in Canada) esistono una miriade di piccole e medie società petrolifere pronte a rischiare tutto inseguendo il sogno di un successo ritenuto impossibile dai più, e un mercato finanziario pronto a sostenerle.
Il dilemma più delicato della nuova frontiera degli idrocarburi, tuttavia, riguarda l’ambiente. Secondo accuse che si sono moltiplicate negli ultimi anni, le tecniche impiegate per l’estrazione di petrolio e gas da formazioni shale e tight - soprattutto la fratturazione idraulica - provocano l’inquinamento delle falde acquifere e perfino terremoti, oltre a utilizzare troppa acqua e a generare grandi quantitativi di acque reflue molto nocive. L’eco di queste preoccupazioni ha raggiunto l’Europa, dove la Francia ha vietato il fracking, mentre altri Paesi stanno pensando di farlo (3). Tuttavia, i casi documentati di danni alle falde sono pochissimi: su oltre un milione di operazioni di fracking negli Stati Uniti dal 1947 (anno in cui la tecnologia fu usata per la prima volta) a oggi, ve ne sono solo qualche decina, probabilmente legati all’impiego di pratiche non corrette di perforazione da parte di piccoli pionieri che puntavano ad accelerare i tempi e contenere i costi delle loro scommesse.
Quanto ai terremoti, se ne sono registrati alcuni in Ohio alla fine del 2011, in aree dove si effettuava fracking. Tuttavia, la fratturazione dei pozzi in Ohio è mirata a steccare acque reflue provenienti da molte parti degli Stati Uniti, un’attività che comporta molti più rischi di quella petrolifera. Le acque "sparate" e stoccate in enormi quantità sotto terra, in effetti, possono provocare un distacco delle faglie e il loro scivolamento, e quindi piccoli terremoti. L’uso di acqua nel fracking è si un problema, ma molto più ridotto (dall’i al 3 per cento del consumo totale di acqua) rispetto a quello generato da altri impieghi smodati dell’oro blu, a partire da quelli relativi all’agricoltura o al settore civile - che da soli assorbono oltre il 70 per cento dell’acqua consumata nelle zone dove si pratica il fracking.
È vero, infine, che l’estrazione di idrocarburi da formazioni shale e tight genera grandi quantità di acque reflue contenenti minerali tossici e perfino scorie radioattive, il cui trattamento ha rivelato una serie di problemi. Il più insidioso riguarda ciò che resta una volta che l’acqua è stata riutilizzata o è evaporata, cioè metalli tossici o scorie radioattive, la cui gestione ha ancora costi molto elevati e comporta rischi significativi.
L’industria promette di affrontare tutti questi problemi con l’adozione di best practises e soluzioni innovative. In parte sta accadendo, perché negli Stati Uniti è sempre vero il motto secondo cui "ogni nuovo problema rappresenta una nuova opportunità di business". Fedele a questo motto, per esempio, si è intensificata la ricerca e la sperimentazione di nuove tecnologie per il trattamento di acque reflue, con grandi speranze puntate sul grafene - il materiale miracoloso che nel futuro potrebbe rivoluzionare gran parte dei materiali che oggi usiamo comunemente. Probabilmente, questa ricerca e altre apriranno nuovi orizzonti anche per settori diversi da quello petrolifero. Per il momento, però, una commissione istituita dal Dipartimento dell’Energia statunitense ha stigmatizzato la lenta presa di coscienza dei problemi ambientali connessi al fracking da parte dell’industria petrolifera, e la mancanza di uno sforzo congiunto di maggiori dimensioni da parte delle imprese per risolvere quei problemi.
Le polemiche continuano e incendieranno la campagna presidenziale statunitense, tra chi spera nel nuovo Eldorado, chi ipotizza la possibilità di un’indipendenza energetica degli Stati Uniti, e chi teme una nuova catastrofe ambientale e una caduta di interesse per le fonti rinnovabili di energia.
In questo clima, sarebbe un errore esiziale per l’industria credere che la ricchezza e i posti di lavoro generati dall’esplosione dello shale e le prospettive che può aprire per il mondo intero possano fungere da assoluzione per i danni collaterali che essa comporta, perché i nemici dello shale sono tanti, agguerriti e con qualche ragione dalla loro parte. In mancanza di risposte che convincano l’intera opinione pubblica statunitense, potrebbero riuscire a frenare e ridimensionare lo sviluppo della frontiera degli idrocarburi forse più importante degli ultimi cinquant’anni.