Francesco Dendena, Panorama, 24/8/2012, 24 agosto 2012
FRANÇOIS FA IL SOCIALISTA REALE
Quando, all’inizio della campagna elettorale, gli chiesero che tipo di presidente avrebbe voluto essere, Francois Hollande si limitò a rispondere: «Un presidente normale». La risposta fece sorridere l’occupante dell’Eliseo di allora, Nicolas Sarkozy, convinto di potere battere uno sfidante senza esperienza di governo. E suscitò qualche perplessità persino nei ranghi del Partito socialista: un presidente normale poteva davvero occupare il posto ii Charles De Gaulle e Francois Mitterrand e guidare la République? Conosciamo il seguito: è proprio costruendo la sua campagna elettorale attorno all’idea di normalità che Hollande ha saputo vincere (non di molto) il duello con l’uomo forte della destra francese e riportare la sinistra all’Eliseo dopo 17 anni esatti. Ma questa idea di normalità era solo un azzeccato messaggio elettorale per smarcarsi da un avversario a cui l’opinione pubblica, fra le altre cose, non aveva perdonato gli eccessi dei primi anni di mandato, oppure riassumeva un progetto che, a 100 giorni dall’insediamento, si è tradotto in una serie di misure concrete? Insomma, per riprendere un altro slogan del candidato socialista, dal sapore vagamente sessantottino, «il cambiamento è [davvero] adesso»? Ad ascoltare le opposizioni, no. La sinistra radicale e la destra conservatrice sono d’accordo nel dire che per ora nessuna grande riforma è stata votata dal parlamento e che le sole emozioni dell’estate francese le hanno offerte gli atleti impegnati alle Olimpiadi di Londra. Semplice dialettica politica estiva? Non proprio. Come mostra un recente sondaggio dell’Ifop, il 56 per cento dei francesi si dichiara perplesso e disapprova l’attendismo e la prudenza di Hollande, dicendosi convinto che gran parte delle misure promesse in campagna elettorale, alla fine, non sarà realizzata. Un altro sondaggio sulla sua popolarità, alla fine di luglio, lo dava inchiodato al 51 per cento dei favori, lo 0,5 per cento in meno rispetto al giorno dell’elezione.
Siamo in effetti lontani mille miglia dai primi 100 giorni di Sarkozy, che nel 2007 furono contraddistinti da un clamoroso decisionismo, culminato nella grande riforma liberale dell’economia che alleggerì la tassazione sui grandi patrimoni e sul lavoro (la legge Tepa) e, persino, nella teatrale liberazione delle infermiere bulgare dalle prigioni di Tripoli.
Nei suoi primi tre mesi di governo Hollande non può vantare nulla di simile al suo attivo. Volutamente. L’attuale inquilino dell’Eliseo ha trasformato il concetto di normalità da slogan elettorale in un metodo di governo che rompe con l’iperpresidenza di Sarkozy. Se quest’ultimo aveva fatto del volontarismo il suo marchio di fabbrica, Hollande ha scelto di interpretare diversamente il ruolo del capo dello stato, volendosi più garante dei valori della Repubblica francese e meno leader carismatico, più consensuale e meno partigiano per evitare di lacerare una società impoverita dalla crisi e scettica nei confronti di Bruxelles (secondo un sondaggio di Eurostat pubblicato in luglio, il 59 per cento dei francesi è convinto che la crisi nel loro paese peggiorerà nei prossimi mesi).
Un simbolo del metodo Hollande è stato la grande conferenza sociale che si è tenuta il 9 e il 10 luglio nella capitale. Il presidente e i ministri del suo governo hanno incontrato sindacati, associazioni di categoria, imprenditori per ascoltare i problemi del mondo del lavoro prima di varare le riforme per rilanciare l’economia. Due giorni in cui tutti gli attori si sono ritrovati per confrontarsi e per proporre le loro ricette. Se i critici, come l’ex primo ministro François Fillon, vi hanno visto una perdita di tempo di fronte all’aggravarsi della crisi (la Francia sfiora per il terzo trimestre consecutivo la crescita zero; il deficit pubblico resta ampio), dall’Eliseo hanno preferito sottolineare che la conferenza realizzava una delle principali promesse elettorali del candidato socialista: ridare spazio a quei corpi intermedi che nel quinquennio precedente erano stati marginalizzati. E questa tavola rotonda sul lavoro sarà seguita nelle prossime settimane da altre, in particolare sulla scuola. Il cambiamento si concretizza prima di tutto attraverso un diverso esercizio della democrazia, alla politica dell’annuncio si è sostituita la politica del dialogo.
I primi tre mesi sono stati un tentativo di restituire credibilità alla politica grazie alla realizzazione immediata, anche se parziale, delle promesse annunciate in campagna elettorale piuttosto che con il lancio di grandi riforme il cui effetto si sarebbe visto sul lungo termine. È in questa logica che rientra una riduzione dello stipendio del 30 per cento del capo dello stato e dei ministri e l’applicazione di un tetto massimo per gli stipendi dei dirigenti pubblici a 450 mila euro lordi all’anno. Il socialismo «à la sauce Hollande» è una politica il cui orizzonte è il quotidiano, in cui il cambiamento avviene passo dopo passo.
Più che a Mitterrand, insomma, Hollande si ispira a Michel Rocard e a Jacques Delors, i padri nobili e sempre sconfitti della socialdemocrazia francese. La scelta non è esente da rischi, ma nell’immediato questo approccio si è tradotto nell’approvazione di una serie di misure che, considerate nel loro insieme, hanno tracciato un cammino alternativo a quello preconizzato dagli inflessibili scout di Francoforte e Berlino.
Se sul piano europeo Hollande non è riuscito a cambiare in maniera sostanziale le posizioni della cancelliera, e si è fatto garante del rispetto degli impegni economici presi dal suo predecessore, quali riportare il rapporto tra deficit e pil al 4,5 per cento da qui a fine anno (nel 2011 era al 5,7 per cento) e raggiungere il pareggio di bilancio nel 2017, nondimeno il presidente ha imposto una gestione collegiale della crisi e ha di fatto offerto una sponda politica al presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, impegnato in una difficile partita con Berlino per aiutare i paesi più in difficoltà.
È soprattutto in campo nazionale, però, che l’arrivo al potere di Hollande ha portato i cambiamenti più palpabili. La necessità di trovare nuovi introiti fiscali ha comportato, certo, un aumento generalizzato delle tasse, ma anche a una ridistribuzione in due tempi dello sforzo fiscale. Dapprima il governo ha abolito gli sgravi fiscali per la famiglie più ricche e per le grandi aziende, chiedendo invece loro un contributo straordinario, poi ha cancellato l’aumento dell’iva decretato da Sarkozy, che avrebbe pesato sulle classi meno abbienti.
Un’altra promessa elettorale rispettata è stata la creazione di un tetto massimo sugli affitti (a Parigi aumentati del 50 per cento in 10 anni e del 3,2 l’anno scorso). Nelle grandi agglomerazioni i proprietari non potranno aumentare indiscriminatamente il costo dell’affitto di un appartamento messo di nuovo sul mercato, ma dovranno rispettare delle griglie stabilite da un’autorità indipendente. Questa misura si aggiunge all’aumento del salario minimo del 2 per cento decretato in luglio e al possibile blocco dell’aumento del prezzo dei carburanti per tre mesi, che potrebbe entrare in vigore le prossime settimane, qualora la tendenza attuale al rialzo dovesse confermarsi.
Pur nei ristretti limiti imposti dall’austerità, Hollande ha scelto infine di ridare slancio al servizio pubblico, garantendo la sostituzione di tutti i funzionari che vanno in pensione in alcuni settori chiave, quali l’educazione e la sicurezza. L’idea è di restituire al servizio pubblico il ruolo centrale all’interno di quel modello repubblicano di cui Hollande si è fatto l’ardente difensore durante la campagna elettorale.
È ancora troppo presto per vedere gli effetti dell’azione del presidente socialista. La vera sfida si giocherà in settembre, al momento dell’approvazione del budget 2013, quando si dovranno scegliere le politiche per il rilancio della crescita e approvare le nuove misure fiscali annunciate in primavera. È sul terreno dell’occupazione e della politica industriale che Hollande gioca il suo mandato, e non basterà mostrarsi esemplare per salvare la République. Già da ora però è evidente che la via di uscita dalla crisi non è la stessa sui due lati del Reno e che l’austerità non si traduce in una sola politica. L’esperienza Hollande ci ricorda, con Pierre Mendes- France, che in fondo «gouverner c’est choisir», governare è scegliere.