Stefano M. Torelli, Sette, 24/8/2012, 24 agosto 2012
SULL’UNIVERSITÀ DI TUNISI S’È STESO UN VELO. ISLAMICO
Il professor Habib Kazdaghli dirige la Facoltà di Lettere all’università di Tunisi “La Manouba”. Quando lo contatto, mi dice che attualmente è sempre in giro tra Tunisi, dove lavora, e Hammamet, la sua città natale, in cui adesso vuole soltanto ritrovare un po’ di serenità e godersi il riposo e il distacco dalla vita quotidiana. Del resto, «sono stati mesi difficili», ribadisce Kazdaghli, che rappresenta il personaggio intorno al quale è sorta nella Tunisia del post Ben ’Ali la cosiddetta “crisi del niqab”. Nella sua facoltà, Kazdaghli ha deciso di non usare mezze misure: non ha ammesso le ragazze che indossavano il velo integrale durante le lezioni e le sessioni d’esame. E le proteste non si sono fatte attendere. Sono cominciati sit-in, manifestazioni e minacce al corpo docente da parte di un gruppo di studenti islamisti: i salafiti.
Si tratta di una corrente di pensiero radicale che predica il ritorno all’Islam originario, quello dei salafiyyun, appunto (gli “antenati”, con riferimento alle prime generazioni di musulmani).
Ne sa qualcosa Kazdaglhi, attualmente sotto processo con l’accusa di aver schiaffeggiato una studentessa che indossava il niqab, per cui rischia fino a cinque anni di carcere.
Andiamo per ordine. Cosa è accaduto nella sua facoltà?
«In realtà la “crisi del niqab” è iniziata a ottobre 2011 all’università di Sousse, quando l’amministrazione aveva rifiutato di iscrivere una ragazza che indossava il niqab e aveva rifiutato di mostrare il proprio volto, asserendo che era un’imposizione di Dio. Per imporre la propria scelta si era fatta “aiutare”, il giorno dopo (era il 7 ottobre, in piena campagna elettorale), da un gruppo di salafiti, estranei all’università, giunti apposta per sostenerla. Così vi furono i primi scontri tra i salafiti da un lato e, dall’altro, gli studenti, i professori e l’amministrazione. È stato dopo gli incidenti di Sousse che anche presso l’università La Manouba abbiamo visto i primi casi di ragazze con il niqab».
Ci sono stati molti casi?
«Inizialmente si è trattato di due casi in tutto, per l’esattezza presso il dipartimento di Studi arabi. Il fenomeno sembrava essere gestibile e io ho chiesto alle mie colleghe donne di parlare con le ragazze per chiedere loro di togliere il velo durante le ore di lezione. Le studentesse all’inizio erano titubanti, ma hanno accettato di riflettere sulla cosa».
Poi è arrivata la vittoria di al-Nahda…
«Con la vittoria del partito islamico al-Nahda, il 23 ottobre, il loro comportamento è totalmente cambiato. Già martedì 25 ottobre, due giorni dopo le elezioni, si sono verificati i primi incidenti, allorché le studentesse sono diventate più aggressive nei confronti dei professori. Ad aggravare la situazione, sono intervenuti alcuni studenti salafiti che hanno cominciato a fare pressioni direttamente davanti al mio ufficio, intimandomi di accettare che le loro “sorelle” potessero indossare il velo in aula. Ho discusso e negoziato con loro per un mese, ma nel frattempo il consiglio scientifico della facoltà aveva promulgato un regolamento interno, per cui tutti gli studenti avrebbero dovuto presentarsi a volto scoperto nelle aule e durante tutti i corsi».
Cosa chiedevano questi studenti?
«Durante tutto il mese di novembre ho tenuto aperto un canale di dialogo con gli studenti salafiti, ma mi rendevo conto che ciò non stava portando ad alcun risultato tangibile. Mi sono reso conto che non ero di fronte a un gruppo di protesta studentesco abituale, che rivendica migliore qualità dei corsi, tasse universitarie più eque, ecc… Niente di tutto questo: questi studenti volevano solo imporre consuetudini che, secondo loro, fanno parte dei precetti islamici. Avanzavano quattro richieste precise: il permesso per le ragazze di indossare il niqab durante i corsi, una sala di preghiera, la separazione tra studenti e studentesse e l’impossibilità per le professoresse di insegnare a studenti maschi e viceversa».
Lei è sotto processo con l’accusa di aver schiaffeggiato una ragazza con il velo. Cosa è successo?
«Lo scorso 9 giugno, quando la situazione sembrava più calma, ho ricevuto una convocazione presso il tribunale per aver commesso una violenza contro una studentessa con il velo. L’anno accademico era già finito. E, nonostante i ritardi dovuti alle violenze, le aggressioni e le interruzioni dei corsi, avevamo già finito le sessioni di esame. Anziché congratularsi, qualcuno ha deciso di portare un docente davanti al tribunale, in un affare in cui tutti sanno che le vere vittime sono il sottoscritto e l’università, dal momento che sono stato io a essere aggredito. La cosa curiosa è che il 5 luglio, giorno del processo, il pubblico ministero ha chiesto di riclassificare i capi d’accusa, che sono stati addirittura aggravati. Adesso rischio fino a cinque anni di prigione».
Lei sostiene dunque di essere la vittima e non il colpevole. Facciamo un passo indietro. Ci racconta gli episodi in cui si è sentito minacciato?
«Quando gli studenti salafiti hanno realizzato che non avrebbero ottenuto ciò che chiedevano, d’accordo con i loro capi che li strumentalizzano dall’esterno, hanno dichiarato la facoltà un luogo di miscredenti, e che bisognava “liberare” quel luogo. Nella sorpresa generale, lunedì 28 novembre, alle 8 di mattina, la facoltà è stata invasa da decine di persone che non avevano niente a che vedere con l’università. Hanno chiuso tutte le porte del dipartimento, specialmente quello di Studi inglesi, dove 400 studenti stavano sostenendo un esame. Come condizione per la riapertura delle porte, hanno chiesto che il direttore (cioè il sottoscritto) firmasse un documento che autorizzava le studentesse a indossare il velo durante le lezioni».
Ci sono state altre manifestazioni? Lei è stato pressoché tenuto ostaggio nel suo ufficio…
«È iniziato un sit-in nell’edificio centrale dell’università, dove c’è il mio studio. Il 28 novembre alcuni studenti hanno tentato di prendermi in ostaggio per costringermi a firmare il loro documento. Posso affermare di essere stato liberato dalle radio, le quali in maniera molto rapida hanno diffuso la notizia. Tutta la società civile è venuta in mio soccorso. Dopo la ripresa delle lezioni, la situazione è rimasta tesa, fino al 6 e 7 marzo, quando hanno saccheggiato e distrutto il mio studio, sostituendo la bandiera nazionale tunisina con quella nera usata da gruppi radicali come al-Qaeda».
La facoltà che dirige è considerata un avamposto del salafismo in Tunisia. È reale lo scontro interno tra studenti laici e islamisti?
«Non sono d’accordo con questa definizione. In realtà molti salafiti che si sono resi protagonisti degli scontri alla Manouba vengono da fuori, dalle moschee, e non hanno niente a che vedere con la facoltà. C’è solo un piccolo gruppo di persone manipolate da fuori. Tra questo gruppo c’è uno studente che era in prigione con l’accusa di essere affiliato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (considerato una ramificazione di al-Qaeda in Nord Africa, ndr) e doveva scontare dodici anni di pena. Dopo la caduta di Ben ’Ali è stato scarcerato grazie all’amnistia e si è riscritto alla facoltà, di cui faceva parte dal 2006. La Manouba è un simbolo di resistenza alla dittatura. Lo è stato sotto Ben ’Ali e dovrà continuare a esserlo».
E adesso? Quali sono le sue speranze per il futuro della Tunisia, nel mezzo del processo di transizione?
«La Tunisia deve proseguire il suo processo di modernizzazione, che va avanti da prima dell’occupazione francese del 1881. Abbiamo abolito la schiavitù nel 1846, siamo stati il primo Paese musulmano ad avere una costituzione nel 1861 e, nel 1956, dopo l’indipendenza, abbiamo sviluppato il turismo ed emancipato la donna. Continueremo su questa strada. La vittoria di al-Nahda e la sua condotta ambigua dà molte preoccupazioni agli investitori locali e stranieri (tra cui l’Italia), che stanno attendendo che la situazione si stabilizzi. Penso che pian piano la Tunisia ritroverà le sue caratteristiche: un Paese aperto, attento alla giustizia sociale, alla pace e alla democrazia».