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 2012  agosto 22 Mercoledì calendario

L’UNIVERSO E I SUOI FRATELLI

Ex pugile in corsa per il titolo mondiale, ex allenatore di pallacanestro, avvocato mai entrato in un tribunale, Edwin Hubble alla fine decise di fare l’astronomo. All’Osservatorio di Monte Wilson (California) passò centinaia di notti a fotografare galassie con quello che all’epoca era il più grande telescopio del mondo, e nel 1929, sulla rivista dell’Accademia delle scienze americana, annunciò che tutte le galassie (o quasi) si allontanano l’una dall’altra. Come se l’universo fosse nato da una immensa esplosione. Il «Big Bang», dirà vent’anni dopo, ironicamente, l’astrofisico inglese Fred Hoyle, che a quell’esplosione non credeva. In realtà anche Hubble parlò sempre di «apparente moto di allontanamento» delle galassie. Lasciò ai teorici la responsabilità di interpretare i fatti che le sue osservazioni andavano accumulando.

Dopo duemila anni di provinciale universo tolemaico con la Terra al centro, era arrivato Copernico a far girare il nostro pianeta intorno al Sole. Ma ancora Einstein, come Newton, pensava che l’universo fosse infinito ed eterno. Eppure nel 1916 aveva pubblicato la relatività generale creando la premessa perché si potesse immaginare una varietà di universi. Cosa che è puntualmente avvenuta. John David Barrow, 60 anni, professore di matematica all’Università di Cambridge, cosmologo che non ignora gli aspetti filosofici del suo mestiere, ce ne presenta il catalogo completo nel Libro degli universi (Mondadori, pp. 360, 20), magistrale racconto dello sforzo umano per rispondere a una domanda semplicissima: dove siamo?

La materia dice allo spazio come curvarsi e lo spazio dice alla materia come muoversi. Questa, in sintesi, è la relatività generale. Subito Einstein l’applicò a un suo modello di universo, ma per garantirne la stabilità dovette inventarsi una forza repulsiva, una specie di anti-gravità, che chiamò «costante cosmologica». Aggiustava le cose, però era un trucco, era un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto, tanto che ne parlò poi come del «più grave errore» della sua vita.

L’espansione si impose nei fatti: i lavori di Hubble la documentavano. Ma ancora prima De Sitter, Friedmann e il prete belga Georges Lemaître avevano elaborato modelli di universi in espansione sviluppando nuove soluzioni delle equazioni di Einstein. Per aggirare le enormi difficoltà del problema, erano modelli semplificati. Un modello disegnava un universo in perenne espansione. Un altro prima in espansione e poi in contrazione fino a un Big Crunch. Un altro ancora oscillava come un pendolo tra Big Bang e Big Crunch. Arrivarono poi l’universo frattale di Carl Charlier e quello di Paul Dirac ispirato da simmetrie numeriche tra macro e microcosmo (ma certe simmetrie sono solo illusorie: pensate a una spiaggia piena di ragazze a caccia di marito e di mariti a caccia di ragazze).

Seguirono universi ondulati, cilindrici, granulari, in rotazione (quello di Gödel, dove il tempo bidirezionale consente viaggi nel passato) o basati sulla continua creazione di materia, come quello immaginato da Hoyle, Bondi e Gold. Universi caldi e universi freddi. Omogenei e disomogenei. Ordinati e caotici. O anche un mix a piacere di questi modelli. Tutti, purtroppo, incompleti o insoddisfacenti.

A complicare tutto c’è il fatto che la relatività con cui si interpreta l’universo a grande scala non va d’accordo con la meccanica dei quanti necessaria per interpretare il mondo atomico. Inoltre, risalendo all’istante del Big Bang l’universo diventa infinitamente piccolo, denso e caldo. Un oggetto caratterizzato da questi tre infiniti per i fisici è una «singolarità». Cioè qualcosa di impossibile. Ma ne siamo proprio sicuri? Al Polo Nord - spiega Barrow - tutti i meridiani convergono in un punto che possiamo assimilare a una singolarità, ma chi si trova lì non nota nessuna stranezza...

Per fortuna le osservazioni a poco a poco hanno fissato dei vincoli alla fantasia dei cosmologi. Nel 1965 la scoperta della radiazione fossile lasciata dal Big Bang spazzò via la «creazione continua» di Hoyle. Il fatto che ci siano sei protoni ogni neutrone e un miliardo di fotoni ogni protone è un dato oggettivo che la teoria deve giustificare. Idem per l’uniformità che l’universo manifesta in qualsiasi direzione lo si guardi. L’uniformità fu spiegata da Guth con il suo modello inflattivo. Nel 1998 la scoperta che l’espansione dell’universo sta accelerando (qualcosa di simile alla costante cosmologica ripudiata da Einstein) ha riaperto i giochi. Premiata con il Nobel nel 2011, questa scoperta suggerisce l’esistenza di una energia oscura che da sola rappresenta il 72 per cento dell’universo, a cui si affiancano un 24 per cento di materia invisibile e quel misero 4 per cento a noi accessibile.

Gli ultimi sviluppi della cosmologia puntano in direzioni opposte. Da un lato sembra che l’universo sia qualcosa di unico, perfettamente progettato per rendere possibile la vita. È il «principio antropico». Dall’altro lato la Teoria M, sintesi di varie altre teorie, dalla supersimmetria alle superstringhe, consente l’esistenza di un numero incredibile di universi: 10 elevato alla 500, cifra vertiginosa se ricordiamo che tutti gli atomi dell’universo sono meno di 10 alla 80. C’è pure l’ipotesi inquietante del multiverso, una entità di ordine superiore che includerebbe una quantità imprecisata di universi tra loro indipendenti e governati da leggi fisiche differenti.

Conclude Barrow: «Copernico ci ha insegnato che la Terra non è al centro dell’universo. Oggi forse dovremo accettare l’idea che nemmeno il nostro universo sia al centro dell’universo». In fondo, la domanda «dove siamo?» dopo tanti sforzi ha solo fatto passare la parola universo dal singolare al plurale.