Antonio Carlucci, l’Espresso, 24/8/2012, 24 agosto 2012
ROMNEY PUÒ VINCERE
Gli piacciono le idee del repubblicano Mitt Romney sull’economia, ma il programma è ancora generico, privo di dettagli. E la scelta di un giovane rampante come Paul Ryan come candidato a vice presidente può far salire l’entusiasmo tra gli elettori repubblicani. Ma questa competizione e questi candidati non piacciono più di tanto a Mortimer Zuckerman, 75 anni, immobiliarista miliardario, editore di giornali ("The Daily News"e "Us News & World Report"), direttore di "Us News", esponente di spicco della comunità ebraica, filantropo. E, soprattutto, democratico convinto che dopo un solo anno ha puntato il dito contro il presidente Obama dicendo che stava sbagliando tutto. Alla vigilia della convention repubblicana a Tampa, in Florida, Zuckerman parla di Romney e di Obama, dei programmi del primo e degli errori del secondo. E dice che gli americani si trovano nella condizione di dover scegliere il male minore.
Mister Zuckerman, dall’inizio del 2010 lei ha criticato pubblicamente il presidente Barack Obama per le sue scelte economiche e ad aprile scorso ha scritto che ha fallito. Che cosa pensa delle ricette economiche che propone lo sfidante Mitt Romney?
«Ci sono molti elementi con cui sono in accordo. Ma in questo momento mancano i dettagli che sono l’essenza della vita. A cominciare da due. Primo, le misure per tenere sotto controllo il deficit fiscale americano. Secondo: se si tagliano le tasse, non si sa ancora come ogni dollaro in meno di entrate sarà accompagnato dalla eliminazione di privilegi fiscali in misura eguale. Lo ripeto, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli».
Che tipo di presidente è necessario oggi per gli Stati Uniti?
«Ho lavorato per due presidenti di grande livello. Ronald Reagan, capace di prendere decisioni i cui effetti positivi ci sono ancora, come la scelta di aumentare i contributi del Social Security (è il sistema pensionistico federale, ndr.) e di ridurne i benefici per salvare un fondo del valore di 25 miliardi di dollari che oggi ne vale 2.800. E Bill Clinton, il presidente che più di tutti ha saputo interpretare l’evoluzione dell’economia, capirne i meccanismi e prendere le decisioni giuste».
Questo fa parte del passato. Chi può essere paragonato oggi a Reagan o Clinton?
«Cerchiamo di fare il meglio che possiamo con quello che abbiamo. Ma il guaio vero è la scomparsa della buona abitudine di trovare soluzioni condivise per i problemi più importanti. Basta vedere il disinteresse che c’è stato sia da parte repubblicana sia da parte del presidente Obama sulle proposte della commissione sul deficit fiscale da lui stesso voluta e affidata a due senatori, il democratico Eskine Bowles e il repubblicano Alan Simpson. La situazione è più grave di quanto appare. La disoccupazione non è all’8,2 per cento, ma sfiora il 15 perché i numeri ufficiali tengono conto solo di coloro che hanno cercato attivamente un lavoro nelle quattro settimane prima del censimento. E milioni di uomini e donne che potrebbero andare in pensione hanno rinunciato e continuano a lavorare perché i loro fondi pensione sono stati svalutati dalla crisi».
La Casa Bianca ha sempre sostenuto che in questi anni i repubblicani hanno detto no a qualsiasi proposta democratica senza tenere conto del contenuto dei provvedimenti.
«Sarà anche accaduto, ma il presidente non è stato capace di rapportarsi con il Congresso. Le racconto un episodio. Ho incontrato poco tempo fa l’ex numero uno e l’attuale del Financial Services Committee della Camera, il primo democratico, il secondo repubblicano. Mi hanno raccontato che in tre anni e mezzo non hanno mai ricevuto una sola telefonata dal presidente. Il sistema non può funzionare così».
Con il voto del prossimo 6 novembre, Mitt Romney vuole prendere il posto di Obama. È un buon candidato e, soprattutto, può essere un buon presidente?
«Negli Stati Uniti, quando un elettore si trova a dover scegliere tra due candidati che non gli piacciono, alla fine vota colui che farà meno danni. Detto questo, Mitt Romney è stato sicuramente un buon amministratore delegato. Lo ha dimostrato rimettendo a posto i conti delle Olimpiadi invernali di Salt Lake City, creando la Bain Capital, facendo il governatore del Massachusetts. Ma il dono di essere un buon politico che sa governare una nazione è tutt’altra storia. Aspettiamo e vediamo».
Romney ha scelto come candidato vice presidente Paul Ryan, un giovane deputato che sicuramente non è un moderato né dal punto di vista fiscale né da quello sociale. Come giudica il ticket?
«All’inizio, ho pensato che la scelta non fosse utile ad allargare la base per la candidatura Romney. Poi, ho cambiato opinione e credo che, pur non essendo questo ticket il migliore in assoluto, ha dato energia alla campagna del candidato repubblicano e ha messo a fuoco la questione fiscale visto che Paul Ryan è l’autore della Roadmap for American Future, un piano centrato sulle questioni della spesa pubblica e del deficit».
Il primo viaggio all’estero di Romney - Gran Bretagna, Polonia e Israele - ha ricevuto più commenti critici che consenso. Soprattutto per i giudizi sulla capacità inglese di gestire le Olimpiadi e quelli sulla capitale di Israele e sulle differenze culturali tra arabi e israeliani in relazione allo sviluppo economico. Come giudica le proposte di politica estera del candidato repubblicano?
«A mio parere quelle che sono state definite le gaffes di Romney non vanno prese seriamente. Diciamo che i media erano alla ricerca anche dei più insignificanti dettagli del viaggio e li hanno amplificati».
Beh, lei è anche editore e direttore, sa bene come i media coprono gli eventi e seguono un candidato alla Casa Bianca...
«Naturalmente. Comunque, sulla questione delle Olimpiadi (ha criticato fortemente l’organizzazione, ndr.) poteva essere più generico e girare intorno alla domanda, mentre in Israele non parlava seriamente (ha detto che gli ebrei sono culturalmente superiori e questo si riflette sull’economia e ha aggiunto che Gerusalemme è la capitale d’Israele, ndr.)».
Ma la questione Israele è centrale nella politica di ogni candidato presidente.
«Certo che lo è. E Romney è stato chiaro sulla questione del supporto americano verso Israele e sul modo di metterlo in atto concretamente».
Tornando alle questioni economiche, non le sembra abbastanza povero un dibattito in cui il confronto è esclusivamente tra il taglio delle tasse e la spesa pubblica?
«Ci vogliono compromessi in politica. La strada, lo ripeto, l’hanno indicata i senatori Bowles e Simpson che riuniscono in un solo progetto la riforma di alcune spese con l’aumento delle entrate».
Pensa che Romney e i repubblicani siano capaci di una politica bipartisan e di compromesso se conquistano la Casa Bianca?
«Obama non ha seguito questa strada. Eppure Bill Daley che è stato il suo chief of staff per oltre un anno e con Clinton Segretario al Commercio ha sempre detto che fare politica è un business di relazioni personali, non di sparate ideologiche».
Perché nel Congresso si è creata una situazione di muro contro muro?
«Una spiegazione completa non la possiedo. Ma so per esempio che il ruolo di alcune televisioni e di alcuni media è stato quello di aumentare l’attenzione su ciò che divide i democratici dai repubblicani. Se tutto questo avviene in un momento in cui l’economia non funziona, è più difficile mantenere relazioni personali utili alla soluzione dei problemi».
Nel 2008, il suo "Daily News" appoggiò in modo ufficiale Barack Obama. Rinnoverà l’endorsement anche quest’anno nonostante l’editore sia così critico con il presidente?
«Legga il quotidiano e lo saprà».
Mister Zuckerman, lei si è sempre dichiarato un democratico e nel 2008 ha votato per mandare Obama alla Casa Bianca. A chi andrà il suo voto il prossimo 6 novembre?
«Non voterò Obama e proprio perché sono sempre stato un elettore democratico sono sgomento dagli errori e dalla mancanza di risultati del presidente».
Allora voterà Romney?
«Non so se Romney può vincere. So però che Obama può perdere».