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 2012  agosto 23 Giovedì calendario

CHI COMPRA? I FONDI HANNO SEI MILIARDI - A

quindici anni dalla prima, una nuova ondata di privatizzazioni sta (forse) per partire in Italia. Ma perché un programma di dismissioni pubbliche funzioni, non basta che qualcuno venda, ci deve essere anche qualcuno che compra.
E chi, nell’Italia della recessione dello spread e della crisi dell’euro, ha le risorse per comprare i gioielli di famiglia che saranno messi sullo scaffale? Nel mondo della finanza, il candidato numero uno per farla da padrone nel piano di vendite in cantiere è il private equity. In base all’ultimo censimento dell’Aifi, l’associazione di categoria, nelle casse dei fondi (solo quelli italiani) c’è la non indifferente somma di 5,9 miliardi di euro di liquidità disponibile per investimenti. C’è già chi si è mosso a dire il vero: è il fondo F2i di Vito Gamberale che con le operazioni Sea o Metroweb ha iniziato a comprare pezzi di infrastrutture "pubbliche".
Nonostante la crisi e nonostante siano stati dati per morti più volte, i fondi oggi sono tra i pochi soggetti che ancora siedono su una montagna di liquidità (non ci siedono invece più le banche e il credit crunch ne è il segnale più evidente). Spiega Davide Croff, ex numero della Bnl e oggi senior advisor del mega fondo americano Tpg: «Nonostante la bufera, negli ultimi anni i fondi sono riusciti, anche se in quantità minori del passato, a raccogliere denaro e oggi hanno semmai il problema di dover allocare quel denaro».
La domanda, quindi, è capire quanto della straripante liquidità del private equity, il soggetto con la più alta disponibilità di cash oggi sul mercato in Italia, potrà prendere la strada dei beni statali da cedere. «Sulla carta, nel nostro Paese c’è molto da privatizzare – osserva Marco De Benedetti, numero uno di Carlyle per l’Italia - ma non tutto si presta a essere comprato dal private equity».
Cruciale sarà dunque come lo Stato deciderà di vendere i suoi beni. I fondi hanno bisogno di requisiti di rendimenti e governance per poter entrare. Primo, devono garantire alti ritorni ai loro sottoscrttori e quindi potrebbero investire solo in asset regolati o business che generano molta cassa. E non tutto, nell’elenco di beni più o meno ufficiale che è circolato, ha queste caratteristiche. Secondo, i fondi vogliono aziende con modelli societari di mercato e una struttura di comando regolata da una corporate governance.
Anche soddisfacendo queste condizioni, c’è una considerazione non secondaria. Quei sei miliardi pronti all’uso, non sono la liquidità di un unico maxi-fondo ma la somma degli oltre 170 fondi italiani (poi ci sono quelli pan-europei che investono a tutto campo). Questo fa sì che, a conti fatti, solo alcuni private equity hanno la stazza per poter effettivamente entrare nella partita delle privatizzazioni. «In Italia vedo solo tre grandi soggetti capaci di poter partecipare a un’eventuale cessione di beni statali - commmenta Alessandro Poli, a capo del fondo di fondi Perennius - e sono Clessidra (il fondo dell’ex manager Fininvest Claudio Sposito, la F2i e il Fsi-Fondo strategico italiano guidato da Maurizio Tamagnini). Tutti gli altri sono troppo piccoli».
Non sono poi molti i soggetti italiani che possono entrare in gara. In assenza dei fondi pensione, che nei Paesi a capitalismo maturo costituiscono il nerbo degli investitori istituzionali, solo altri due soggetti hanno la caratura per candidarsi a comprare pezzi di economia pubblica: le Fondazioni bancarie e alcune grandi famiglie private. Nonostante l’affievolirsi dei dividendi erogati dalle banche di cui sono socie (per colpa della crisi), le Fondazioni siedono su patrimoni cospicui e vista la loro natura istituzionale e non speculativa hanno il profilo ideale per gestire beni statali. Ci sono infine i paperoni privati: da Leonardo Del Vecchio ai Benetton (già protagonisti delle privatizzazioni di fine anni ’90) ai Rocca, le famiglie più liquide sono alla finestra.