Giovanni Vigo, Sette, 24/8/2012, 24 agosto 2012
IL DECENNIO PERDUTO NEL SOL LEVANTE
Nel 1987 Ronald Dore, uno dei massimi esperti mondiali di economia e cultura giapponesi, pubblicò un libro intitolato Bisogna prendere il Giappone sul serio. Un titolo che era, nello stesso tempo, un ammonimento. Erano gli anni in cui l’Impero del Sol Levante conquistava un record dopo l’altro, in cui i suoi prodotti spopolavano ovunque e la sua tecnologia non aveva rivali. Si aveva l’impressione di trovarsi di fronte a una macchina perfetta che tutti ammiravano con invidia e preoccupazione. Tre anni dopo, una bolla speculativa di immani proporzioni si abbatté sulla Borsa di Tokyo e l’economia scivolò in una lunga stagnazione inaugurando quello che viene ancor oggi chiamato “il decennio perduto”.
Come è potuto accadere un crollo così improvviso e così devastante? Dopo tutto, il successo del Sol Levante non era fondato sul castello di carte della speculazione, ma su un’organizzazione industriale studiata in tutto il mondo (il toyotismo, inventato negli anni Cinquanta, era diventato il nuovo verbo) e il New Tork Times avvertiva con preoccupazione: «Quarant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale i giapponesi si stanno di nuovo mobilitando per una delle offensive commerciali più brillanti della storia», con l’intento di «smantellare l’industria americana». Una dimostrazione del fatto che l’apparato industriale e finanziario giapponese aveva pochi rivali la fornì la Borsa di Tokyo nel 1987. Dopo il tonfo del 19 ottobre, il lunedì nero che aveva travolto i mercati azionari di tutto il mondo, si riprese più rapidamente delle altre e in pochi mesi l’indice Nikkei era tornato sui valori precedenti.
Per capire l’origine della bolla speculativa occorre però fare un passo indietro. A partire dai primi anni del dopoguerra la moneta giapponese era stata costantemente sottovalutata. Nel 1949 con un dollaro si compravano 360 yen. Il cambio favorevole, insieme alla stabilità dei prezzi, consentì agli esportatori del Sol Levante di conquistare uno spazio sempre più ampio nei mercati internazionali a detrimento, in particolare, degli Stati Uniti. Nel 1985 la situazione americana era diventata insostenibile e in una storica riunione all’Hotel Plaza di New York i rappresentanti di Usa, Germania, Francia, Giappone e Regno Unito decisero una sostanziale rivalutazione del marco e dello yen. Nel giro di un anno il cambio fra la moneta giapponese e il dollaro passò da 259 a meno di 150. A conti fatti lo yen si rivalutò del 40%. I vantaggi di cui avevano beneficiato a lungo gli esportatori nipponici svanirono.
22 milioni di azionisti. Per contrastare la brusca frenata delle esportazioni e stimolare l’economia, nel 1986 la Banca centrale ridusse quattro volte il tasso di sconto portandolo al 3%, un livello insolitamente basso. Il denaro messo in circolazione non favorì la ripresa dell’economia, ma venne dirottato verso la Borsa o investito nell’acquisto di terreni e immobili urbani. Le conseguenze si fecero subito sentire. Nel settembre del 1985 (quando vennero stipulati gli accordi del Plaza) l’indice Nikkei navigava intorno a 12.600; un anno dopo aveva raggiunto quota 18.000, guadagnando oltre il 40%. La Far Eastern Economic Review constatava che «improvvisamente le azioni erano diventate una preoccupazione per l’uomo della strada in tutto il Giappone». E, aggiungeva Edward Chancellor, un fumetto sull’economia giapponese pubblicato dal principale quotidiano finanziario di Tokyo conquistò rapidamente la vetta della classifica dei libri più venduti.
Gli ingredienti per l’esplosione di un’euforia irrazionale erano tutti in campo e lo si vide ben presto. Alla metà degli Anni Ottanta i giapponesi in possesso di azioni erano 14 milioni. Nei cinque anni successivi se ne aggiunsero altri 8 milioni ansiosi di partecipare al lauto banchetto. La marcia inarrestabile della Borsa sembrava dar loro ragione. Il 29 dicembre 1989 il Nikkei aveva raggiunto il picco a quota 38.957 e nel frattempo i prezzi delle case e dei terreni erano triplicati (in quei giorni si diceva che i giardini del Palazzo Imperiale di Tokyo valessero più dell’intera California). Non solo. La bolla si estese anche al mercato dell’arte facendo esplodere le quotazioni. Come osservò Robert Hughes, un reputato storico dell’arte scomparso poche settimane fa, «i prezzi delle opere sono determinati dall’incontro tra la scarsità, reale o indotta, con il puro, irrazionale desiderio e niente è più manipolabile del desiderio». Così il Ritratto del dottor Gachet di Van Gogh prese la via di Tokyo per 82,5 milioni di dollari e Au Moulin de la Galette di Renoir per una somma appena inferiore (78 milioni). Possedere un dipinto rinomato soddisfaceva la vanità dei suoi proprietari, ma poteva anche essere utilizzato come garanzia per ottenere nuovi prestiti e rituffarsi nella girandola della Borsa.
Il governatore inascoltato. A nessuno venne in mente che le bolle finanziarie prima o poi esplodono. O se qualcuno ci pensò ritenne più conveniente non spegnere le illusioni. Nomura, una delle più importanti case di brokeraggio, si lanciò in fantasiose previsioni affermando con sicurezza che nel 1995 l’indice Nikkei avrebbe tagliato il traguardo degli 80.000 punti. Eppure sarebbe bastato uno sguardo alle statistiche dei prestiti bancari garantiti per rendersi conto che il punto di rottura era vicino. Questa era l’opinione del nuovo governatore della Banca centrale Yasushi Mieno che, non appena nominato, si pose l’obiettivo di sgonfiare a poco a poco la bolla aumentando progressivamente il tasso di sconto. E bisogna riconoscere che riuscì nell’intento. Il crollo non fu fragoroso come quello che travolse Wall Street nel 1929 e neppure come quello del lunedì nero del 1987, ma la discesa fu inarrestabile. Nel settembre del 1990 il Nikkei era scivolato a quota 19.782, nell’agosto del 1992 era sceso a 14.309 per toccare il minimo di 8.237 nel gennaio del 2003. L’80% del valore delle azioni era andato in fumo mettendo in ginocchio, insieme ai loro possessori, anche il sistema bancario, che è rimasto uno dei talloni d’Achille dell’economia giapponese.