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 2012  agosto 24 Venerdì calendario

TUTTI I RISCHI DEL SUPERFRANCO

Nella terza guerra mondiale combattuta sul campo dell’economia e delle valute nessuno può permettersi il lusso di restare neutrale. Nemmeno la Svizzera, che è stata costretta a indossare l’elmetto e a scendere in trincea: dal 6 settembre 2011 la Banca Nazionale (Snb) ha fissato a 1,20 il cambio minimo del franco svizzero rispetto alla moneta unica. Mossa decisa dopo che il valore delle due valute aveva quasi raggiunto il pareggio, creando non pochi danni all’export elvetico. «Se gli argini dell’Europa cedono, anche noi ci ritroveremo a dover lottare contro il naufragio», ha spiegato con toni biblici la presidente della Confederazione elvetica, Eveline Widmer-Schlumpf. Tradotto: in caso di crac dell’euro ci potrebbe essere una corsa all’acquisto del franco svizzero. Il superfranco si apprezzerebbe, soffocherebbe le esportazioni e alimenterebbe il tasso di disoccupazione.
La linea Maginot segnata dagli svizzeri in questa battaglia delle valute è stata apprezzata dal Fondo monetario internazionale, sottolineando però, che si deve trattare di una soluzione temporanea. Del resto la storia insegna: l’ultima volta che Berna fissò il cambio, nel 1978, l’inflazione schizzò quattro anni dopo al 6 per cento. Non solo. Per la Banca Nazionale Svizzera restare ancorati alla soglia di cambio sta diventando un’impresa: ad aprile il tetto è stato sfondato un paio di volte, «perché, per motivi incomprensibili, certe banche erano disposte a vendere euro al di sotto del tasso minimo», ha detto il presidente della Snb, Thomas Jordan.
Il rapporto euro/franco svizzero va dunque tenuto artificialmente sotto quella linea acquistando quantitativi illimitati di valuta estera se la situazione dovesse precipitare o se dovessero emergere rischi deflattivi. Dopo l’appesantirsi della crisi della moneta unica, tra maggio e giugno di quest’anno, la banca centrale ha così acquistato euro per un valore complessivo di 3 miliardi di franchi. Risultato, le riserve in valuta straniera nelle casse della Confederazione sono schizzate del 40 per cento a un volume pari al 69 per cento del Pil, e conquistando il sesto posto in qualità di detentore di valuta estera dopo Cina, Giappone, Arabia Saudita, Russia e Taiwan.
La speranza della banca centrale è che la crisi dell’eurozona si allenti, permettendo ai trader di liberarsi degli euro accumulati. Nel frattempo, le riserve vengono differenziate acquistando dollari australiani o corone svedesi. Per ora gli interventi a favore dell’euro non hanno creato problemi: la crisi che attanaglia i Paesi vicini ha evitato che il potenziale inflazionistico rappresentato dai franchi messi in circolazione diventasse virulento. Quanto ai conti dell’istituto, che è controllato dai 26 cantoni ma quotato sulla Borsa di Zurigo, nel primo semestre hanno fatto registrare un utile di 6,5 miliardi di franchi rispetto alla perdita di 10,8 miliardi dello stesso periodo del 2011. La Confederazione può inoltre contare sulla solidità patrimoniale di due colossi sistemici del credito come Ubs e il Credit Suisse. Fin qui, dunque, la Banca centrale ha gestito bene l’emergenza superando anche, nel gennaio scorso, le dimissioni dell’ex presidente Philipp Hildebrand consegnate dopo lo scandalo valutario che ha coinvolto la moglie. Il governatore era finito nell’occhio del ciclone per alcune operazioni di compravendita effettuate sul mercato valutario dalla consorte, Kashya, ex trader per un fondo americano: la signora Hildebrand avrebbe tratto beneficio proprio dalla decisione della Banca centrale, guidata dal marito, di fissare il limite invalicabile al ribasso di 1,20 franchi per un euro.
Ma quanto può durare questo esercizio di alta acrobazia? E quali potrebbero essere gli effetti collaterali sull’economia reale dei cantoni? Qualcuno paragona l’indice della valuta elvetica a un orologio svizzero costoso: tecnicamente di grande effetto ma con costi esorbitanti. L’acquisto di euro sta correndo ad una velocità maggiore rispetto ai tentativi di rivenderlo scambiandolo sul mercato con divise ritenute più pregiate. Da una parte, quindi, l’istituto centrale deve frenare un franco troppo forte per l’export svizzero e dall’altra deve evitare di ingozzarsi ulteriormente di euro, esponendosi al rischio di ingenti perdite sui cambi in caso di discesa della moneta europea. Ogni volta che la Banca Nazionale svizzera tenta di cedere euro per alleggerire le sue riserve, aumenta il rischio di sfondare la linea Maginot di 1,20. In altri termini, la difesa illimitata della soglia espone la Snb a perdite sui cambi proprio per il fatto di dover acquistare euro. «Fissando un tetto, se pur necessario, al franco», sottolinea Fabrizio Quirighetti, capo economista di Banca Albertini Syz, «si impediscono i fisiologici aggiustamenti del mercato. Il problema è che se la Banca centrale svizzera scende sotto la soglia di 1,20 non solo perde credibilità ma incamera forti perdite. E considerando che oggi le riserve sono il 70 per cento del Pil, questo diventerebbe un grosso problema». E dal punto di vista dell’investitore? Secondo l’esperto non ha più senso considerare il franco svizzero un bene rifugio. Meglio puntare sul dollaro che è sottovalutato o, altrimenti, acquistare immobili in Germania: in caso di break up dell’euro, l’investitore si ritrova con un attivo quotato in marchi tedeschi. «Comprare franchi svizzeri», aggiunge Quirighetti, «è un’assicurazione troppo costosa. Se la situazione per l’euro dovesse migliorare, in tre quattro anni forse, il franco potrebbe perdere molto. Se invece l’Europa crolla, la Svizzera che si trova nel cuore del vecchio Continente non venderà più niente agli altri paesi. È un po’ come se nel mio palazzo ci fosse una bomba e io, per salvarmi, mi spostassi sul balcone».
Ai dubbi dei tecnici della finanza si aggiungono quelli dei politici e dei rappresentanti delle categorie economiche. I primi sono molto attenti alla salute della Snb poiché i dividendi dell’istituto rappresentano un importante fonte di finanziamento dei cantoni, e c’è chi, come il partito socialdemocratico, vorrebbe alzare la soglia del franco a 1,30.
Quanto all’industria svizzera, in gran parte orientata all’esportazione, è grata alle autorità per esser riuscite a mantenere un parametro stabile per le decisioni imprenditoriali. Le esportazioni elvetiche sin qui hanno resistito bene grazie anche all’ancora del cambio. Ma l’immunità non è garantita: a causa della crisi nell’Eurozona i prezzi del commercio al dettaglio - è l’ultima stima dell’istituto di ricerca BakBasel - dovrebbero scendere del 2,4 per cento nel 2012, con un impatto sui fatturati delle aziende. Meglio restare in trincea.