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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

QUANDO LA CIA PROMUOVEVA POLLOCK PER INDISPETTIRE STALIN

Con la fine della guerra, nel 1945, finì anche il breve idillio tra lo Zio Sam e lo «Zio Joseph», il padreterno che sedeva sul trono del Cremino. Washington, che si stava attrezzando per la guerra fredda dotandosi del suo primo servizio segreto permanente, trasformando l’Oss del tempo di guerra nella Cia, s’attrezzò anche per la «guerra psicologica»: una guerra d’ombre culturale che il Soviet supremo, attraverso le sue succursali estere, i partiti comunisti nazionali, aveva dichiarato all’Occidente fin dal 1917, il giorno dopo la presa del Palazzo d’Inverno, e che gli Usa decisero di combattere a loro volta, raccogliendo la sfida. Anche la fiaccola di questo conflitto — come raccontava Frances Stonor Saunders in un grande libro, uscito qualche anno fa ma ancora reperibile, La guerra fredda culturale, Fazi, pp. 512, 21,50 — venne affidata ai ragazzi della Cia.

Fu attraverso il Congresso per la libertà della cultura, che all’inizio degli anni Cinquanta diffuse un manifesto degl’intellettuali antitotalitari, da Arthur Koestler a Mary McCarthy, da Isaiah Berlin a James Burnham, che cominciò il gioco della propaganda e dell’antipropagranda, parente stretto e, per così, dire in ghingheri del gioco delle spie e delle controspie. Con la copertura del Congresso per la libertà della cultura, un’organizzazione internazionale che in breve raccolse nelle sue fila i più importanti intellettuali anticomunisti dell’epoca (citiamo ancora Benedetto Croce, Denis de Rougemont, Carl Schmid, Raymond Aron, John Dewey, Albert Camus, Karl Jaspers, Jacques Maritain, Bertrand Russell, Salvator de Madariaga) e che aprì sedi pubbliche in tutto il pianeta, la divisione culturale della Central intelligence agency organizzò convegni e sovvenzionò riviste, tra le quali anche l’italiana Tempo presente, diretta da due ex comunisti, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Proprio gli ex comunisti furono i protagonisti di questa avventura, che vide la Cia (sembra di sognare, e del resto l’amorazzo non durò per sempre) promuovere con i suoi fondi segreti le attività della sinistra critica e libertaria nell’intero Occidente, tanto che pochi anni dopo (come si può leggere in L’Italia vista dalla CIA 1948-2004 di Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari, Laterza, pp. 385, euro 18,00) ebbe un occhio di riguardo anche per la trattativa tra socialisti e democristiani che portò alla nascita del centrosinistra italiano. Con l’occasione, la Cia promosse in tutto il pianeta, dall’India all’Australia, anche megaconcerti di musica dodecafonica e d’avanguardia, musica «degeneratissima» alle orecchie di Stalin. Fu sempre il servizio segreto americano a finanziare e promuovere anche la marcia trionfale dell’«espressionismo astratto americano», e in particolare a sostenere le opere di Jackson Pollock, che veniva celebrata, tra le altre cose, come «la risposta americana al realismo socialista sovietico».

Quella che si raccoglieva intorno al Congresso per la libertà della cultura era una Cia trendy, da cocktail party e da Pen Club. Niente colpi di Stato in Cile o in Guatemala, e niente gadget ipertecnologici alla James Bond. Era un’Agenzia che Robert Ludlum e Tom Clancy, dall’alto delle loro spy stories ad alta gradazione fumettistica, non avrebbero mai messo in scena nei loro romanzi: troppo «alta» e letteraria per i gusti dei loro lettori bambini. Ma il Congresso per la libertà della cultura era nondimeno un’organizzazione segreta, il cui scopo era lo stesso della Cia tradizionale, quella impegnata a cacciare Fidel Castro e Che Guevara da Cuba nelle altre avventure di cappa e spada: «vincere la terza guerra mondiale senza combatterla». Anche per questa Cia elegante e raffinata si trattava di piegare «la mente e la volontà» del pianeta ai valori americani e agli obbiettivi della politica estera perseguiti dagli strateghi della Casa Bianca.

Alla fine, come succede sempre con i segreti custoditi dalle spie, tutta la storia venne alla luce. Ne seguì uno scandalo dal quale il Congresso per la libertà della cultura non si riprese più. Forse fu la stessa Cia, si dice, a mettere in piazza i suoi manager culturali, di cui disapprovava l’ideologia e lo stile di vita. Era la fine degli anni sessanta, del resto, e gli Usa erano sotto tiro all’interno e all’estero. Tutti o quasi negarono, contro ogni evidenza, d’avere militato consapevolmente sotto la bandiera dell’Agenzia: erano stati ingannati, erano stati attirati in una trappola. Non era vero, naturalmente. Sapevano bene quello che facevano. Come sapevano che fu anche grazie alle spie e agli «agenti d’influenza» anticomunisti reclutati e messi all’opera dalla Cia che il marxleninismo dovette sudarsi la sua egemonia sulla cultura (per poi perderla d’un tratto, catastroficamente).