Massimo Gaggi, Corriere della Sera 23/08/2012, 23 agosto 2012
IL FIUME CHE BAGNA I GRANAI E LO SPETTRO DELLE 33 DIGHE —
«L’acqua deve scorrere altrimenti faremo scorrere il sangue. Se l’India proverà a bloccare quella dei fiumi, ci sarà un fiume di sangue». Minacce a ripetizione di Abdul Rehman Makki, uno dei capi dell’organizzazione terroristica islamica Lashkar-e-Taiba, responsabile della strage di Bombay del 2008. Adesso nel mirino sembrano esserci soprattutto le dighe indiane: gli estremisti islamici sanno che l’acqua può essere la miccia di un altro conflitto tra India e Pakistan.
Una risorsa insufficiente in tutto il pianeta che in Asia è ancora più scarsa: 3.920 metri cubi l’anno per abitante, meno della metà della media mondiale. Ma in India scendiamo a 1.730 e addirittura a 1.000 nel Pakistan che teme di vedere la portata dell’Indo — il fiume che, coi suoi affluenti, irriga quasi tutto il Paese — drasticamente ridotta dalle dighe degli odiati vicini che ne controllano le sorgenti.
Fin qui, pur in un clima di profonda ostilità, i governi di Delhi e Islamabad sono riusciti a evitare scontri aperti, grazie alla bussola del trattato del 1960 che regola lo sfruttamento del corso d’acqua. Ma le controversie sul Kashmir e il nuovo piano di costruzione di dighe idroelettriche dell’India alimentano nuove tensioni che rischiano di diventare esplosive per la rapidissima crescita demografica dei due Paesi e per i cambiamenti climatici: il riscaldamento globale che scioglie i ghiacciai e rende i terreni più aridi.
E il 2012 è certamente un anno fertile per i seminatori di discordia: il monsone di luglio, quello dal quale dipende l’abbondanza dei raccolti, si è fatto attendere a lungo e alla fine ha scaricato molta meno acqua del solito. Le piogge sono calate di oltre il 20 percento, ma negli Stati del Nord, soprattutto i «granai» del Rajastan e del Punjab, le piogge si sono ridotte addirittura del 60-70 percento anche se negli ultimi giorni ci sono state forti precipitazioni. È l’anno più secco dell’ultimo mezzo secolo: raccolti magri e un crollo dei redditi che colpisce gli agricoltori, ma poi si allarga a tutta l’economia del subcontinente. Anche se i campi contribuiscono solo per il 17 percento al reddito nazionale del Paese, infatti, la metà dei consumi indiani viene dalle zone rurali. Che già stanno tagliando tutti gli acquisti.
Altrettanto drammatica la situazione oltreconfine, in un Pakistan che è ancor più dipendente dall’agricoltura (21 percento del Pil). E se non piove, non restano che l’irrigazione e i fiumi. In un’angosciosa altalena di sospetti a volte fondati, a volte alimentati dai fantasmi del passato, l’India si ritrova candidata a recitare sia il ruolo della vittima che quello del carnefice nel macabro gioco dell’oca della battaglia per l’«idroegemonia» nel continente più popolato e assetato del mondo.
Storie di civiltà millenarie nate attorno ai grandi fiumi e di rivalità altrettanto antiche che gli studi dei moderni «think tank» e dei centri di studi geopolitici asiatici riducono alla geometria di un arco la cui sommità è nella regione himalayana. A destra il Tibet, coi cinesi in grado di controllare i grandi fiumi che hanno qui le loro sorgenti: il Brahmaputra e il Mekong, oltre allo Yangtze e al Fiume Giallo. A sinistra il Kashmir con l’Indo, mentre dall’Himalaya centrale sgorga il Gange. Corsi d’acqua i cui bacini si allargano fino a lambire, a occidente, Afghanistan e Iran, mentre a oriente bagnano il Bangladesh e l’Indocina. Così l’India, sospettata da Pakistan e Bangladesh di voler sfruttare a suo vantaggio Indo e Gange, si sente a sua volta vulnerabile davanti alla Cina che controlla le sorgenti del suo Brahmaputra.
Per la diplomazia dell’acqua c’è da lavorare duro in questo «arco dell’insicurezza»: Delhi denuncia come una minaccia la moltiplicazione delle dighe cinesi, ma poi mantiene il segreto sui dati dei 33 sbarramenti creati lungo i fiumi che scorrono verso il Pakistan. Che, con l’80 percento del suo territorio arabile bagnato dall’Indo, dai suoi affluenti e dai canali costruiti intorno a questo sistema dagli inglesi nell’era coloniale, è allarmatissimo.
«Solo impianti idroelettrici: l’acqua fa girare le turbine e torna nel fiume», assicurano i tecnici indiani, ma un’entità che non è parte in causa, il Senato Usa, in uno studio condotto in loco avanza il dubbio che le molte dighe costruite nelle zone di confine «lascino all’India la possibilità di creare grandi riserve d’acqua, riducendo i flussi verso il Pakistan nei momenti cruciali della stagione agricola».
Dall’altra parte della penisola indiana l’angoscia divora un altro Paese sovrappopolato: il Bangladesh. Nella stagione secca, ormai, il Gange porta talmente poca acqua da poter essere attraversato a piedi. Paure che non sono proiettate in un futuro più o meno remoto, ma riflettono disastri che si stanno già consumando. La rivista scientifica Lancet l’anno scorso ha denunciato l’avvelenamento con arsenico di ben 77 milioni di abitanti del Bangladesh: il più grande caso di avvelenamento collettivo della Storia. Provocato dagli stessi abitanti dei villaggi costretti ad andare a cercare falde acquifere sempre più profonde. Acque avvelenate, usate anche per irrigare; e arsenico che, quindi, entra ora nella catena alimentare.
Ma, anche se oggi i fari sono puntati soprattutto sull’India, l’incognita maggiore della regione rimane quella della Cina che ha già costruito migliaia di dighe per sostenere il suo sviluppo e ora fatica sempre di più a soddisfare col suo 8 percento dell’acqua disponibile sulla Terra una popolazione pari a un quinto di quella mondiale. Gente che, con la crescita del benessere, si sta abituando a consumi evoluti, come quello di carne bovina, che assorbono un volume enorme di risorse idriche.
Massimo Gaggi