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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

AUTORITRATTO DI UN’ITALIA IN COMA VIGILE

È morto in esilio, in Svizzera, Vittorio Bisso, veneziano di Dolo. È morto alla fine di giugno, quando ha deciso che era giunto il suo tempo. «Perché della mia vita voglio decidere io e mia moglie lo sa», spiegò due anni fa, quando la malattia prese a mordergli l’esistenza.
Aveva 56 anni e la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, il “morbo di Lou Gehrig”, che ti paralizza giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Per questo aveva scelto di fare “testamento biologico”, nominando la moglie Marisa Piovesan quale sua “amministratrice di sostegno” e spiegando che intendeva rifiutare, quando non ci fosse stato più nulla da fare, «qualsiasi accanimento terapeutico». Lo stesso desiderio espresso da Eluana Englaro ai familiari prima di finire immobile, per 17 anni, in un letto di ospedale.
Già assessore allo Sport, Bisso era uno dei trenta italiani che, aggrediti da patologie senza possibilità di guarigione, ogni settimana chiedono informazioni alle cliniche svizzere di Zurigo, Berna e Basilea, lì dove si ricorre all’eutanasia: il sonno senza ritorno che in Italia è pratica vietata.

Un tema “inopportuno”. Se ne è parlato un poco ai tempi dell’“accompagnamento al suicidio” scelto da Lucio Magri, ma dell’inarrestabile flusso degli italiani verso l’esilio elvetico della morte – come nuovi anarchici della vitanonpiùvita –, di questa quotidiana fuga di capitale umano oltre il confine, si preferisce tacere.
L’eutanasia come un tema inadatto da proporre alla maturità di un Paese che – la vicenda di Eluana Englaro lo rammenta bene, con «l’impazzimento mediatico che ha foderato la vita degli italiani per una settimana», come ha spiegato bene Toni Servillo – poco ragiona di testa sua, esce spesso dalla traccia seguendo i “copia-incolla” di riferimento, e alla fine va fuori tema. E pure un po’ fuori di testa.
«Forse perché non abbiamo il Vaticano in casa», ha confessato Isabelle Huppert, «ma da noi, in Francia, la scelta individuale ha un peso. È sorprendente come in Italia la vicenda di una ragazza si sia trasformata in un caso politico e religioso».
Toni Servillo e Isabelle Huppert sono tra i protagonisti – lui, nei panni di un senatore Pdl in crisi di coscienza; lei, Divina Madre di una fanciulla da anni in stato vegetativo – del film Bella addormentata di Marco Bellocchio, uno dei tre titoli italiani in concorso alla Mostra del cinema di Venezia: la città in cui Vittorio Bisso è stato per anni consigliere provinciale e dove gli ultimi sei giorni di vita di Eluana Englaro faranno da quinta al tema forte e “inopportuno” dell’eutanasia.
Con tanto di probabile risveglio finale che sa di risveglio intellettuale, di nuovo slancio dialettico: un esito che sembra rimandare, in qualche modo, all’Aldo Moro del suo Buongiorno, notte che – vivo da morto – continuava a passeggiare, percorrendo memoria e sensi di colpa del Paese.

Tra realtà e luccicanza. Alberto Barbera, il ri-direttore della Mostra, dalla quale era stato allontanato dieci anni fa, ha parlato di «un gruppo di registi italiani che, tagliati i cordoni ombelicali e i debiti con la commedia dei ’60 e con il cinema civile, propongono una lettura del reale veramente originale». Che sta, probabilmente, in un ribaltamento temporale: non più rivisitazione di una cronaca, una storia, una condizione, ma la capacità di anticiparle, leggendo tra le pieghe a venire. Una sorta di luccicanza, riguardo la realtà nostrana.
Prendete È stato il figlio di Daniele Ciprì, uno degli altri due film italiani in concorso – ancora con Toni Servillo – ambientato in una Palermo-Zen che sembra un ferro vecchio, come quelli tra i quali armeggia il protagonista Nicola, pater familias di un focolare in decomposizione, del quale un aedo locale canta le gesta, a cominciare dalla vicenda della bimba – sostituita da una bambola nel dagherrotipo familiare – uccisa da una pallottola vagante destinata a un mafioso. Una morte risarcita dallo Stato con una cifra sprecata dalla famiglia Ciraulo per indebitarsi (come sta accadendo sempre più spesso in questo Paese) e per acquistare, col denaro rimanente, una Mercedes fiammante da poter ostentare, altro verbo ausiliare di questo Paese.
A causa di quell’auto, quasi un simulacro, e di un graffio sulla sua carrozzeria, la famiglia Ciraulo andrà in cenere, perché la portiera rigata – dopo che «Nicola ha bruciato il poco che gli resta nella Mercedes», ha spiegato il regista – scatenerà il padre contro il figlio, il figlio contro il padre.
Dove sta la “luccicanza” di Ciprì? Nell’aver riprodotto la quotidianità palermitana senza spartito davanti, avendone inteso (e anticipato) il senso: il 7 agosto scorso, giusto a Palermo, vicino a corso Calatafimi, un’auto è finita bruciata. L’auto qualsiasi: di un carabiniere, parcheggiata a due passi da casa sua. La bombola di gas, sistemata vicino al veicolo, è esplosa come un tuono. Un’intimidazione che poteva fare delle vittime, proprio come la bimba dei Ciraulo, criminale “effetto collaterale” di un attentato di mafia. Un’intimidazione a seguito di qualche inchiesta tosta svolta dal carabiniere, in forza alla compagnia di Bagheria e scaricata sulla sua auto, sul suo bene mobile, sul simulacro da colpire: una Mercedes. Come quella di casa Ciraulo.

Non è un Paese per figli. La ragazza in sonno di Bellocchio. La bambina morta di Ciprì. A Venezia le due opere non si incrociano soltanto per via dell’identico tecnico di montaggio (Francesca Calvelli, moglie di Bellocchio) o perché Daniele Ciprì è il direttore della fotografia di entrambe le pellicole: tutti e due i film raccontano l’eutanasia di un Paese, un tempo di successo e affascinante come la Divina Madre di Bellocchio, che ha distrutto la famiglia per stare dietro alla Bella addormentata: l’eutanasia di un’Italia in crisi morale e finanziaria, come la famiglia Ciraulo. Una terra colpita dalla siccità civile che può partorire perfino una guerra tra nuovi poveri: tra padri e figli, come nel film di Ciprì. L’auto rigata come la goccia che fa traboccare la ferocia, annuncio del coma sociale.
E forse non è un caso che, sia Servillo, sia Ciprì, in due recenti interviste, abbiano pronunciato, in contesti diversissimi tra loro, praticamente la stessa frase. Non sul film, sui film, ma sull’Italia di domani. Servillo: «I miei figli hanno 15 e 9 anni. Bisogna dar loro orientamenti in cui credere e per cui combattere. E invece da noi si è creduto che la vita fosse una passeggiata, l’ossessiva ricerca della felicità a buon mercato». Ciprì: «Quando guardo mio figlio, che ha 13 anni, mi chiedo cosa dirgli. Come spiegargli tutti i guai commessi in questo Paese negli anni passati? Come confessargli che per lui non ci sarà nessun futuro?».

Mai più auto blu. Venezia 2012, declinata all’italiana, appare davvero una predizione sui tempi, nell’attesa che si compia un miracolo – come il risveglio inatteso in Bellocchio – e si arrivi una buona volta al punto e a capo. In cui una certa ottusità si faccia, a dispetto della linea dell’orizzonte che sfuma sempre più, un’acutezza visiva finalmente nuova.
Come sembra suggerire Un giorno speciale di Francesca Comencini, terzo titolo italiano in concorso: un addio senza nostalgia, e ci mancherebbe, a una stagione di velinismo raccomandato e di auto blu, quelle che in otto mesi, secondo i dati forniti dal ministro Patroni Griffi, «sono state tagliate del 16% con un risparmio di 280 milioni di euro l’anno, anche se l’obiettivo da raggiungere era il -20%, nell’attesa di arrivare al -50% nel 2013».
Barbera lo aveva chiarito già il giorno della presentazione del festival: «La crisi sarà il filo conduttore della Mostra, da quella economica che sta provocando effetti devastanti tra le persone, a quella politica».
E se È stato il figlio e Bella addormentata sono “lo stato delle cose”, Un giorno speciale è ciò che potrebbe avvenire, il futuro come un tempo nuovo, non più anteriore déjà vu: questo annuncia la giovane coppia protagonista del film: due precari come stagione comanda. Due precari che reclamano indietro la loro vita: sia lei, che aspettava di presentarsi allo sportello del politico di turno per provare a entrare nel mondo dello spettacolo; sia lui, scarrozzatore dei privilegi, autista di quello stesso onorevole, che lo sportello (della macchina blu) deve spalancare alla Casta. Un incontro casuale, il loro – lui è il driver e deve condurre lei all’appuntamento, di volta in volta rimandato – che si trasforma in un abbandono generazionale, convinto e maturo, di un pessimo costume.
A suggellarlo ci sarebbe stata benissimo – a confermare tanti rimandi e un filo conduttore della Mostra – la frase che lo psicologo Roberto Herlitzka pronuncia davanti al senatore Toni Servillo in Bella addormentata: «I politici sono degli infelici, sembrano dei ricercati, vagano per il centro. La televisione non li chiama».

Disoccupazione giovanile. Se la scorsa estate “Spidertruman” – il nickname che s’era scelto un anonimo exportaborse di Montecitorio, licenziato dopo 15 anni di precariato – aveva postato su Facebook “I segreti della Casta”, raccontando di furti in Transatlantico e di tariffe telefoniche agevolate, di voli di Stato per i parenti e di auto blu per le amanti; questa estate, a Venezia, la rabbia sottopagata diventa – nel film della Comencini – la scommessa di chi pensa e vuole avere di meglio.
Anche se il dato di agosto sulla loro generazione è doloroso e fa male: il tasso di disoccupazione giovanile in Italia, quello che riguarda la fascia dai 15 ai 24 anni, è salito ormai al 34,3 per cento. Come dire: più di 600mila ragazzi e ragazze sulla soglia del niente, all’età in cui dovrebbero farsi carico di sé e pure di un Paese che per loro espone ogni giorno il no-vacancy. Non c’è posto per voi, siamo già al completo, provate a ripassare.
Un Paese dove la famiglia un tempo paraurti, da quella dei Ciraulo a quella de Gli equilibristi di Ivano Di Matteo (a Venezia nella sezione “Orizzonti”) – con casa in affitto, posto fisso e auto a rate finché la favola non arrugginisce – oggi salta in aria.

Le rotte del cinema. Insomma di questa Italia, qui e adesso, non parlano soltanto i tre film in concorso. Anche la famiglia romena Petrescu che entra, nella persona di Catrinel Merlon, nella vita di Luigi Lo Cascio ne La città ideale (che è Siena), unica pellicola di casa presente alla “Settimana internazionale della Critica”. Ma anche le adolescenti Cate e Luna di Bellas Mariposas di Mereu (sezione Orizzonti), dal racconto di Sergio Atzeni, che vivono nello sfascio urbano e sociale della periferia cagliaritana nell’attesa di un delitto e del nulla. Entrambe favole gialle, morale l’una e disturbante l’altra, del nostro paesaggio urbano e suburbano, abitato da tanti nuovi italiani e da tanti italiani che non si sentono più tali.
In un continuo mutare delle rotte della tragedia e della speranza, delle quali “Venezia 2012” racconta la capostipite: la linea d’esodo da Durazzo a Bari, dall’Albania alla Puglia, percorsa da La nave dolce di Daniele Vicari (Fuori concorso) che nell’estate del 1991, stivata di zucchero e di 18mila profughi, toccò le coste d’Europa e d’Italia, tanto da ridisegnarle entrambe. Un film che rappresenta l’unico legame apparente con la scorsa edizione della Mostra: dal Crialese di Terraferma, ovvero le coste siciliane all’indomani della primavera araba, fino al Vicari degli “antichi albanesi”, mentre i 160 profughi sbarcati l’8 agosto a Crotone dalla Siria – una terza rotta, appena inaugurata dalla Storia – chissà se si faranno, un giorno, soggetto e sceneggiatura.

Tra miserie e cartoline. «Carla fu tenuta prigioniera e violentata su ordine della donna del capoclan camorrista». E ancora: «Giovane ucraina trovata morta vicino all’autostrada. Vittima del racket della prostituzione dell’Est?». Sono due titoli di giornale, due storie di cronaca – una più nota, l’altra dimenticata –, due miserie d’Italia: non un Paese per donne, si sa. Ché le statistiche di violenze e femminicidi non fanno sconti al “machismo” miserabile che abita da noi.
E Venezia, sezione Orizzonti, anche tutto questo prova a raccontare, mostrando come le sensibilità di Leonardo Di Costanzo, autore de L’intervallo e di Carlo Sironi, regista di Cargo, vadano – all’insaputa l’uno dell’altro – nell’identica direzione. Nel lungometraggio L’intervallo, la giovane Veronica ha fatto uno sgarbo al camorrista che l’ha rinchiusa in attesa di punirla: a farle da guardiano il 16enne Salvatore. Nel “corto” Cargo, Alina è una prostituta ucraina nelle mani del racket romeno: a Jani, un ragazzino, il compito di controllarla e di portarla ogni giorno sulla strada.
Alla fine, Salvatore diventerà amico e complice di Veronica, mentre Jani arriverà ad ammazzare il boss romeno per salvare e liberare Alina. Assegnando, entrambi i film, alla nuova generazione che albeggia l’unica possibilità di guardare le donne e il domani in altra maniera. Facendosi carico, infine, delle proprie responsabilità.
Altrimenti saremo costretti a restare un Paese di cartone: la solita Bella Italia – neanche più tanto ormai – da cartolina: quella che alla Mostra del cinema farà da fondale al matrimonio danese, in trasferta, di Love Is All You Need di Susanne Bier, che ha girato a Sorrento, in una villa con limonaia che guarda da lontano Napoli, mostrandola però solo in dissolvenza.

Eppure la Mostra bagna Napoli. Lì, dove Jonathan Demme, in Enzo Avitabile Music Life – proprio attraverso la musica di Enzo Avitabile, un grande italiano di cui non ci curiamo, metafora (musicale) del patrimonio che ignoriamo e mandiamo a male – fissa il suo sguardo, tra ricchezza culturale e povertà civile, degrado e passione, e ogni altra contraddizione. Lì a Napoli, dove si gioca, fra tutte le città d’Italia, la partita più dura tra ciò che è Stato, anche in termini di legalità, e ciò che sarà. “Venezia 2012” come la biografia, girata e aggiornata, della nazione.