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 2012  agosto 23 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Masha Gessen, Putin. L’uomo senza volto, Bompiani 2012, pp. 328.Vedi Libro in gocce in scheda: 2326376Vedi Biblioteca in scheda: 1548253BEREZOVSKIJ

Notizie tratte da: Masha Gessen, Putin. L’uomo senza volto, Bompiani 2012, pp. 328.

Vedi Libro in gocce in scheda: 2326376
Vedi Biblioteca in scheda: 1548253

BEREZOVSKIJ. Boris, ebreo, molto intelligente, colto e amante del rischio. Con un Phd in matematica, avviò l’import-export di auto: vendeva Lada (prodotta dai russi su un modello superato di Fiat 124) e importava auto usate di marche europee. Nella prima metà degli anni 90 entrò in finanza, poi in una compagnia petrolifera e, infine, si mise a capo della televisione pubblica russa, Canale uno, il più seguito nel paese (dal 98% delle famiglie russe). Uomo di Eltsin, trafficava in politica coltivando l’immagine di kingmaker e ingigantendo la sua reputazione. Due generazioni di corrispondenti stranieri in Russia hanno pensato che Berezovskij fosse il vero capo della Russia.

TRE MOTIVI PER FARSI PIACERE PUTIN. Quando Putin era consigliere comunale di Leningrado (sindaco Anatolij Sobcak), nel 1990 aiutò Berezovskij ad aprire una officina a Leningrado. Berezovskij disse di lui: “Era stato il primo burocrate da me conosciuto che non aveva accettato tangenti. Ne rimasi molto impressionato”. E ancora più impressionato rimase quando Putin, sconfitto alle elezioni da Sobcak, non lo abbandonò e fece il vicesindaco, rinunciando a un nuovo incarico. Terzo motivo per cui si consolida l’amicizia fra i due: all’inizio del 1999 Berezovskij era sotto assedio come esponente della ‘famiglia’ di Eltsin, in guerra contro Primakov, ex primo ministro a capo della coalizione anti Eltsin. E Putin si presenta a casa Berezovskij con un mazzo di fiori al compleanno della moglie Lena, rischiando di farsi nemico il potente Primakov.

LA ‘FAMIGLIA’. Nel 1996, poco dopo la sua elezione al secondo mandato, Eltsin (allora unico capo della storia della Russia eletto con libere elezioni) era molto malato, di cuore ma anche di alcol: aveva dato segni di confusione mentale in molte visite ufficiali. Nel 1999 non era che l’ombra dell’uomo politico di una volta e pieno di nemici, tranne una stretta cerchia di fedeli alleati, talmente pochi e isolati che furono chiamati ‘la famiglia’. Fra questi, la figlia Tatjana e l’imprenditore Boris Berezovskij. La ‘famiglia’ cercava un successore di Eltsin, odiato da 10 milioni di Russi, ma non si trovava nessuno, i più validi lo avevano già abbandonato.
Putin, nel frattempo, divenne capo della polizia segreta russa (l’Fsb, che aveva sostituito il Kgb) ‘epurata’ da Eltsin, e Berezovskij cominciò a pensare a Putin come primo ministro. Cominciarono una serie di incontri, alla fine Putin accettò la proposta, avallata anche da Eltsin, con qualche riserva: “Potrebbe andare, ma mi sembra un po’ piccolino”. In ‘famiglia’ non si contava molto su Putin, ma la situazione russa stava precipitando e i ‘nemici’ Primakov e Luzkov avanzavano nei consensi rischiando di far tornare il comunismo.
‘Probabilmente l’aspetto più strampalato dell’ascesa al potere di Putin è che chi l’ha messo sul trono lo conosceva poco più di quanto lo conoscevate voi. Berezovskij mi disse che non aveva mai considerato Putin come un amico e non lo aveva mai trovato interessante come persona… Quando iniziò a prenderlo in considerazione come successore di Eltsin, evidentemente ritenne che erano proprio le caratteristiche che lo avevano tenuto a distanza a fare di Putin il candidato ideale: una persona apparentemente senza personalità e poco interessante, si sarebbe dimostrato malleabile e disciplinato. Berezovsjij si sbagliava di grosso’.
Anche Eltsin sapeva poco di lui: che era uno dei pochi rimastogli fedele, più giovane, che non aveva fatto carriera nel partito, magro e di bassa statura, con abiti di buon taglio europeo; aveva più l’aspetto della nuova Russia promessa da Eltsin 10 anni prima.

PRIMO MINISTRO. Il 9 agosto 1999 Eltsin nomina Putin primo ministro di Russia. Una settimana dopo la Duma lo conferma a grande maggioranza.
Nel mese successivo Mosca e la Russia furono terrorizzate da una serie di attentati, più di 200 morti solo a Mosca. Panico e repressione. La generale convinzione era che si trattasse di ceceni, che furono rastrellati e sospettati ovunque. Il 23 settembre 24 governatori (un quarto di tutti quelli della federazione), in una lettera, chiesero a Eltsin di lasciare il potere a Putin che, il giorno dopo, firmò il decreto che autorizzava le truppe russe a combattere in Cecenia. Il Canale uno di Berezovskij intanto lavorava a distruggere l’immagine dei nemici Primakov e Luzkov e a creare quella di Putin come giovane energico in grado di attuare le riforme. Lo stesso Berezovskij ebbe l’idea di costruire un nuovo partito (‘Unità’) che sostituisse ‘i volti alle ideologie’ e che, alle elezioni del 19 dicembre 1999, fu scelto da un quarto degli elettori. La ‘famiglia’ allora decise di fare dimettere Eltsin il 31 dicembre.
Automaticamente, il primo ministro Putin divenne il presidente facente funzioni. In questa veste fece il suo primo discorso in tv la notte di Capodanno, a mezzanotte. Parlò per tre minuti e mezzo, non fece promesse e non disse nulla che potesse suscitare entusiasmo. Non era un discorso elettorale. Tranquillizzò tutti dicendo che niente sarebbe cambiato in Russia e che i diritti di tutti sarebbero stati tutelati. Durante il suo primo mese di facente funzioni, i capi dei governi occidentali ebbero una reazione simile a quella dei russi: erano così contenti dall’uscita di scena dell’imbarazzante Eltsin da vedere in Putin la realizzazione delle loro più rosee aspettative.

CAMPAGNA ELETTORALE E BOMBE. Berezovskij ricorda che Putin era disciplinato e perfino docile, faceva quello che gli veniva detto di fare. Era così popolare che non fu una vera campagna elettorale. Doveva limitarsi ad apparire non molto diverso dall’immagine che i suoi elettori volevano avere di lui. Berezovskij commissionò a tre giornalisti una biografia di Putin. Una dei tre, Natalia Gevorkijan, ne approfittò per tentare di aiutare un amico collega, Andreij Babickij, della Radio Free Europe, scomparso in Cecenia. Scoprì poi che era stato arrestato dai militari russi e che Putin aveva avuto un ruolo, visto che considerava quel giornalista un ‘traditore’ filoceceno. L’indignazione generale (anche americana) per il caso Babicki, salvarono la vita al giornalista, ma fecero infuriare Putin, ‘un complotto di democratici dal cuore tenero lo aveva costretto al compromesso’.
Gevorkjan: “Mi resi conto che questa sarebbe stata la sua linea di governo. Perché è così che funziona il suo cervello del cazzo. Non mi facevo illusioni. Sapevo che era il suo modo di concepire la parola ‘patriottismo’ – così come gli era stato insegnato nelle scuole del Kgb: la grandezza del paese è proporzionale alla paura che ispira, e la stampa deve dimostrare lealtà”.
Poco dopo Gevorkjan e Babickij lasciarono Mosca per Parigi e Praga.
Si scoprì anche che probabilmente c’era il servizio di sicurezza (Fsb) dietro gli attentati che contribuirono a portare Putin al potere. Berezovskij, dieci anni dopo: “Allora ero sicuro che fossero i ceceni. E’ stato qui a Londra che sono arrivato finalmente alla conclusione che le esplosioni erano state organizzate dall’FSB… E allora non mi ero neppure accorto che c’era un gioco parallelo al nostro: qualcun altro stava facendo quello che pensava giusto per fare eleggere Putin… Ma sono sicuro che l’idea non era di Putin”. La Gessen conclude: “Pensai che Berezovskij avesse costruito questa teoria perché voleva continuare a credere di essere stato lui il ‘kingmaker’ nel 1999 e non soltanto una pedina”.
Comunque, la posizione ufficiale di Mosca affida la responsabilità di tutte le esplosioni a un gruppo terroristico islamico con base nel Caucaso.

I GENITORI. Putin nacque nel 1952 a Leningrado da Maria e Vladimir, sopravvissuti all’assedio di Leningrado (dall’8 settembre 1941 per 872 giorni). Il padre aveva combattuto contro la Germania, assegnato anche alle truppe dei ‘guastatori’ che dipendevano dalla NKYVD, nome della polizia segreta sovietica di allora. Impegnati in missioni suicide, non più del 15% dei guastatori sopravviveva dopo i primi sei mesi di guerra. Putin padre in guerra fu ferito gravemente restando invalido, con le gambe deformate. Venne quindi congedato dall’esercito e tornò a casa con Maria. Il loro unico figlio, che allora aveva 8-10 anni, viveva in una casa per l’infanzia di quelle organizzate dalla città per i bambini che non potevano essere allevati dai genitori. E in istituto morì. Anche Maria sfiorò la morte per fame. Molti anni prima della guerra lei aveva perso un altro figlio piccolo.
Finita la guerra, il vecchio Putin lavorava come operaio specializzato in una fabbrica di vagoni ferroviari e Maria faceva lavori saltuari, come guardia notturna, donna delle pulizie, scaricatrice, impieghi che le consentivano di passare del tempo con il figlio.

VLADIMIR. Nato da un ferito di guerra e una donna quasi morta di fame, che aveva perso due figli, la nascita di Vladimir fu quasi un miracolo, tanto che si sparse la voce che i Putin lo avessero adottato. Alla vigilia della prima elezione presidenziale comparve pure una donna georgiana che sostenne di averlo dato in adozione quando aveva nove anni. Su questa cosa si scrisse molto ma senza essere in grado di verificare la veridicità della voce. La Leningrado post assedio dove nacque Putin era ‘un luogo malvagio, affamato e povero che ha fatto crescere giovani malvagi, affamati e feroci’.

LA CASA. Si entrava dal ‘cortile a pozzo’, cioè chiuso da tutti i lati, pieno di spazzatura, topi, buche e buio. I Putin abitavano al quinto e ultimo piano in un appartamento suddiviso in più ambienti. La loro parte la condividevano con altre due famiglie. Non c’era una cucina, ma una stufa a gas e un lavandino piazzati nel corridoio. Il bagno ricavato ritagliando un pezzo del vano scale, entrambi condivisi. I Putin avevano la stanza più grande, 20 metri quadri, raro privilegio per i tempi e, ancor più straordinario, possedevano un televisore, un telefono, una dacia. Insomma, nel contesto, potevano essere considerati ricchi.

Il CORTILE. “Così erano i cortili. Tutti teppisti. Sporchi, brutti ceffi con la barba non rasata, le sigarette e le bottiglie di vino da poco prezzo. Sempre a bere, fare a cazzotti, bestemmiare. E in mezzo a tutto questo c’era anche Putin…”. Più giovane e magro di corporatura, cercava di tenere testa a tutti: “Se qualcuno lo insultava, Volodja gli saltava subito addosso, lo graffiava, gli strappava i capelli a ciocche, lo mordeva..” (Viktor Borisenko, compagno di scuola e amico di lunga data).

LA SCUOLA. A pochi passi da casa. La maggior parte delle informazioni disponibili riguarda le scazzottate dell’adolescenza e giovinezza. Ma l’istruzione non era una priorità allora, più importante la disciplina, per Volodja contava invece la reputazione di teppista che riferiva con enfasi ai biografi. Quando la scuola, per punizione, lo escluse dai Giovani pionieri e un biografo gliene chiese ragione, lui rispose: “Certo, non ero affatto un pioniere, ero un farabutto, ero un vero teppista”.
A partire dai 13 anni Putin cambiò e, in sesta classe, cominciò a studiare, fu ammesso ai Giovani pionieri ed eletto presidente di classe. Si diplomò alla scuola secondaria con ottimo in storia, tedesco (aveva cominciato a studiarlo a 9 anni) ed educazione fisica. Buono in geografia, russo e letteratura, sufficiente in fisica, chimica, algebra e geometria.
Ma le scazzottate continuavano, raccontano gli amici, anche se per punire mascalzoni e bastardi che insultavano o importunavano la gente.

LO SPORT. A 10-11 anni Putin cercò un luogo dove poter esprimere la sua predisposizione al combattimento: provò col pugilato ma gli spaccarono subito il naso. Poi scoprì il ‘sambo’ (acronimo per ‘autodifesa senza armi’), un’arte marziale sovietica che combina judo, karate e lotta popolare russa. I genitori non erano d’accordo, ma il sambo ebbe un ruolo fondamentale nella crescita di Putin da giovane teppista ad adolescente che stava maturando un’ambizione dominante: arruolarsi nel KGB: “Quando ero in nona classe- racconta- libri (‘Lo scudo e la spada’, grande successo editoriale che aveva per protagonista un agente dei servizi segreti sovietici che lavorava in Germania. Divenne anche una serie televisiva) e film mi influenzarono molto, tanto da far nascere in me il desiderio di entrare nel KGB, non c’è niente di strano”.

IL KGB. A 16 anni, un anno prima di finire la scuola secondaria, Putin si presentò all’ufficio del KGB di Leningrado per cercare di arruolarsi. Lo rifiutarono perché ‘non accettavano volontari’ e gli consigliarono di iscriversi all’Università a Legge. Quella di Leningrado era una delle più prestigiose del Paese e Vladimir superò – misteriosamente essendo studente mediocre di famiglia ignorante – il difficile esame di ammissione. Possibile anche che intervenne il KGB. All’Università se ne stava per fatti suoi, faceva Judo ed era l’unico studente a possedere un’automobile (allora valeva circa quanto una dacia). Durante l’estate Putin lavorava in cantieri lontanissimi dove lo stipendio era molto alto (1000 rubli un’estate e 500 la successiva). Qualsiasi studente avrebbe dato il denaro alla famiglia, ma lui viaggiò con due amici per tutta la Russia, l’anno seguente spese tutto per comprarsi un giaccone.
Al quarto anno fu contattato da un uomo che gli voleva parlare del suo futuro lavoro e lui capì che si trattava di un funzionario del KGB. Si incontrarono altre quattro cinque volte e il funzionario concluse che “non era particolarmente espansivo, ma esprimeva energia, flessibilità mentale e coraggio. Ancora più importante, era bravo e rapido nel rapportarsi con la gente, una caratteristica fondamentale per un funzionario del Kgb, specialmente se deve lavorare nei servizi segreti”.
Quando gli amici chiedevano che cosa esattamente facesse, Putin rispondeva: “Sono un esperto di relazioni umane”.
Metà anni Settanta, dopo l’Università, Putin trascorse sei mesi passando carte negli uffici del KGB di Leningrado. Quindi sei mesi di scuola per funzionari KGB, scuola che lui considerava “assolutamente insignificante”. Dopo il diploma fu assegnato all’unità di controspionaggio a Leningrado, incarico secondario in un reparto secondario. Ancora sei mesi, poi venne spedito a Mosca per un corso di addestramento di un anno e quindi rimandato a Leningrado, reparto spionaggio, altro incarico ‘da incubo’. Il KGB arruolava e formava senza uno scopo specifico. Putin aspettò 4 anni e mezzo. Nel 1984 finalmente viene mandato a Mosca per il corso di un anno da agente segreto. Aveva 32 anni. E sapeva che sarebbe stato inviato in Germania.
Jurij Andropov fu l’unico capo della polizia segreta diventato segretario del Partito comunista.

DONNE. Incapace di comunicare i suoi sentimenti, Putin pianta all’altare l’unica donna importante prima della moglie Ljudmilla. Suo unico commento: “E’ così che è successo. E’ stato molto difficile”.
Sposa Ljudmilla a 31 anni, molto tardi per gli standard sovietici, dopo tre anni di frequentazione. Lei, originaria di Kaliningrad, sul Baltico, faceva la hostess. Si conobbero attraverso un comune amico. Lei sostiene che non fu amore a prima vista, anzi, Vladimir le sembrò insignificante e malvestito. Lui pare non abbia mai detto niente su lei e il loro amore.
“Una sera eravamo seduti nel suo appartamento e lui mi dice: ‘Piccola amica, a questo punto dovresti sapere come sono, non sono un partito molto conveniente… Non parlo molto, posso essere piuttosto impulsivo, posso ferire i tuoi sentimenti ecc. Non sono proprio una brava persona con la quale voler passare il resto della vita… In questi tre anni e mezzo te ne sarai resa conto’. Pensai che fossimo sul punto di rompere. Così risposi: ‘Certo, sì, me ne sono resa conto’. E lui disse senza nessuna incertezza nella voce: ‘Veramente?’ A quel punto ero sicura che stavamo per rompere. Ma lui continuò: ‘Se è così allora ti amo e ti propongo di sposarci il giorno tale’. E questo fu del tutto inaspettato”. (Ljudmilla).
Dopo tre mesi si sposarono, lei lasciò il lavoro e si iscrisse all’Univesrità di Leningrado, in Filologia. Vivevano nella più piccola delle due stanze dell’appartamento che ancora Putin condivideva con genitori. Un anno dopo il matrimonio la prima gravidanza e nacque Maria.
Da molto prima di sposarlo Ljuadmilla sapeva che Vladimir era al KGB, anche se lui le aveva detto di essere un ispettore di polizia: quella che era la sua copertura.

IN GERMANIA. A 33 anni, con la moglie incinta della seconda figlia, Putin fu inviato dal Kgb a Dresda, ancora una volta per un incarico secondario: raccogliere informazioni sul ‘nemico’, cioè sull’Occidente, in pratica raccogliere ritagli di giornale, contribuendo alle montagne di informazioni inutili cumulate dal Kgb. Ogni giorno doveva redigere un rapporto sulle sue attività, con la traduzione in russo delle informazioni raccolte. Gli ex agenti del Kgb valutarono che i tre quarti del loro tempo era assorbito dalla stesura dei rapporti. Il successo più significativo di Putin a Dresda: l’arruolamento di uno studente colombiano.
I Putin vivevano in un complesso residenziale nel piccolo mondo della Stasi, i cui agenti guadagnavano molto di più dei sovietici. A Ljudmilla però piacevano i tedeschi e la Germania, anche quella dell’Est, molto più ricca dell’Unione sovietica. Nacque la seconda figlia Ekaterina (‘Katia’) e Putin cumulava frustrazioni: dopo venti anni di studi e aspettative, ancora un lavoro inutile e noioso. Beveva birra di continuo e non faceva attività fisica, per cui ingrassò dieci chili. Non avevano soldi (usavano i giornali invece delle tende) e Vladimir desiderava tutto ciò che avevano in Occidente. Quando gli estremisti della banda Baader-Meinhof, con i quali era in contatto, venivano a Dresda, portavano sempre regali (autoradio rubate ecc) e lui non faceva nemmeno il gesto di volerli pagare come facevano i suoi colleghi.

CANE. I Putin avevano un cane, Malys, che amavano molto. Un giorno fu investito. “Ljudmila Aleksandrova mi chiamò per chiedermi di avvertire il marito che il veterinario non era riuscito a salvare il cane. Andai nel suo ufficio e gli dissi: ‘C’è un problema. Malys è morto’. Lo guardai: sul viso non c’era segno di emozione, zero. Rimasi così sorpresa dalla sua freddezza che gli chiesi se qualcuno glielo avesse già detto. Lui rispose: ‘No, sei la prima che me lo dice’. Fu allora che capii di avere detto la cosa sbagliata”. (La segretaria).

CROLLA IL MURO. 1985. Va al potere Michail Gorbacëv, libera dissidenti e allenta le redini del blocco sovietico. Il Kgb lo detestava.
Nell’89 le grandi manifestazioni e l’esodo da Est a Ovest in Germania diventa massiccio. Si usano i treni che passano da Dresda, a ottobre sede di grandi scontri con le forze dell’ordine. Il 9 novembre cade il Muro di Berlino e Putin racconta che era presente tra la folla quando venne invaso l’edificio della Stasi a Dresda. Si indignò quando i dimostranti arrivarono al suo ufficio, considerava che i russi non dovevano entrare negli affari interni della Germania e viceversa, ma “nessuno sembrava interessato a proteggerci…Mosca taceva e compresi che l’Unione sovietica era malata. Una malattia fatale chiamata paralisi. Una paralisi del potere”.
Putin passò parecchie ore nell’ufficio assediato, distruggendo tutto quello che lui e i suoi colleghi avevano raccolto: contatti, rapporti e migliaia di ritagli. Tutti i vicini della Stasi persero il lavoro e vennero banditi da qualsiasi incarico nella polizia e nella pubblica amministrazione. I Putin considerarono disumane quelle epurazioni.
Tornarono a Leningrado. Di nuovo con i genitori di Vladimir, occupando, ora in quattro, la più piccola delle stanze del solito appartamento. Si portarono una lavatrice vecchia di venti anni e dei dollari sufficienti per comprare la migliore auto di fabbricazione sovietica. Questo restava dopo quattro anni di vita all’estero. Ljudmilla faceva la fila per fare la spesa davanti agli scaffali vuoti: dopo la vita relativamente comoda in Germania, tutto questo “era terribile”.
Il violoncellista amico di Putin racconta che, sentendosi abbandonato e tradito dal suo paese e dalla sua comunità, Vladimir voleva andarsene dal Kgb. Risposta dell’amico: “Spia per una volta spia per sempre”.

LENINGRADO. Cinque milioni di abitanti alla fine degli anni 80.
Tutto nella storia della Russia succede a San Pietroburgo (Pietrograd, Leningrado), che passa dalla sfarzosa regalità alla più cupa miseria, come dopo l’assedio tedesco.
Avanguardia dei cambiamenti politici, il 16 marzo 1987 l’esplosione dell’Hotel Angleterre a piazza Sant’Isacco apre la stagione delle manifestazioni antisovietiche. Per la prima volta dopo decenni si discuteva di politica senza appartenere a un gruppo di dissidenti, i partecipanti ai dibattiti furono chiamati ‘informali’. Nati sotto gli anni di Kruscev, non avevano una piattaforma politica comune, rifiutavano solo lo stato sovietico: “La gente non pensava al denaro e nemmeno a migliorare il proprio tenore di vita, tutti pensavano a una sola cosa: essere liberi” (Elena Zelinskaja, fondatrice di una delle tante pubblicazioni clandestine). Dal giorno dopo l’esplosione, la recinzione intorno ai resti dell’ Hotel Angleterre e piazza Sant’Isacco divennero i luoghi di ritrovo, informazione e simbolo della dissidenza ‘informale’. Ma il movimento faceva due passi avanti e uno indietro: il 31 maggio il ‘Punto di informazione’ di fronte all’Angleterre fu chiuso dalle autorità.
Elezioni comunali di giugno 1987: per la prima volta gli elettori potevano scegliere fra due candidati. 10 dicembre: primo raduno non disperso dalla polizia. Primavera ’88: il tassista Ivan Sosnikov è uno dei fondatori dell’ ’Hyde Park’ di Leningrado, nei giardini Michajlov, in centro città, luogo di dibattito chiuso dopo qualche mese dalla polizia. I manifestanti si spostarono allora alla cattedrale Kazanskij, stavolta non furono dispersi ma le autorità decisero di sommergerli con il rumore e il sabato organizzavano lì la banda con gli ottoni.
LIMONI. Ekaterina Podol’ceva, brillante matematica di 40 anni, diventata l’attivista pro democrazia più nota, chiese a tutti i partecipanti di Hyde Park di portare dei limoni e il sabato seguente, quando la banda attaccò a suonare cominciarono tutti a mangiarli. La Podol’ceva aveva letto che vedere mangiare un limone produce per riflesso condizionato forte salivazione, incompatibile con lo strumento a fiato. Così la banda tacque e i discorsi ripresero.
1988: i due episodi più importanti, non solo per Leningrado ma per tutto il Paese furono la formazione del Fronte popolare e il conflitto fra Armenia e Azerbaigian, il primo dei molti conflitti etnici del Caucaso: gli armeni del Nagornyj Karabach, regione dell’Azerbaigian musulmano chiedevano di unirsi all’Armenia cristiana: furono perseguitati e i democratici di Leningrado manifestarono per loro.
Il leader indiscusso del Fronte popolare era Marina Sal’e: 50 anni, non sposata, phd in geologia, un trisnonno orologiaio dello zar, non aderì mai al partito comunista. Donna brillante, ottima oratrice, “con una sigaretta che pendeva dalle labbra poteva guidare la folla su e giù per la Nevskij, bloccando il traffico… Nessuno poteva competere con lei”. (Un avversario politico così la ricorda venti anni dopo).
Si procedeva fra aperture, manifestazioni, censure e prigione; per la prima volta fu pubblicato lo Zivago di Pasternak, ma Solzenicyn restava vietato.
Marina Sal’e guidò le elezioni del 1989, dopo aver organizzato, per la prima volta, una campagna elettorale. A Leningrado i funzionari del Partito comunista furono sconfitti, Galina Starovojtova venne eletta come rappresentante dell’Armenia al Soviet supremo e partecipò con altri 300 a un gruppo di minoranza presieduto dal dissidente Andrei Sacharov, che aveva l’obiettivo di porre fine al Partito comunista facendo abolire tutte le norme costituzionali che gli garantivano il primato nella politica. Altri membri importanti di questo gruppo: Boris Eltsin, sovversivo del partito, e Anatolij Sobcak, affascinante ed elegante oratore, professore alla facoltà di legge di Leningrado.
Fine maggio 1989: prima del nuovo Congresso, trasmesso in tv, scontro fra l’oppositore e autorità morale Sacharov che incitava alla riforma costituzionale e il capo dello Stato Gorbacev che, furioso, lo cacciò. Alla vigilia del secondo congresso, sei mesi dopo, Sacharov morì per un attacco cardiaco. Ai suoi funerali decine di migliaia di persone a Mosca e a Leningrado si radunarono in ventimila per partecipare con un ritratto del dissidente e una candela accesa, la folla eluse tutti gli sforzi della polizia per scioglierla. Ma dal giorno dopo partirono gli arresti fra cui Marina Sal’e, che divenne leader indiscusso di Leningrado. Dopo due mesi elezioni comunali e lei fu eletta a grande maggioranza. I candidati democratici inflissero una sconfitta umiliante al Partito comunista conquistando circa due terzi dei 400 seggi. Boris Gidaspov, a capo della organizzazione cittadina del partito, fu invitato con altri due vecchi burocrati del partito a lasciare la presidenza del nuovo consiglio.
Alla prima seduta – raccontò un sociologo presente – si respirava “un radicale cambiamento di atmosfera: i vestiti grigi con i loro musi erano fuori luogo, gli informali erano la normalità” (tipico look dell’intelligencija: maglione girocollo e barba). Fra i primi provvedimenti: togliere tutte le guardie dal Palazzo Mar’inskij dove si tenevano le sedute (non più alla sede del partito). Il Palazzo divenne “una stazione ferroviaria”, tanto che si fu costretti a ripristinare la sorveglianza. Ancora, il consiglio comunale non aveva un capo ufficiale, fatto che creò diversi problemi sulle procedure: ‘La città, il paese e la vita stessa sembravano andare a rotoli mentre i democratici facevano prove di democrazia senza concludere nulla’.
Serviva un presidente, ma Marina Sal’e, la più conosciuta e la più votata, non volle. Dirà 20 anni dopo: “Fu la mia stupidità, la mia inesperienza, la mia timidezza o la mia leggerezza? Non lo so, ma sta di fatto che non lo feci. Fu un errore”. Dopo il suo rifiuto gli attivisti del consiglio decisero di rivolgersi al secondo dei due eroi della perestrojka, Anatolij Sobcak.

SOBCAK. Professore di legge, noto a Mosca come democratico di Leningrado, nel soviet supremo apparteneva al gruppo interregionale di Sacharov. Diverso dagli ‘informali’ per look, ma anche perché molto più conservatore e molto più preparato come politico: aveva insegnato all’accademia di polizia e sotto molti aspetti faceva parte dell’establishment sovietico, convinto che il partito potesse sopravvivere alla perestrojka. Dopo il rifiuto di Marina Sal’e, gli attivisti del consiglio di Leningrado chiamarono lui a presiederlo. Molto ambizioso (diceva che sarebbe stato lui il futuro presidente della Russia), deluse le aspettative dei democratici chiamando come suo vice non la Sal’e, ma Scerbakov, un viceammiraglio membro del partito comunista. Dichiarò subito che voleva essere il capo, non un leader: “Ci rendemmo conto del nostro errore nel momento in cui votammo per lui”, disse poi un consigliere.
Quando partecipò alle elezioni del ’96, con Leningrado economicamente allo stremo (seconda città della Russia, era al ventesimo posto per la qualità della vita), Sobcak non percepì che era odiato da tutti, si ostinava a mantenere l’immagine dell’uomo politico mondano e sofisticato: sempre elegante, con al fianco la bionda moglie, si spostava con la limousine circondato da guardie del corpo. Nella corsa alle elezioni, cercò di comprarsi i giornalisti e, alla fine, mise Putin come responsabile della sua campagna elettorale, ma perse lo stesso. Persa l’immunità, temendo le inchieste per corruzione dell’ufficio del sindaco, subì un attacco di cuore e, con il presunto e sotterraneo aiuto di Putin, già trasferitosi a Mosca, si rifugiò a Parigi. Rientrò nel ’99, con la speranza di tornare al potere grazie a Putin, di cui fu il ‘rappresentante autorizzato’ durante la campagna elettorale, Dimenticò le sue origini democratiche e definì Putin ‘il nuovo Stalin’, promettendo ai potenziali elettori non tanto gli stermini di massa quanto il pugno di ferro, “il solo modo – diceva – per far lavorare i russi”. Ma Sobcak parlava troppo, spesso contraddicendo Putin che lo spedì a Kaliningrad. Fu accompagnato da due guardie del corpo e non dalla moglie. Il 20 febbraio morì in strane circostanze in un albergo di una località di villeggiatura vicino a Kalinigrad. Si effettuarono due autopsie, una anche a Leningrado: la causa ufficiale della morte fu un ‘collasso cardiocircolatorio massiccio, ma di origine naturale’. Dieci settimane dopo, la procura di Kaliningrad aprì un’inchiesta su un possibile caso di omicidio ‘aggravato dalla premeditazione’. Al funerale Putin mostrò un dolore autentico, definendo la morte di Sobcak ‘frutto di una persecuzione’.
Un conoscente di Sobcak, conosciuto a Parigi, Arkadij Vaksberg, penalista diventato reporter investigativo decise di occuparsi di quella morte poco chiara e scoprì che i due assistenti/guardie del corpo, dopo la morte di Sobcak vennero ricoverati per leggeri sintomi di avvelenamento. Nel 2007 Vaksberg pubblicò un libro sugli avvelenamenti politici nell’Urss e sostiene che Sobcak fu ucciso da un veleno piazzato sul bulbo della lampadina sul suo comodino. Qualche mese dopo l’auto di Vaksberg saltò in aria nel suo garage a Mosca, ma lui non era nell’auto.

L’AGGANCIO DI PUTIN. Putin tornò a Leningrado dalla Germania nel 1990 e la gente che lui e i colleghi avevano tenuto sotto controllo – i dissidenti e i loro amici – si comportavano come i padroni della città. I colleghi del KGB cercavano di adattarsi più che contrastare e anche Vladimir imboccò questa strada. Le spie si ritrovano in forte esubero: diventano ‘riserve attive’ e vengono inquadrati in strutture statali o civili di qualunque tipo. Proprio loro furono il problema principale di Vadim Bakatin, il liberale nominato un anno dopo da Gorbacëv alla guida del KGB con il mandato di smantellarne l’istituzione: “Il KGB, così, non poteva essere definito un servizio segreto… sembrava specificamente creato per organizzare cospirazioni e colpi di Stato… forze armate addestrate, capacità di intercettare e controllare le comunicazioni, personale infiltrato dentro ogni istituzione chiave,,,” (Bakatin).
Putin scelse di restare a Leningrado all’Università statale, dove divenne vicerettore per le relazioni estere, lavoro tagliato su misura per un membro della riserva attiva. Ma rimase in quel ruolo meno di tre mesi.
Varie versioni sull’incontro fra Sobcak e Putin. Lui dice di averlo agganciato quando frequentava le sue lezioni alla facoltà di legge e poi di averlo rincontrato nel suo ufficio in Consiglio, grazie alla mediazione di un compagno di corso. Nella versione di Sobcak, mentre stava camminando per i corridoi dell’università, vide Putin e gli chiese di lavorare per lui al consiglio comunale: “Era stato un ottimo studente anche se come carattere non gli piaceva primeggiare. Per questo è una persona scevra da vanità e senza ambizioni apparenti, ma nell’intimo è un leader”. In realtà Sobcak sapeva certamente che Putin era un funzionario del KGB e per questo lo chiamò, si sentiva più al sicuro con uomini provenienti dalle forze armate. In realtà è dubbio che fu una scelta libera quella di chiamare Putin in politica. Bezrukov, spia passata alla Germania ovest nel ’91 non aveva dubbi: Putin fu chiamato a lavorare per Sobcak per venire infiltrato nella cerchia interna del più importante uomo politico pro democrazia del paese. Putin comunicò al KGB il nuovo incarico aggiungendo che se non gli fosse stato consentito si sarebbe dimesso. Gli risposero: “Assolutamente no, perché dovresti? Nessun problema”. In quel momento i nuovi democratici erano diventati i soggetti principali del lavoro dell’agenzia, Eltsin era controllatissimo, con i suoi amici e parenti. E’ improbabile che Putin abbia detto la verità sostenendo che non faceva rapporto al KGB durante il suo lavoro con Sobcak. Tra l’altro, prendeva dalla polizia segreta uno stipendio molto più alto che quello da consigliere comunale.
Sulle dimissioni dal KGB. La versione di Putin è che, cominciato a lavorare con Sobcak, un membro del consiglio lo ricattava minacciando di denunciarlo come funzionario del KGB, per cui, in modo sofferto decise di dimettersi: “Era una decisione molto difficile. Era passato quasi un anno da quando avevo smesso di lavorare per il servizio di sicurezza, ma tutta la mia vita era stata incentrata su quel servizio… Sobcak era una persona eccezionale e un politico importante, ma mi sembrava rischioso legare il mio futuro a lui… Eppure decisi di andare via. Perché? Stavo veramente male. Dovevo prendere la decisione più difficile della mia vita… alla fine mi feci coraggio, presi la penna e scrissi la lettera di dimissioni, di getto, senza fare una brutta copia”. Questo monologo, recitato dieci anni dopo, dimostra che lui non basò mai la sua decisione su considerazioni ideologiche, politiche o morali. Il KGB ha perso la sua lettera di dimissioni. Comunque Putin era ancora funzionario dell’agenzia nell’agosto 1991, quando il KGB organizzò il colpo di Stato per il quale sembrava essere stato progettato.

IL VICESINDACO PUTIN. Aveva un ufficio vuoto, solo una scrivania e un portacenere di vetro. Quando gli chiesero informazioni sul suo lavoro, Putin rispose che aveva cercato di controllare le case da gioco, ritenendo che lo Stato ne dovesse avere il monopolio. L’amministrazione ne comprò il 51 % delle azioni, “ma fu un errore, le case da gioco trafugavano il denaro liquido e mettevano in bilancio solo perdite”.
Nel ’92 Marina Sal’e promosse un’indagine sul lavoro di Putin, il cui ufficio si occupava anche di scorte alimentari. La Sal’e scoprì che lui aveva concluso dozzine di contratti a nome della città per 92 milioni di dollari e ogni singolo contratto conteneva errori che lo rendevano giuridicamente non valido. Putin aveva scelto le ditte senza indire concorsi pubblici. Sal’e aveva denunciato anche le strampalate percentuali di commissione concordate , che variavano dal 25% al 50% del valore dei contratti. ‘Tutto indicava un semplice schema di tangenti: ditte scelte arbitrariamente ricevevano ricchi contratti e non erano nemmeno tenute a rispettare i loro impegni’.
Il Consiglio prese atto del rapporto di Sal’e e decise di inoltrarlo all’ufficio del sindaco Sobcak con la raccomandazione che venisse inviato alla magistrature e che Putin e il suo vice fossero licenziati. Sobcak ignorò tutto. Non fu mai aperta alcuna indagine, nonostante Sal’e avesse informato anche Eltsin. Molti anni dopo il capo dei controllori amministrativi del governo russo liquidò così la faccenda: Sal’e aveva denunciato “serie irregolarità, ma non erano più serie di quello che stava accadendo in tutta la Russia… Erano irregolarità correnti relative all’acquisizione di diritti di esportazione di risorse strategicamente importanti per scambiarle con derrate alimentari che non si materializzarono. Un caso tipico a quel tempo”.
Come vicesindaco Putin svolgeva le funzioni che, secondo la tradizione sovietica, erano riservate alle ‘riserve attive’ del KGB, cioè il controllo delle informazioni, che venivano sempre filtrate.
Quando Sobcak venne trombato alle elezioni, Putin rifiutò di lavorare nella nuova amministrazione e andò a Mosca, come vicetesoriere del Cremlino, un altro incarico con l’aria di essere tagliato per una ‘riserva attiva’, lavoro di scarsa responsabilità pubblica ma che consentiva importanti potenziali entrature. Putin impiegò il suo tempo a fare una tesi, non sul diritto internazionale, come voleva all’inizio, ma sull’economia delle risorse naturali. Nove anni dopo, un ricercatore americano scoprì che 16 pagine, tabelle e diagrammi di quella tesi erano state copiate pari pari da un testo americano. Putin non contestò mai l’accusa di plagio.


IL GOLPE. L’impero sovietico stava implodendo, l’economia collassata e i conflitti etnici si espandevano (Azerbaijan, Repubbliche baltiche e la Georgia che a marzo ’91 votò la secessione. L’Ucraina dichiarò la sua indipendenza a giugno, così la Cecenia). Nel giugno 1989 le autorità di Leningrado avevano cominciato a razionare il cibo e nell’ottobre ’90 il consiglio introdusse la tessera annonaria: ogni abitante aveva diritto a 1 chilo e 370 grammi di carne al mese; 900 gr di carni trattate; 10 uova; 450 gr.di burro, 230 di olio vegetale; 450 di farina e 900gr. di grano duro o pasta. Manifestazioni e repressioni.
Nell’agosto del 1991 un gruppo di ministri del governo federale guidato dal vice di Gorbacëv tentò di deporre Gorbacëv.
Il 19 agosto, alle 6 la radio comunicò il golpe gestito da una giunta che comprendeva, tra gli altri, il presidente del Kgb , quello del Soviet supremo, vari ministri e i capi dei sindacati. La giunta, che assumeva il nome di Comitato statale per lo stato di emergenza nell’Urss (GKCP), dichiarò subito lo stato di emergenza per i successivi sei mesi. Dicevano che Gorbacëv era malato e non riusciva più a svolgere le sue funzioni. Samsonov divenne il rappresentante del GKCP a Leningrado. I consiglieri democratici rifiutarono lo stato di emergenza e Marina Sal’e dichiarò pubblicamente che si trattava di colpo di Stato. Sobcak era nella dacia di Eltsin che, nonostante avesse un ordine di arresto, inspiegabilmente non fu mai arrestato.
Atteggiamento ambiguo di Sobcak: impedì ai democratici di andare in televisione, creando con abilità una situazione nella quale sarebbe stato al sicuro in caso di vittoria della linea dura dei vecchi gerarchi. Anche il Consiglio di Mosca si riunì alle 10 e decise di opporsi al golpe, ma qui i consiglieri ebbero l’appoggio incondizionato del sindaco Gavril Popov che, fra l’altro, ordinò di tagliare acqua, elettricità e telefono in tutti gli edifici dove erano in azione sostenitori del GKCP. Sobcak, invece, aveva preso accordi col generale Samonov, pur andando in televisione per fare un discorso pro-democrazia. Dopo il discorso, scomparve per due giorni: stava in un bunker con Putin ed era terrorizzato, ma mantenne fino in fondo l’ambiguità.
Alla fine il colpo di Stato andò in frantumi e Gorbacëv tornò a Mosca.
Cominciò lo smantellamento dell’Unione sovietica e il 22 agosto 1991 il Soviet Supremo istituì la nuova bandiera: bianca rossa e blu al posto di quella tutta rossa con falce e martello.
Finito il golpe, nessuno riuscì a dare una spiegazione soddisfacente sulla debolezza dei golpisti. Secondo la Sal’e fu progettato tutto per consentire a Eltsin di mandare via Gorbacëv e di gestire lo smantellamento pacifico dell’Urss, esponendolo per sempre a un pesante debito con il KGB.
Per qualcuno quei tre giorni rappresentarono una storia di eroismo e di vittoria della democrazia; per altri diventarono la storia di un complotto cinico.
E per Putin? Lui raccontò di una frenetica attività contro il golpe, in realtà giocava su due fronti insieme a Sobcak, con il quale si ritirò nel bunker. Ma ufficialmente Putin racconta che il 20 agosto scrisse la sua seconda lettera di dimissioni perché la prima, l’anno precedente, era andata persa. Difficile credere che le seconde dimissioni vennero accettate l’ultimo giorno del golpe, quando ancora non si sapeva chi avrebbe vinto. Più verosimile immaginare che Putin restò un agente del KGB fino al golpe; di più, che lui fosse una delle persone della cerchia interna di Sobcak che aveva lavorato per i golpisti. La sua segretaria e i suoi colleghi ricordano il Putin dei primi mesi di lavoro al Comsiglio di Leningrado come un uomo curioso, diligente e intellettualmente impegnato. Ora era freddo e impenetrabile.
In giugno la Russia indisse elezioni presidenziali eleggendo Boris Eltsin.

LA FUCILAZIONE DEL SOVIET. Tutti i nuovi governanti trattavano la Russia come fosse una loro proprietà personale. Adesso l’Urss non esisteva più e il Partito comunista era un gruppetto di cocciuti pensionati, mentre i nuovi burocrati facevano a pezzi l’edificio dello Stato. Sobcak stava regalando appartamenti nel centro di San Pietroburgo ad amici, parenti, stimati colleghi.
Nell’autunno del 1993 Eltsin volle disfarsi del Parlamento russo, organismo strampalato con più di 1000 deputati di cui 252 appartenevano al Soviet supremo che aveva poteri di veto. In assenza di una Costituzione post sovietica, il Congresso concesse a Eltsin di fare decreti in deroga alle leggi vigenti, ma il Soviet cominciò a bloccarlo quando le sue riforme alzarono i prezzi.
Il 21 settembre 1993 Eltsin decretò lo scioglimento del Soviet supremo e indisse le elezioni per un vero organo legislativo. Il Soviet si ribellò barricandosi dentro la ‘Casa bianca’, l’esercito aprì il fuoco e il 4 ottobre i membri del Soviet furono costretti a lasciare l’edificio. I capi democratici plaudirono alla ‘Fucilazione del Soviet Supremo’, solo il Consiglio di San Pietroburgo fu l’unico a schierarsi contro l’iniziativa di Eltsin. Sei mesi dopo Sobcak andò a Mosca e convinse Eltsin a firmare un decreto di scioglimento del Consiglio di San Pietroburgo. Non ci sarebbero state elezioni fino all’anno successivo. Marina Sal’e decise di lasciare la politica cittadina.

MARINA E JUSENKOV. Sei anni dopo, poco prima dell’elezione di Putin a presidente, Marina Sal’e rimase l’unica voce critica. Pubblicò un articolo, ‘Putin è il presidente di un’oligarchia corrotta’, ma restò inascoltata ed emarginata. Sal’e si trasferì allora in campagna, in quella casa a dodici ore di macchina da Mosca, anche se girava voce che se ne fosse andata in Francia. Per il nuovo anno pare avesse ricevuto da Putin un biglietto minaccioso: ‘Ti auguro un felice anno nuovo e la salute per godertelo’. Lei negò, ma era terrorizzata.
Jusenkov, suo amico e uno dei pochi oppositori rimasti, convinto liberale, continuò la sua carriera politica. Nel 2002 si dimise dalla fazione liberale del Parlamento per protesta contro il continuo appoggio alla politica di Putin, che lui stesso definiva ‘un regime di polizia burocratica’. Nel pomeriggio del 17 aprile 2003, Jusenkov fu ucciso mentre scendeva dall’auto per andare a casa, a nord di Mosca.

PUGNO DI FERRO. Dopo la pubblicazione della sua biografia, nel febbraio 2000, Putin smise di essere il giovane riformista democratico inventato da Berezovskij, ma era per tutti il giovane teppista diventato uomo di governo dal pugno di ferro.
Mentre si apprestava a comandare tutta la Russia, ammise senza difficoltà che era sempre stato pronto a servire qualunque padrone. Ma soprattutto gli sarebbe piaciuto accontentarli tutti. Con Sobcak condivideva l’antipatia per le modalità operative della democrazia, ma nei primi anni 90 la manifestazione di lealtà ai principi democratici era stato il prezzo da pagare per essere ammessi alla vita pubblica e quindi alla bella vita. Come molti cittadini sovietici della sua generazione, Putin non era mai stato un idealista. Aveva sostituito alla fede nel comunismo, la fiducia nelle istituzioni. La sua lealtà era destinata solo al KGB e all’impero che il Kgb serviva e proteggeva: l’Urss.

PRESIDENTE DELLA RUSSIA. 26 marzo 2000 le elezioni. 7 maggio l’insediamento.
In campagna elettorale Putin non rilasciava dichiarazioni politiche e compariva poco. Pensava che mettersi in gioco per prendere voti fosse degradante. La sua campagna si riduceva essenzialmente al libro in cui si descriveva come teppista e al grande battage della stampa che lo fotografò ai comandi di un caccia mentre atterrava a Grozny.

CECENIA. Masha Gessen segue da Grozny, dove era stata tre anni prima, la campagna elettorale: “La città che conoscevo non esisteva più, spariti i monumenti e gli alti edifici, tutte le parti sembravano uguali e avevano lo stesso odore: carne bruciata e polvere di cemento. Il silenzio era orribile, assordante. Prendevo nota con ossessione delle insegne CAFFE’, INTERNET, ACCESSORI AUTO, QUI VIVE QUALCUNO…”. Nove seggi elettorali con altoparlanti che attiravano al voto con la promessa di cibo e vestiti, passati i giornalisti non c’era più niente.
Manifesto all’ingresso di un seggio: ‘LA DEMOCRAZIA E’ LA DITTATURA DELLA LEGGE’, citazione di una dichiarazione-ossimoro di Putin.
Brogli. Prima dell’inizio della seconda guerra la popolazione ufficiale della Cecenia era di 380 mila abitanti. All’epoca delle elezioni gli aventi diritto al voto erano gonfiati a 460 mila, non solo per effetto della presenza dei militari russi, quanto per i morti veri o immaginari i cui passaporti venivano impiegati per ottenere la scheda. Circa il 30 per cento dei ceceni votarono a favore di Putin, la percentuale più bassa di tutta la Russia. Eppure nel paese, l’uomo senza volto ottenne il 52 per cento dei voti per cui non ci fu bisogno di un secondo turno elettorale.

CERIMONIA. Non si era mai tenuta una cerimonia di insediamento. Putin la volle e scelse il Gran Palazzo del Cremlino, residenza storica degli zar, invece del Palazzo di Stato del Cremlino, edificio in stile moderno dove il Pcus teneva i congressi.
‘Putin attraversò la grande sala al centro su un lungo tappeto rosso, muovendo il braccio sinistro e tenendo il braccio destro raccolto, stranamente immobile, con il gomito leggermente piegato, un passo che sarebbe diventato familiare…’. Per un osservatore americano segno di una patologia ischemica alla nascita; per la Gessen ‘il gesto di una persona tesa che si muove meccanicamente di fronte al pubblico, una postura che indica a ogni passo circospezione e ostilità’. Millecinquecento invitati, molti in uniforme. Fra questi Vladimir Krjuckov, ex capo del Kgb, uno degli organizzatori del golpe del 1991. Era stato 17 mesi in prigione, poi aveva ricevuto il perdono parlamentare. Se ne stava in disparte, nessuno osò criticare.

OROLOGIO. Putin, da sempre, lo porta al polso destro (lui è destro), moda che attaccò a ogni livello di burocrazia. Una grande azienda del Tatarstan lanciò subito un nuovo modello di orologio da polso per mancini che chiamò ‘Kremlin’ e mandò il primo della serie a Putin, ma lui non l’ha mai portato: troppo cheap. Spesso fotografato con un Patek Philippe Perpetual Calendar in oro bianco da 60.000 dollari.

KAS’JANOV. Michail Kas’janov, scelto da Putin come suo primo ministro: statura imponente, voce da basso profondo, fisico da attore hollywoodiano e sorriso smagliante mascheravano la mancanza di ambizione politica. Burocrazia nel sangue, aveva fatto carriera nei ministeri sovietici e poi collaborato con vari ministri dei governi di Eltsin, fino a diventare ministro delle finanze. Il suo ingaggio: tre giorni dopo le dimissioni di Eltsin, Putin gli disse: “Se non invadi il mio campo andremo d’accordo”. La condizione era che lasciasse i poteri sulle forze armate che la Costituzione affidava al primo ministro. In cambio Putin gli concesse di occuparsi delle riforme economiche. Accettò e divenne prima il suo vice primo ministro e, quando Putin divenne presidente, fu nominato primo ministro.
Dopo l’arresto dell’imprenditore Chodorkovskij, definito apertamente ingiustificato, quattro anni dopo la nomina, Kas’janov se ne voleva andare. Putin perse la pazienza prima e nel febbraio 2004, un mese prima delle elezioni, licenziò il consiglio dei ministri. A Kas’janov, sollevato dall’incarico di primo ministro, offrì comunque altri incarichi in posizione meno pubblica, ma lui rifiutò. E subito cominciarono i guai con il fisco della sua società di consulenza. Provò a fondare un suo partito, ma senza accesso a stampa e tv, fu marginalizzato.

PRIMI ATTI. Sei o sette decreti emessi da Putin nei primi due mesi da presidente facente funzioni riguardavano gli affari militari. Da primo ministro aveva già garantito l’immunità a Eltsin e stabilito una nuova dottrina militare, abolendo la rinuncia al primo colpo nucleare. Reintrodusse l’addestramento obbligatorio per i riservisti e l’addestramento militare obbligatorio per i ragazzi della scuola secondaria. Kas’janov annunciò che le spese militari sarebbero aumentate del 50 per cento. Ancora, Putin autorizzò tutti i ministri del governo e altri funzionari a secretare le informazioni, violando la Costituzione.
Il 13 maggio 2000, sei giorni dopo la nomina, Putin firmò il suo primo decreto da presidente e propose sei leggi, cominciando lo smantellamento delle strutture democratiche: una di queste sostituiva i membri eletti della Camera alta del Parlamento con membri nominati, due per ognuna delle 89 regioni. Un’ altra consentiva la rimozione dei governatori eletti in presenza di comportamenti impropri e l’istituzione di 7 ispettori presidenziali che li controllassero. Fra questi Putin nominò solo due civili, gli altri, erano KGB, esercito, polizia. ‘Gli istinti sovietici invasero l’intero paese e lo spirito dell’Unione sovietica era stato restaurato in un attimo’.

SIMBOLI. La bandiera sovietica fu sostituita subito dal tricolore. Poi Eltsin, alla fine del ’93, decretò come simbolo dello Stato l’aquila bicipite (condivisa tuttora con Albania, Serbia, Montenegro), ma solo nel dicembre 2000 Putin la ratificò per legge. Più complicata la questione dell’Inno: nel ’91 fu abbandonato quello sovietico e sostituito con la ‘Canzone patriottica’ di Michail Linka, senza testo e impossibile da inserire, nonostante vari concorsi. Il vecchio inno (la musica era di Aleksandr Aleksandrov), del ’43, aveva un testo lirico scritto dall’autore di poesie per bambini Sergej Michalkov, col ritornello che lodava “il Partito di Lenin, il Partito di Stalin che ci guida al trionfo del comunismo”. Con Kruscev quelle parole non furono più cantate, rimase la musica. Nel 1977 ricomparvero le parole, a firma dello stesso poeta, ora sessantaquattrenne. Il nuovo ritornello lodava “il partito di Lenin, la forza del popolo”. Nel 2000 Putin, sollecitato da un gruppo di atleti che non riuscivano a cantare quell’inno, riesumò il vecchio inno stalinista, già riciclato. Il vecchio poeta, 87 anni, scrisse ancora un nuovo testo che lodava “la saggezza dei secoli, nata con il popolo”. Nel gennaio 2001, alla Duma, il nuovo-vecchio inno fu suonato per la prima volta. Tutti in piedi i 450 membri tranne due ex dissidenti, Kovalev e Rybakov. Quest’ultimo: “Ho passato sei anni in prigione ascoltando quest’inno… e sono stato messo in prigione perché combattevo contro il regime che l’aveva creato e che mandava la gente in galera e la giustiziava sempre al suono di quest’inno”.

I MEDIA. Secondo giorno di presidenza Putin: la polizia fa irruzione nella sede della società di Vladimir Gusinskij, Media Most, nel centro di Mosca, che editava la rivista della Gessen (70 dipendenti), un quotidiano e la tv NTV, per ‘sospette irregolarità fiscali’. Decine di uomini in tuta mimetica, passamontagna neri e mitra a canna corta forzarono l’ingresso, in pieno giorno. Putin disse di non essere a conoscenza. ‘Era l’inizio della fine della più importante società privata di informazione in Russia.
Il 13 giugno Gusinskij venne arrestato per accuse relative alla privatizzazione della società televisiva Russkoe Video, un tempo proprietà di di Dmitrij Rozdestvenskij.
Rozdestvenskij. Uomo di San Pietroburgo, finito in carcere nel 1998. 44 anni, educazione raffinata, aveva operato con successo sotto Sobcak. Putin aveva lavorato con lui nella campagna per la rielezione di Sobcak. I capi d’accusa (riciclaggio del denaro di Sobcak, evasione fiscale, truffa ecc) venivano cambiati continuamente. Caso complesso, ma ‘una cosa era chiara: quello che stava succedendo a Rozdestvenskij aveva poco o nulla a che fare con le imputazioni legali contro di lui e tutto si collegava invece a come si svolgevano gli affari e la politica a San Pietroburgo… Si trattava sicuramente di vendetta personale… Qualcosa sembrava essere andato maledettamente storto’ fra lui e Putin. Rozdestvenskij fu liberato per le cattive condizioni di salute alla fine dell’estate 2000. Morì nel giugno 2002 a 48 anni.
Gusinskij, un caso simile a quello di Rozdestvenskij, vendetta personale: non aveva sostenuto Putin alle elezioni e aveva un rapporto di amicizia e affari con il sindaco di Mosca, Jurij Luzkov. Gusinskij passò solo tre giorni in carcere. Liberato su cauzione, lasciò il paese divenendo il primo profugo politico del regime di Putin – solo 5 settimane dopo l’insediamento. Si spostava tra Spagna e Inghilterra. Dopo qualche tempo fu passato alla stampa un documento firmato prima che lasciasse il paese nel quale sembrava avesse concordato di cedere la propria quota di maggioranza (60%) alla Gazprom, che già aveva il 30. Il documento era firmato anche dal ministro della stampa, Michail Lesin. Gusinskij disse poi che quella firma gli era stata estorta e definì l’operazione come “racket di Stato”. Putin si tirò fuori, Kas’janov ufficialmente riprese in tv il ministro Lesin. Gorbacëv intervenì a favore di Gusinskij, invano. Molto presto questo tipo di acquisizione di grandi e piccole società divenne un fatto corrente.
Nell’aprile 2001, dopo un confronto durato quasi una settimana , il vecchio staff editoriale di Ntv venne estromesso con un atto di forza. Una settimana dopo i giornalisti della rivista Itogi, andando al lavoro trovarono l’ingresso sbarrato e furono tutti licenziati.
Masha Gessen scrisse un articolo sul caso Russkoe Video che uscì poco dopo che Gusinskij lasciò il paese, con un documento firmato da Putin. Fu seguita, telefono staccato e varie tecniche di intrusione: “La paura mi fece andare fuori di testa”, Lasciò il suo lavoro e il paese per un paio di settimane, poi tornò a Mosca a lavorare come capo dell’ufficio russo di un settimanale americano, ‘US News e World Report’.

KURSK. Il sottomarino nucleare affondato nel mar Nero con 118 marinai. Costruito nel 1990, armato nel ’94, venne inviato in missione la prima volta nell’estate ’99 e avrebbe dovuto affrontare la prima esercitazione nell’agosto del 2000. Prese il mare il 12 agosto con un equipaggio senza esperienza, messo insieme convocando uomini da navi diverse, armato con torpedini da esercitazione, alcune scadute. “La morte è a bordo con noi”, aveva detto un membro dell’equipaggio alla madre sei giorni prima dell’incidente. Dopo le esplosioni e l’incendio ritardi gravi nei soccorsi e il rifiuto dell’aiuto dei sommozzatori inglesi e norvegesi (questi accettati solo dopo nove giorni). Il paese incollato alla tv, Putin era in vacanza a Jalta e vi rimase finché fu costretto dai suoi uomini della comunicazione ad andare. Odissea dei familiari delle vittime che volevano raggiungere Vidjaevo, la città porto di residenza del Kursk. Putin li incontrò dopo 10 giorni dal disastro, fu aggredito dalla gente imbufalita. Il suo biografo era l’unico giornalista ammesso. L’articolo che scrisse e uscì il giorno dopo racconta che Putin passò 2 ore e 40 minuti con quelle famiglie e alla fine riuscì a tranquillizzarli anche perché per un’ora espose in dettaglio i provvedimenti di risarcimento. Putin uscì dall’incontro distrutto giurando che mai più avrebbe fatto queste cose. Infatti fu l’unica volta che Putin si confrontò con una folla addolorata.
Una settimana dopo Sergeij Dorenko, conduttore del Canale Uno che aveva svolto la campagna organizzata da Berezovskij per creare l’immagine di Putin un anno prima, fece un programma nel quale criticava il modo con cui Putin aveva gestito il disastro del sottomarino e trasmise estratti della riunione con i familiari, fra i quali le urla di Putin contro la televisione.
Dorenko sbeffeggiò Putin mostrandolo in ferie, abbronzato, mentre ride con i compagni di vacanza e mise in evidenza tutte le bugie del presidente (aveva, fra l’altro detto che il mare era stato in tempesta per 8 giorni, cosa non vera). Dorenko concluse: “Il regime non ci rispetta ed è per questo che ci racconta menzogne”.
Putin capì allora che la televisione che lo aveva creato – presidente uscito dal nulla - gli si poteva rivoltare contro. Convocò Berezovskij, che ancora controllava il Canale Uno e gli chiese di cedere le sue azioni. Lui rispose di no e se ne andò: “Dopo che fui uscito dalla stanza mi rivolsi a Volosin e dissi ‘Sasa cosa abbiamo fatto? Abbiamo riportato i colonnelli al potere?”. Berezovskij scrisse poi una lettera indirizzata a Putin (“…la Russia è un problema colossale e complesso che sarebbe un colossale errore pensare che si possa risolvere con metodi semplici”. Non ha mai ricevuto risposta. Pochi giorni dopo partì per la Francia e poi l’Inghilterra, dove raggiunse nell’esilio politico l’antico rivale Gusinskij. Dopo poco tempo ci fu il mandato per il suo arresto in Russia e la cessione della sua quota di azioni del Canale Uno.
‘A tre mesi dall’insediamento due degli uomini più ricchi del paese erano stati spogliati del loro potere e in pratica cacciati dalla Russia. Meno di un anno dopo l’ascesa al potere di Putin, tutte e tre le reti televisive federali erano controllate dallo Stato’.

‘CULTURA ELETTORALE SPECIALE’. Concetto introdotto da Dar’ja Oreskina, che studia la difficoltà di scoprire le violazioni e le falsificazioni durante i voti. Elezioni, formalmente libere, sono in realtà orchestrate da autorità locali che cercano di convogliare il favore verso il centro federale. Le evidenze statistiche: la percentuale di votanti stranamente elevata e una quota eccezionale di voti concentrati sui leader della competizione. Per le elezioni 2004 furono introdotte una serie di regole rigidissime per candidarsi, di fatto un ostruzionismo burocratico. Durante il voto gli osservatori internazionali verificarono una valanga di violazioni, fra cui la cancellazione dal voto di oltre un milione di anziani, la consegna a una clinica psichiatrica di schede precompilate, pressioni su studenti, sull’informazione ecc. In campagna minacce, ’avvertimenti’ e boicottaggi agli avversari, i cui portavoce venivano intimiditi e picchiati. Così anche la Litvinovic che seguiva Irina Chakamada, anche lei ex sostenitrice di Putin e ora unica oppositrice in gara.
Il 71% degli elettori votò per Putin. Anche nel giorno del voto, foto di Putin sulle copertine dei quaderni, ritratti in vendita negli uffici postali, su palloncini colorati in vendita nella Piazza Rossa. Putin aveva avuto una copertura televisiva sette volte superiore a quella degli avversari.
Elezioni Parlamento 2003: Russia Unita, partito di Putin, prende la metà dei seggi. L’Ocse: “Le elezioni non hanno rispettato molte delle norme Ocse e del Consiglio d’Europa, mettendo in dubbio la volontà della Russia di muoversi verso i criteri europei per elezioni democratiche”. Diversa la stampa americana: sul New York Times editoriale intitolato ‘I russi si avvicinano alla democrazia’. Sullo stesso tono gli altri grandi giornali. Fuori dagli Usa: The Economist decreta la morte della democrazia, definendo il nuovo Parlamento ‘l’incubo di un democratico’. Titolo del National Post del Canada: ‘Razzisti, assassini e criminali nella gara per la Duma. Venti anni dopo la decadente era di Eltsin, la corruzione ammorba la Russia’.

BESLAN e KASPAROV. Il primo settembre (‘Giornata del sapere’ in Russia, cerimonie varie per il primo giorno di scuola) 2004, i tre giorni di tragedia a Beslan, in Ossezia del Nord: 312 morti, la maggior parte bambini e anche 10 funzionari dell’FSB che cercarono di salvare gli ostaggi. Da allora partirono le riforme di Putin, governatori e sindaco di Mosca non più eletti ma nominati dal presidente. Da allora la discesa in politica di Garri Kasparov, il campione di scacchi che, nella primavera 2005 dichiarò guerra a Putin e decise di ritirarsi dagli scacchi per restaurare la democrazia in Russia.
A Beslan, nonostante fosse passato un anno dalla tragedia, Kasparov passò un’ora e mezzo a al cimitero (ovunque bottiglie di acqua o bibite aperte per ricordare quelli che avevano sofferto di disidratazione: era una tradizione). Kasparov si fermò su ogni tomba posando un garofano rosso. Poi andò alla casa della Cultura dove c’erano ‘le madri di Beslan’ vestite di nero e lui: “Sono le menzogne che hanno ucciso i vostri figli… sono le menzogne che stanno alla base di questo regime… Se il processo sarà insabbiato, Beslan si ripeterà.”. I funzionari del regime avevano detto che gli ostaggi erano 354, invece si seppe poi che erano più di mille. Appresa la notizia i sequestratori capirono che si voleva intervenire e smisero di distribuire acqua. Altra bugia: la mancanza di richieste da parte dei rapitori, un testimone consegnò poi una lettera e un videotape con richieste che potevano aprire una trattativa. Ma Putin dette l’ordine di attaccare.
Mentre Kasparov parlava si sentì come uno scoppio che fece scappare tutti e un ragazzo gli buttò addosso un’intera bottiglia di Ketchup. Kasparov si scusò e tutti andarono nella scuola: dallo stato fisico dell’edificio si capisce che la palestra è stata distrutta dai carri armati che sparavano ad alzo zero. Seguirono quattro settimane di campagna segnate da boicottaggi: ogni sala che Kasparov aveva affittato in ogni città della Russia aveva qualcosa che non andava, lancio di sassi e di uova con i ragazzi ‘lanciatori’ che poi scappavano rifugiandosi nelle auto della polizia. Una delle guardie di Kasparov vigilava continuamente sulla preparazione del cibo, lui mangiava solo quello ordinato per tutta la tavola e beveva solo acqua imbottigliata. Non aveva un’agenda, ricordava numeri e contatti a memoria, raccogliendo informazioni pezzo per pezzo visto che i media erano asserviti al regime. Aveva anche affittato un aereo privato per spostarsi senza ‘incidenti’, ma poche volte riuscì ad avere il permesso per atterrare. Passò alla macchina ma era seguito ovunque e minacciato.
Kasparov condusse con tenacia la sua campagna, ma alla fine, boicottato in tutti i modi e tagliato fuori dai media, diventò sempre più marginale. Né fama, né denaro, né la genialità sfondarono la cortina del regime. ‘Una volta smantellate le istituzioni della democrazia era impossibile organizzarsi per difenderle. Era già troppo tardi’.

TEATRO. La sera del 23 ottobre 2002, un teatro di Mosca, con 800 spettatori fu sequestrato da uomini col volto coperto. Subito liberati bambini e stranieri, gli altri restarono ostaggi per le successive 58 ore, deidratati e terrorizzati. Alle 5.30 del terzo giorno la polizia russa intervenne con un piano che sembrava brillante ma fallì: usando i passaggi sotterranei, si doveva riempire la sala del teatro di gas per addormentare tutti e impedire ai terroristi di detonare le cariche piazzate. Ma i terroristi tardarono ad addormentarsi e, chissà perché, non detonarono gli esplosivi. Gli ostaggi, debilitati non si svegliarono, per alcuni ci vollero i medici, altri morirono soffocati, altri in coma all’ospedale. In tutto 129 morti.
Pochi in Russia sono venuti a conoscenza del fatto che i terroristi, comandati da un venticinquenne che non era mai stato fuori dalla Cecenia, avevano fatto richieste così ridicole da poter garantire la liberazione degli ostaggi: volevano che Putin dichiarasse pubblicamente la sua intenzione di chiudere la guerra in Cecenia e ordinasse il ritiro delle truppe. Altra prova: la Politkovskaja venne a sapere che il motivo per cui i terroristi non avevano detonato gli esplosivi anche quando si accorsero del gas era che NON C’ERANO esplosivi.

ELIMINATI. Sergej Jusenkov, ucciso con colpi di arma da fuoco a Mosca in pieno giorno (aprile 2003).
Jurij Scekocichin. Politico progressista, vicedirettore della ‘Novaya Gazeta’, aveva lavorato a una serie di inchieste scottanti, fra cui quella sul teatro: stava per pubblicare le prove che alcune delle terroriste assedianti erano criminali già condannate che stavano scontando la pena nelle prigioni russe. Il 3 luglio 2003 Scekocichin morì dopo essere stato ricoverato 15 giorni prima con sintomi misteriosi: vomito continuo e bruciori dappertutto, In coma dopo una settimana, aveva perso tutti i capelli e la pelle gli si staccava. Morì per blocco funzionale degli organi provocato da una tossina sconosciuta.
Anna Politkovskaja. Giornalista quarantenne della ‘Novaya Gazeta’, lavorava puntigliosamente ma nell’oscurità sulle sciagure sociali. Divenne esperta in questioni cecene. Capelli grigi, occhiali, due figli, le fu permesso di trattare con i terroristi durante l’assedio al teatro. Si precipitò a Beslan appena saputo della scuola, ma venivano annullati tutti i voli su cui si prenotava e decise di andare a Rostov per poi da lì noleggiare una macchina. Si portava il cibo da casa temendo di fare la fine del suo direttore e in aereo prese solo un tè, ma arrivò a Rostov in coma. Riuscirono miracolosamente a salvarla ma i medici sospettarono un avvelenamento con una tossina sconosciuta che aveva seriamente danneggiato reni, fegato e tutto il sistema endocrino. Non riuscì quindi a indagare su Beslan, ma aveva trovato un documento della polizia dal quale risultava ch un uomo arrestato quattro ore prima dell’assedio aveva avvertito la polizia del piano.
Il 7 ottobre 2006, rientrando a casa nel centro di Mosca, Anna Politkovskaja viene uccisa nell’ascensore a colpi di arma da fuoco. In quel giorno Putin compiva 54 anni e i giornalisti subito qualificarono l’assassinio come un ‘regalo di compleanno’. Litvinenko sl suo blog: “Anna Politkovskaja è stata uccisa da Putin”. E ancora: “Non eravamo sempre d’accordo e qualche volta litigavamo… Ma su un punto eravamo totalmente d’accordo: che Putin fosse un criminale di guerra, che fosse responsabile del genocidio del popolo ceceno e che avrebbe dovuto essere processato in un tribunale indipendente e aperto”.
Silenzio di Putin per tre giorni, poi in conferenza stampa con la Merkel: “Quella giornalista era indubbiamente una critica severa dell’attuale governo della Russia… ma i giornalisti e gli esperti sanno che la sua influenza politica nel paese era pressoché insignificante… Questo assassinio provoca molto più danno alla Russia e al suo attuale governo, e all’attuale governo della Cecenia, di tutti i suoi articoli”.
Aleksandr Litvinenko. Muore il 23 novembre 2006 in un ospedale di Londra a 49 anni. Nelle urine tracce di polonio, veleno raro e fortemente radioattivo. Funzionario dell’FSB, denunciò, in una conferenza stampa nel 1998 organizzata da Berezovskij,
di aver ricevuto incarichi illegali dalla polizia segreta e, fra questi, l’ordine di uccidere lo stesso Berezovskij. In quell’anno Putin fu messo a capo dell’FSB. Berezovskij fece conoscere i due e voleva che si considerassero alleati, ma Putin si rivelò disinteressato anche alla notizia dell’ordine di uccidere Berezovskij.
Tre mesi dopo la conferenza stampa Litvinenko fu arrestato con l’accusa di essere stato violento in un interrogatorio. Caso archiviato ma lui capì che sarebbe stato incastrato su qualunque altra cosa e lasciò la Russia. Varie odissee per l’Europa fino all’arrivo a Londra dove Litvinenko si stabilì con la moglie Marina e il figlio Tolja, supportato finanziariamente da Berezovskij. Dopo qualche mese di espedienti, Litvinenko cominciò a scrivere e, con lo storico russo americano Iurij Felstinskij, scrisse un libro sugli attentati dinamitardi di Mosca del 1999, con le prove del coinvolgimento dell’FSB.
Con Achmed Zakaev, ex attore di Grozny e membro importante del governo ceceno, in esilio anche lui a Londra, studiò l’assedio al teatro di Mosca e scoprirono che uno dei terroristi (Chanpas Terkibaev, ex giornalista, probabilmente dei servizi segreti) non era stato ucciso. Informazioni fornite da Sergei Jusenkov, con il quale Marina Sal’e aveva tentato di formare un partito prima di fuggire da Londra.
Dopo una settimana di sofferenze atroci, con perdita di capelli, i medici ammisero che era stato avvelenato. Si trattava di polonio-210. sostanza radioattiva che viene prodotta solo in Russia, la cui produzione ed esportazione sono rigorosamente controllate. Questo consentì alla polizia inglese di individuare i sospettati dell’assassinio: Andrej Lugovoj, ex capo della sicurezza del socio di Berezovskij che aveva poi creato una società che forniva a Mosca servizi di sicurezza e il suo socio Dmitrij Kovtun. La Russia ha respinto la richiesta di estradizione per Lugovoj, poi nominato membro del Parlamento, con relativa immunità. L’Inghilterra ha classificato il caso come puramente criminale e non ha inoltrato una richiesta di estradizione motivata politicamente.
Uno o due giorni prima di entrare in coma, Litvinenko dettò una dichiarazione che chiese di divulgare nel caso della sua morte: “… Potrai far tacere un uomo, ma il rumore della protesta nel mondo ti riempirà le orecchie, signor Putin, fino alla fine dei tuoi giorni. Che possa Dio perdonarti per quello che hai fatto, non solo a me, ma alla mia amata Russia e al suo popolo”.
Marina Litvinovic. Responsabile all’inizio dell’immagine di Putin, dopo l’assedio al teatro lasciò il lavoro, andò a Beslan e poi seguì il processo. Impose che ogni udienza (durarono due anni) venisse registrata e ricostruì ora per ora gli avvenimenti nella scuola assediata. Grandi analogie con la vicenda dell’assedio del teatro: la maggior parte dei sequestratori era stata giustiziata sommariamente dai soldati russi; c’erano tutti i segnali da parte dei terroristi di voler trattare, ma Mosca non volle aspettare l’esaurimento delle trattative. Il 20 marzo 2006 Marina Litvinovic – allora lavorava per Kasparov – subì un duro pestaggio, all’ospedale i poliziotti sostenevano che non era stata picchiata, ma non le rubarono niente, si trattava di un avvertimento.

IL FAVORE DEGLI USA. George Bush, incontra Putin per la prima volta nel giugno 2001: “Guardò l’uomo negli occhi e fu in grado di sentirne lo spirito…”. Venivano smantellate le redazioni dei giornali americani, la guerra cecena era considerata un capitolo della lotta al terrorismo, le corrispondenze dalla Russia confermavano la narrativa consolidata dell’immagine di Putin giovane, energico, riformatore e progressista. E lui riempì il suo staff e il braccio economico del Consiglio dei ministri con progressisti dichiarati.
Dopo la morte di Magnickij e le persecuzioni giudiziarie degli imprenditori che avevano denunciato la corruzione, i media americani cambiarono atteggiamento nei confronti della Russia: il cliché della ‘democrazia emergente’ lasciò il posto a ‘tendenze autoritarie’, termine che gradualmente portò all’idea di ‘dittatura criminale’. Nel 2003 l’organizzazione internazionale Transparency International aveva classificato la Russia come il paese più corrotto del 64% dei paesi nel mondo, un po’ più corrotta del Mozambico e un po’ meno dell’Algeria. Nel 2010 la stessa organizzazione qualificava la Russia come più corrotta dell’86% dei paesi del mondo, tra la Papua Nuova e il Tagikistan.

ECONOMISTI E NUOVI RICCHI. Andrej Illarionov: prima nomina di Putin, lo scelse come suo consigliere economico: membro del circolo degli economisti d San Pietroburgo, era un noto esperto liberista che, negli Usa, sarebbe stato qualificato come ultraconservatore.
Considerava la guerra in Cecenia “un crimine”, lo disse a Putin che gli comunicò che non avrebbero più parlato di questo. Illarionov fu completamente sedotto dalla possibilità di avere accesso diretto al capo dello Stato e modificare la politica economica in Russia. In America la grande finanza era contenta di Putin e del suo entourage economico. Gli investitori cominciavano a vedere buoni risultati. Ma Beslan, fu “il momento della resa dei conti…C’era l’effettiva possibilità di salvare vite umane e Putin scelse invece di uccidere gente innocente… Se avessero continuato il confronto si sarebbero salvate delle vite, tutte o quasi… Tutto mi fu chiaro il 3 settembre 2004”. Illarionov diede quindi le dimissioni da tutti i suoi incarichi (“La Russia – scrisse – è diventata il contrario di una economia progressista: uno Stato non libero, guerrafondaio controllato da un gruppo dirigent corrotto”) , come Browder, diventò un infaticabile critico del regime di Putin.
William Browder. Nipote di un vecchio leader del Partito comunista americano, sposato con una russa, era venuto in Russia per costruire il capitalismo. Comprava piccole quote di grandi società, come il monopolio del gas o un gigante petrolifero e lanciava campagne di ristrutturazione denunciando la corruzione endemica dei dirigenti. Incontrava resistenze ma riusciva a fare alcuni cambiamenti: il valore delle azioni, comprate a prezzi stracciati, cresceva esponenzialmente. La nuova amministrazione fu molto interessata alle indagini di Browder che spesso riusciva ad ottenere la decisione di un tribunale o di un’agenzia di controllo che costringevano le aziende a far rispettare di più la legge. Costituì il ‘Fondo Hermitage’: aveva cominciato con 25 milioni di dollari di investimenti e arrivò a 4,5 miliardi di dollari, la più grossa società di investimenti straniera nel paese.
“Lo spirito di gruppo era incredibile: mai l’avevo trovato in nessun altro ufficio… Perché succede molto raramente di fare soldi e di fare allo stesso tempo una buona azione” (Browder).
Il 13 novembre 2005, tornato a Mosca da Londra, finì nella cella di sicurezza dell’aeroporto; 15 ore dopo fu messo su un volo per Londra, il suo visto di ingresso era stato revocato, All’iniziò pensò ad un equivoco, poi si rese conto che lo volevano far fuori e spostò le sue attività a Londra. Nell’estate 2006, le tre holding del Fondo Hermitage erano un guscio vuoto. Subirono anche perquisizioni pesanti da parte della polizia fiscale, 4 mesi dopo vennero notificate a Browder sentenze per svariati milioni di dollari emesse da un tribunale di San Pietroburgo contro le sue società.
Sergeij Magnickij, giovane contabile di 37 anni, scoprì una mega truffa ai danni delle tre società vuote del Fondo Hermitage, che erano state registrate a nome di altre persone, tutti criminali condannati. La truffa coinvolgeva l’ufficio delle tasse e i tribunali di tre città, Magnickij aveva scritto 16 diverse denunce per farla scoprire, ma tutti gli avvocati di Browder furono colpiti da avvisi di reato e si trasferirono a Londra. Solo Magnickij volle restare in Russia: il 24 novembre 2008 venne arrestato proprio in relazione alla truffa che aveva tentato di denunciare. Finì in prigione, dove si ammalò. Non riuscì a vedere né il suo bambino, né la moglie né la madre: il 16 novembre 2008 morì in prigione a 37 anni di peritonite. Lasciò uno scritto di 450 pagine dove documentava per tutti i 358 giorni trascorsi in carcere tutti gli abusi subiti, compreso il rifiuto delle cure mediche. Browder e i suoi lanciarono la campagna ‘Giustizia per Sergej Magnickij’ coinvolgendo Stati Uniti ed Uone europea.
Michail Chodorkovskij. L’uomo più ricco della Russia. Nato nel 1963, ingegnere chimico, fervente comunista e patriota sovietico, ex funzionario del Komsomol, aveva in comune con Illarionov e Browder l’agire mosso dagli ideali. A 20 anni importava personal computer nell’Unione sovietica, poi entrò nel gioco finanziario.
Consigliere economico di Eltsin, durante il golpe del ’91 era sulle barricate per difendere il suo governo. Aveva cambiato completamente idea e scrisse un lungo manifesto capitalista, con un suo amico e socio, Leonid Nevzlin, ex ingegnere softwarista, ‘L’Uomo con un Rublo’ (1992): “… E’ tempo di smettere di vivere secondo il dettato di Lenin! La luce che ci guida è il Profitto, guadagnato in modo rigorosamente legale. Il nostro Signore è Sua Maestà il Denaro. Solo lui ci può guidare verso la ricchezza come regola di vita. E’ tempo di abbandonare l’Utopia e di dedicarsi agli Affari, che vi renderanno ricchi!”.
Nel 1992 Chodorkovskij aveva la sua banca e, come gli altri, comprava buoni di privatizzazione di società dello Stato. Nel 1995-’96 il governo russo chiese soldi ai più ricchi del Paese cedendo quote di controllo delle più grosse società russe e Chodorkovskij acquisì la Yukos, titolare di riserve petrolifere fra le più grandi del mondo. Nel ’98, grande crisi finanziaria, crolla la sua banca, in crisi anche la Yukos che, per gli impianti obsoleti, estraeva petrolio a 12 dollari a barile, contro gli 8 sui mercati mondiali. Mancava la liquidità per pagare le centinaia di migliaia di dipendenti, ma “non se la prendevano con me, non scioperavano… Solo che morivano d fame… Prima di allora compravamo i medicinali, ma adesso non avevamo i soldi…”. Aveva 37 anni quando scoprì il concetto di responsabilità sociale (il capitalismo arricchisce, ma anche affama): “Fino a quel momento avevo considerato gli affari come un gioco… un gioco nel quale centinaia di migliaia di persone ogni mattina venivano a giocare con me e la sera tornavano nelle loro vite che non avevano nulla a che fare con me…”. Chodorkovskij decise di costruire una società civile in Russia, istituì una fondazione, Otkrytaja Rossija, Russia aperta e finanziò in tutto il paese caffè internet, scuole di giornalismo, fondò una scuola speciale per bambini emarginati dove andarono a studiare molti sopravvissuti di Beslan. Insomma, si diceva che stesse finanziando l’80 % delle organizzazioni non governative in Russia. Nel 2003 la Yukos si impegnò a dare 100 milioni di dollari in dieci anni alla Università statale russa per le Scienze Umane, era la prima volta che un privato contribuiva così a una istituzione universitaria.
Dal 2 luglio 2003 alcuni dirigenti di Chodorkovskij vennero arrestati e anche lui fu consigliato di lasciare il paese per non fare la stessa fine. Il suo socio Nevzlin si trasferì in Israele, lui, dopo un breve periodo negli Stati Uniti rientrò in Russia e assoldò la Litvinovic (ex creatrice dell’immagine di Putin) per girare il Paese con 8 guardie del corpo e pochi assistenti sul suo jet privato, parlando a studenti, lavoratori e anche militari.
Il 25 ottobre 2003 Chodorkovskij fu arrestato al’aeroporto di Novosibirsk, la sera prima aveva mandato la Litvinovic a Mosca. Fu imputato di sei reati fra i quali frode ed evasione fiscale. Diciotto mesi dopo fu condannato a nove anni di prigione e, mentre scontava la pena, venne accusato di un’altra serie di reati e condannato stavolta a 14 anni di carcere. Molti uomini suoi, a loro volta coinvolti nelle accuse, lasciarono il paese. Anche Amnesty International alla fine dichiarò Chodorkovskij e Lebedev, ex presidente del suo consiglio di amministrazione, prigionieri politici. Molti ritenevano che fosse stato punito per aver denunciato la corruzione: nel febbraio 2003, convocato da Putin con i più ricchi uomini di affare russi, aveva presentato vari studi: “La corruzione costa alla economia russa 30 miliardi di dollari l’anno”, era la sintesi. E Putin: “Ci sono delle società, e fra queste la Yukos, che hanno enormi riserve di denaro. Ci si chiede come abbiano fatto ad acquisirle”.
Un anno dopo l’arresto di Chodorkovskij, la Yukos era ridotta alla bancarotta. Dopo, con vari raggiri, fu riacquisita dalo Stato.
Michail Prochorov. 46 anni, il secondo uomo più ricco della Russia, nel maggio 2011 annunciò che sarebbe entrato in politica. Prima aveva accumulato ricchezze ma, a differenza degli altri, si era tenuto lontano dal Cremlino. La sua discesa in politica fu sollecitata da Putin e Medvedev che lo volevano scegliere come uomo di paglia per resuscitare il fallimentare partito della destra. Lui sembrava costituzionalmente incapace di fare questo. Profondamente disgustato dallo stato del suo paese, meditava di vendere tutto e trasferirsi a New York dove aveva comprato la squadra NBA. Presentandoglisi l’alternativa, invece di lasciare il paese, pensava di poterlo rimettere a postol. Accettò quindi di scendere in campo: ‘Era unuomo geniale, alto più di due metri… e io pensai che forse sarebbe stato capace di far saltare il sistema’. Nei mesi dopo si trasformò radicalmente dopo aver assunto professionisti dell’immagine e riunito dozzine di esperti di politica ed economia per aiutarlo ad elaborare una strategia. Coprì il paese di grandi manifesti con il suo viso, ‘Progettate il vostro futuro’, che spesso venivano rimossi. Gli uomini del Cremlino lo convocavano per avere i resoconti delle sue attività e per dargli consigli che lui, se non gradiva, ignorava. Il 14 settembre 2011 si ritrovò escluso dal congresso programmato dal suo stesso partito. Perso, confuso e tradito, Prochorov denunciò il fatto come illegale e convocò un congresso alternativo. Nei giorni seguenti gli arrivarono tanti di quei messaggi su quello che sarebbe successo a lui e alle sue aziende che in pratica fu obbligato ad abbandonare l’idea di dedicarsi alla politica e sparì completamente dalla scena pubblica.

Nel 2011 Transparency International stimò che il 15% della popolazione carceraria russa era costituito da imprenditori sbattuti in galera da concorrenti con buone relazioni politiche che utilizzavano il sistema giudiziario per appropriarsi delle industrie altrui.

IL PATRIMONIO. Facendo fuori i suoi avversari e ‘rapinando’ i loro patrimoni, come successe con la Yukos, Putin si comportava ‘come un vero capomafia e come tutti i capimafia non faceva distinzione fra la sua proprietà personale, la proprietà del clan e la proprietà degli aderenti al clan’. Alla fine del 2007, secondo un esperto politico russo, il patrimonio personale stimato di Putin era di 40 miliardi di dollari. Con vari intrecci societari e un articolato sistema di tangenti, coinvolgendo il suo vecchio amico e socio Kolesnikov, Putin si fece una casa sul mar Nero il cui costo previsto era di 16 milioni di dollari, “Ma continuavano ad aggiungersi cose – raccontò poi Kolesnikov – Un ascensore per raggiungere la spiaggia, una marina, una linea elettrica separata da alto voltaggio, un condotto separato per il gas, tre nuove strade di accesso al palazzo, tre piattaforme per l’atterraggio di elicotteri. Anche l’edificio continuava a cambiare; venne aggiunto un anfiteatro all’aperto e poi un teatro per l’inverno. Poi ci fu l’arredamento: mobili, opere d’arte, argenteria. Tutto molto costoso!”.
Kolesnikov andava spesso sul mar Nero a controllare il progetto, l’ultima volta nel 2009: quella che originariamente era una casa, era diventata un complesso di 20 edifici e il bilancio complessivo aveva superato il miliardo di dollari. Lo stesso Kolesnikov, quando scoprì che la casa di Putin era diventato l’unico obiettivo delle società coinvolte nei suoi affari, lasciò la Russia e in America lanciò la campagna su ‘la vera storia del palazzo di Putin’ pubblicando la documentazione raccolta dai suoi avvocati americani. In Russia venne tutto liquidato come spazzatura mediatica.

CLEPTOMANIA. ‘E’ come se Putin non avesse resistito a prendersi tutto, si è comportato come uno affetto da cleptomania’: nel giugno 2005 a un ricevimento per uomini d’affari americani a San Pietroburgo si intascò l’anello con 124 diamanti del Super Bowl del proprietario di New England Patriots, Robert Kraft. Aveva chiesto di vederlo, se l’era infilato al dito dicendo ‘potrei uccidere qualcuno con questo’, poi se lo mise in tasca e uscì dalla stanza. Dopo vari articoli imbarazzanti sulla stampa americana, Kraft annunciò che l’anello era stato un regalo.
Settembre 2005, Putin ospite d’onore a New York al Guggenheim museum, gli ospiti fecero vedere un pezzo che un altro visitatore russo doveva aver regalato al museo: la replica in vetro di un kalashnikov, piena di vodka. Lo strano souvenir viene venduto a Mosca per 300 dollari. Putin fece cenno a una delle sue guardie del corpo che prese il kalashnikov di vetro e lo portò via lasciando senza parole i dirigenti del museo.

INTERNET. Diversamente dalle proteste nei paesi arabi del 2011, la rete in Russia non era efficace per la propaganda antiregime: Internet si era diffuso ma aveva preso la forma di una serie di bolle di informazione separata. I ricercatori americani che avevano disegnato la mappa delle blogosfere del mondo trovarono che, a differenza di quella americana o iraniana, che formavano una serie di cerchi interrelati, la blogosfera russa era costituita da cerchi separati, senza collegamenti fra loro. ‘Era l’antiutopia dell’età dell’informazione: un numero infinito di camere anecoiche. E non valeva solo per Internet. Il Cremlino guardava la sua televisione, il mondo degli affari leggeva i suoi giornali, l’ntelligncija leggeva i suoi blog . Nessuno è al corrente delle realtà degli altri, cosa che rende difficile l’innesco di una qualunque forma di protesta di massa.

MEDVEDEV. Dmitrij, nominato da Putin, vinse le elezioni del marzo 2008 con più del 70% dei voti. 42 anni, poco più alto di un metro e cinquanta (la sua vera statura è un segreto protetto, ma non mancano pettegolezzi e sue foto seduto su un cuscino o in piedi su uno sgabello per arrivare al microfono), fece sembrare Putin un gigante e un capo carismatico. Avvocato, aveva lavorato nell’amministrazione di San Pietroburgo. Mai guidato un lavoro di squadra né comandato alcunché. Imitava il modo robotico con cui Putin pronunciava i suoi discorsi, ma senza tono minaccioso. Altra differenza: non apprezzava le barzellette volgari, eloquio raffinato, cercava di imbottire il suo intenso vocabolario di uno spirito moderno, tecnologicamente aggiornato, con iPhone e IPad. Si rivolgeva a un pubblico pensante, come slogan le quattro ‘I’: istituzioni, infrastruttura, investimento e innovazione. L’intelligencija se la bevve. Putin invece continuava a regalare alle masse la sua produzione di memorabili volgarità: battute da teppista, foto che lo ritraevano a petto nudo, il servizio di lui che si tuffa nel mar Nero e ne riemerge con un’anfora del VI secolo preventivamente piazzata lì dagli archeologi.
Dopo sei mesi dal suo insediamento, Medvedev fece approvare dal Parlamento una scontata proposta di legge per portare da 4 a 6 anni il mandato presidenziale. Il progetto, ovvio, era che nel 2012 sarebbe tornato Putin per restarci per due mandati consecutivi di sei anni l’uno.
Il 24 settembre 2011 Russia Unita tenne il suo congresso nel quale Medvedev disse che, quando era diventato presidente, lui e Putin avevano fatto un accordo: Putin sarebbe diventato di nuovo presidente e lui di nuovo il suo primo ministro. In poche ore la rete si riempì di foto truccate di Putin vecchio e che somigliava a Breznev. Putin avrebbe avuto 70 anni alla fine del suo secondo mandato di sei anni. E con questo la trasformazione della Russia in una nuova Unione sovietica, come nelle intenzioni e negli scopi di Putin, era completa.

LA ‘RIVOLUZIONE DELLA NEVE’. 4 dicembre 2011. Elezioni parlamentari, Russia Unita, partito di Putin, vince ma ben al di sotto delle aspettative. Si dice che alcuni distretti elettorali hanno seccamente respinto le pressioni per falsificare i risultati perché non se la sentivano di mentire così tanto. E comunque, i 500 volontari dell’ ‘Osservatore cittadino’ piazzati in 170 seggi di Mosca non hanno segnalato violazioni gravi solo in 36 seggi. La partecipazione al voto è arrivata al 49%, dato molto al di sopra a tutte le precedenti elezioni in Russia.
5 dicembre 2011. Prima manifestazione di protesta: previsti dei cordoni che delimitano lo spazio consentito ai manifestanti, massimo devono essere 500 persone, ne arrivano più di cinquemila, fatto che non si vedeva dall’inizio degli anni 90. Alla marcia illegale organizzata dai manifestanti per arrivare alla commissione elettorale centrale, ci furono 300 arresti. Annunciata un’altra manifestazione per il giorno seguente, mancano però simboli di aggregazione e slogan. Alle 2.43 del mattino, il dirigente pubblicitario Arsen Revazov posta su Facebook: ‘La rivoluzione della neve, oppure si riparte da zero. Quando molti milioni di persone si metteranno un nastro bianco al braccio o lo legheranno sull’auto, alle loro borse, alle loro giacche, sarà impossibile falsificare o truccare alcunché. Perché sarà fuori all’aperto e visibile da tutti. Nevicherà. Tutta la città diventerà bianca. I cittadini con i loro nastri bianchi. Prima il 10 per cento, poi il 20, il 30 e nessuno avrà più paura…’.
6 dicembre 2011. Decine di migliaia di giovani portati con gli autobus da fuori città sono stati ammassati nel centro di Mosca per celebrare la vittoria di Russia Unita. Gli erano stati dati giacche e tamburi blu che, dopo, sono stati buttati via. Le foto dei tamburi ammaccati e ammucchiati sui marciapiedi hanno poi invaso i blog. Un’altra protesta illegale viene organizzata per la sera. Ed è annunciata un’altra protesta autorizzata per il sabato successivo.
7 dicembre 2011. Michail Gorbacëv, ormai ottantenne, lancia un appello per ripetere le elezioni. In un post sul blog del forum dell’ ‘International Herald Tribune’ Masha Gessen descrive la protesta del lunedì e poi scrive: “Il problema del regime sovietico – e di quello che Putin ha ricreato a sua immagine – è che sono sistemi chiusi il cui collasso è imprevedibile. Non c’è una relazione di causa ed effetto tra la protesta della piazza e la caduta del regime perché non ci sono i meccanismi che denunciano al popolo la responsabilità del governo… In Russia non abbiamo un sistema giudiziario indipendente dal ramo esecutivo del governo. Peggio ancora non servirebbero a nulla né un nuovo conteggio né un nuovo voto, perché la legge elettorale è un imbroglio e possono partecipare al confronto solo i partiti approvati dal Cremlino. Per questo la gente che protesta contro l’elezione rubata in effetti sta chiedendo lo smantellamento dell’intero sistema…”.
L’organizzazione ‘Russia dietro le sbarre’, creata un paio di mesi prima da Olga Romanova (ex scrittrice diventata attivista a tempo pieno per i diritti dei carcerati dopo che il marito imprenditore è stato condannato a otto anni per frode sulla base di falsi documenti) fa sapere che circa la metà dei giudici di pace che trattavano i casi di arrestati nelle manifestazioni post-voto si sono dati malati. Ottanta giudici con l’influenza.
9 dicembre 2011. Più di 20.000 frequentatori di facebook hanno fatto sapere che parteciperanno alla manifestazione di sabato, programmata in piazza della Rivoluzione, ma nella istanza presentata dagli organizzatori dieci giorni prima erano indicati 300 partecipanti. Quelli in soprannumero normalmente venivano arrestati, cosa impossibile in questo caso. Due degli organizzatori trattano con l’amministrazione civica di Mosca: viene concessa la partecipazione fino a 30mila partecipanti estendendo la durata da due a quattro ore, ma la sede viene spostata da piazza della Rivoluzione a piazza Bolotnaja (dell’Acquitrino).
10 dicembre 2011. Alla manifestazione partecipano, secondo alcune stime, fino a 150 mila persone, con nastri, foulard, pantaloni e palloncini bianchi. Nessuno scontro. Sul finire della manifestazione sale sul palco un rappresentante della polizia: “Oggi ci siamo comportati come la polizia di uno Stato democratico. Grazie!”. La gente applaude. Nello stesso giorno dimostrazioni di protesta in 99 città della Russia e di fronte ai consolati e alle ambasciate russe in più di 40 città del mondo.
Putin non commenta.