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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

IL SINDACO PIGRO 
FA LA CITTÀ BRUTTA

Nata trentadue anni fa da una “costola” della Biennale d’Arte (1895), quella di Architettura si va posizionando oggi negli indici di maggior “ascolto”. Questa 13esima edizione della Mostra Internazionale diretta da David Chipperfield si apre sullo sfondo di una nuova conquista verticale, la Shard Tower di Renzo Piano a Londra. E poi la promessa-certezza di altri sedici grattacieli nell’Hudson Yards a New York (un distretto di 2 milioni 400mila metri quadrati). E il contestato progetto kolossal di Pierre Cardin, un’altissima e tecnologica torre di vedetta sulla fragile, aggraziata (e assediata) Venezia. Con l’abbaglio che il verticalismo sia lo scopo ultimo dell’architettura. Appunto per questo, la Biennale 2012 (dal 29/8 al 25/11; 6,8 milioni di euro di budget) ruota attorno al tema del common ground, quel terreno comune di discussione tra progettisti e società civile. «New York è la più straordinaria scultura urbana che l’uomo abbia mai immaginato, dopo Siena, con quella sua piazza straordinaria. New York è un cristallo che si modifica continuamente, cambia poco se se ne aggiungono altri sedici», dice Paolo Baratta, presidente della Biennale. «Quando sono a New York mi concedo un divertimento quasi infantile, tipo “ottovolante”. A tarda sera con il taxi si può sfrecciare lungo le Avenues... E vedere quei grattacieli è sempre un’emozione. A Londra la verticalità è una “curiosità”. Londra resta una grande esercitazione per realizzare una città-campagna, con abitazioni a imitazione di case campestri. Il Pirellone a Milano fugge dal peso “scultoreo” della stazione centrale. A quella piazza mancava la genialità di questo “campanile” leggero e moderno, per alleviare quel contesto di forte impatto urbano». E ai margini di Venezia ora incombe l’iniziativa dello stilista francese Cardin, che sogna di lasciare qui un segno indelebile della sua creatività. «Hanno chiesto di partecipare come mostra collaterale. Chipperfield ha acconsentito, la Biennale agevola proprio l’aspetto del confronto, della discussione su tematiche cruciali. Il nostro compito non è quello né di polemizzare né di occultare. L’aver ammesso questo progetto non equivale a un nulla osta».

Disciplina complessa. E se la Biennale 2010, diretta dalla giapponese Sejima, era più “impalpabile” vertendo sul tema del sentire l’architettura quasi a livello organico, questa di Chipperfield sarà invece una Biennale molto concreta, del “fare”. «Si riparlerà dell’architettura come disciplina complessa. Per tante sue valenze: rapporti con la storia, con le città, con i cittadini, dibattiti tra architetti e tra scuole. Sarà una Biennale molto densa, ogni spazio è dedicato a più soggetti in dialogo tra loro. Troppo spesso, ultimamente, gli architetti sono stati chiamati come maître patissier a preparare la torta di nozze del padrone di casa, ossia del committente. Che identifica nell’archistar lo specialista che, al meglio, attraverso un edificio, può pubblicizzare il suo nome o il suo marchio. Che di per sé non è una colpa. Però quando a Michelangelo fu affidato l’incarico per la cupola di San Pietro era sì un’operazione di “promozione” del papato, ma al contempo una renovatio urbis. L’architettura serve a questo. L’avvento di Palladio a Venezia ha ispirato altri interventi. Frank Lloyd Wright fu chiamato a riformare il concetto di abitazione. Ma dietro c’era una società civile che chiedeva di progettare la nuova casa americana. E che pensava occorresse rifare un’identità. Mentre l’Italia ha costruito sul suo territorio volumi su volumi, che sembrano negare l’esistenza dell’architettura. E adesso questo progetto di un albo unico di geometri, periti industriali, architetti, ingegneri... io non ce l’ho con i geometri ma con i committenti che si accontentano del déjà vu, dove il nuovo sta solo nell’aggiungere una civetteria, confondendo il dettaglio stravagante con l’elemento di qualità. Tre tetti inclinati anziché due...». Questa Biennale intende dunque spingere l’architetto a “ricomporre” la sua identità dialogando con i colleghi. Sanando poi quella frattura avvenuta tra lui e la società civile, spesso rimasta a guardare le trasformazioni urbane senza avere voce in capitolo. Non così nella regione di Fukushima, in Giappone, dove gli architetti sono diventati anche dei terapeuti dell’anima ferita del Paese e degli stessi individui. Operano localmente per rifondare il senso della comunità. A Motoyoshi si sta ricostruendo il mercato Hidako con i materiali recuperati dallo tsunami, in segno di continuità e di raccolta della memoria collettiva. Toyo Ito, al padiglione del Giappone, porta la sua Home-for-All, una casa comunitaria per gli scampati al disastro, dove questi discutono con gli architetti su come rifare le loro case. Quale miglior esempio di common ground? «Questo riuso fa parte di un linguaggio davvero straordinario, non capita più di dover ricostruire da zero una cittadina, questo purtroppo è il caso. Sono momenti terribilmente straordinari che richiedono di essere affrontati con garbo. Questo fronte aperto in Giappone non trova corrispettivi altrove. Mentre da noi sempre più raramente si trovano architetti in grado di riqualificare quartieri periferici o degradati delle città. Oggi si spaccia l’arredo urbano per nuova architettura. Questa è una manifestazione dell’impotenza dei nostri sindaci. Che non sapendo bene cosa fare stravolgono piazze con fontanelle, panchine retroilluminate, nuove pavimentazioni: così con poche idee e pochi soldi se la cavano». L’Italia non è il Brasile ma in quel Paese, a San Paolo, è in atto un ambizioso progetto di miglioramento abitativo della favela di Paraisópolis (sorta nel 1970 e dove si stima vivano circa 60-80 mila persone) confinante con il ricco quartiere di Morumbi. Favela che più nessuno pensa di radere al suolo (come al tempo della dittatura) ma solo di rendere vivibile portandovi elettricità, fogne, acqua potabile, costruendo alloggi, che però molte famiglie sono restie ad abitare, rimanendo affezionate alle case costruite con le proprie mani. Un dato antropologico rilevante.

Architetto redentore. La nostra spina nel fianco sono invece le periferie. Nella cintura dei paesi attorno a Napoli non è raro imbattersi in cartelli con scritto “vendesi appartamenti abusivi”. «E allora troviamo o no delle occasioni per risolvere questa piaga, in meglio? O facciamo sempre finta che non ci sia? Lasciando che così aumenti il degrado, oltre che edilizio, anche umano. Interventi come quelli a Scampia, basati sull’idea dell’architetto redentore, sono follie! Non è facendo un edificio strano che si crea una società civile nuova. Siccome l’edilizia abusiva nessuno la demolisce, perché i sindaci non chiedono agli architetti di studiare come intervenire su quelle aree?». Su questo argomento, Paolo Baratta si accalora. «Nelle periferie dove sono le idee per ricomporre il baricentro della vita sociale? I nuovi immigrati dove vanno? In una generica banlieu? Dove non c’è neppure un segno della civitas? La riqualificazione comprende edifici, strade, il traffico. Sono vere necessità, eluse dai sindaci forse perché è troppo faticoso occuparsene. Come posso io sindaco di una città come Milano non pensarci, preoccupandomi invece di fare musei di arte contemporanea, che oltretutto nascono privi di collezioni? Il tema di questo secolo è quello del riassetto delle zone industriali. C’è stato uno sviluppo aggressivo dal 1950 al 1980. Occorre occuparsi con urgenza del lascito negativo sul territorio di questa affrettatissima crescita».

Effimero. Provocatoriamente, i curatori del padiglione dell’Estonia si domandano: “Quanto dura la vita di un edificio?”. «Negli Anni 60-70 c’era un’ideologia del ready made, della vita breve: l’architettura vista come un fenomeno dirompente, sempre sulla cresta dell’onda. Stagionale come la moda. Si dichiarava effimera per essere sempre rifatta. L’opposto di quanto sostiene un grande architetto come Botta, che concepisce la costruzione di una casa come un rifugio che deve “pesare” sul suolo, per dare se non il senso dell’eternità, almeno quello di una lunghissima durata». Tra le varie ambizioni di questa Biennale c’è anche quella di diventare un campus mondiale per gli studenti di architettura, e allora la manifestazione passerà da tre a sei mesi. «Un tentativo già fatto nel 2000, ma era troppo presto. Gli architetti si muovono in settembre-ottobre, sono come degli uccelli migratori, che attraversano la laguna in quei mesi. Tic della specie direi... Quando saremo davvero consolidati allungheremo il periodo, per funzionare come un campus. In luglio e agosto gli architetti non vengono... vanno in barca a vela… Ma gli studenti no, e quei due mesi li passeranno qui. E mentre sognano di diventare architetti con la barca a vela possono studiare da noi, acquisendo crediti formativi…». Biennale college, un processo di conquista. «Appena arriviamo a 100 università iscritte al programma (ora siamo a 64) ci penso. Sarà la prossima».