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 2012  agosto 23 Giovedì calendario

La benzina oltre la soglia psicologica dei due euro al litro è un pessimo biglietto d’auguri per il dopo-ferie: in un paese come l’Italia, traumatizzato da una grave e prolungata congiuntura negativa, quel prezzo della benzina oltre euro 2

La benzina oltre la soglia psicologica dei due euro al litro è un pessimo biglietto d’auguri per il dopo-ferie: in un paese come l’Italia, traumatizzato da una grave e prolungata congiuntura negativa, quel prezzo della benzina oltre euro 2.00 potrebbe diventare lo spartiacque tra speranze e frustrazione, tra voglia di ripartire e rinuncia a combattere, tra la risposta costruttiva alla crisi e il mugugno rassegnato. Per questo è opportuno guardare bene dentro a questo prezzochiave; si scopre così molta complessità, troppa oscurità e insufficiente trasparenza. Più di metà del prezzo ossia più di un euro di quanto pagato dagli automobilisti per un litro di benzina è costituito da imposte. Una parte di queste imposte è rappresentata dall’Iva ed è quindi espressa in percentuale sul prezzo; il che significa che quando il prezzo della benzina aumenta, le casse dello Stato ne traggono beneficio. Si potrebbe dire, quindi, che lo Stato, come i Paesi produttori, gode di una «rendita petrolifera», diventa uno «Stato-sceicco» e che gli incassi dell’Iva petrolifera contribuiscono (anche se poco) a smorzare le difficoltà finanziarie pubbliche. Oltre allo Stato, i proventi della tassazione possono andare anche, per qualche centesimo al litro, alle Regioni che, in base alle norme di legge, possono introdurre un’ulteriore addizionale. Il che contribuisce a spiegare perché si paga la benzina più cara in alcune parti d’Italia che in altre. La parte restante, all’incirca 75-85 centesimi, è divisa tra i Paesi nei quali il petrolio è estratto e le imprese – di regola grandi multinazionali o società a esse collegate che lo estraggono, trasportano e raffinano trasformandolo in benzina. E inoltre tra quelle che trasportano la benzina agli impianti di distribuzione e i distributori stessi, in grande maggioranza organizzati in reti dalle stesse multinazionali che garantiscono loro il rifornimento. E’ su questa quota del prezzo che agiscono i meccanismi di mercato che collegano direttamente il pieno pagato dal signor Bianchi alla quotazione del prezzo del greggio sui mercati di New York e Londra. Tutto questo processo è molto opaco innanzitutto perché la benzina può essere il risultato di cicli produttivi assai diversi tra loro. La raffinazione di un barile di greggio fornisce infatti non già un prodotto solo bensì una gamma di prodotti, dalla benzina (molto leggera) all’olio combustibile e al bitume (molto pesanti); nel processo di lavorazione, a seconda delle politiche dei raffinatori e del tipo di greggio che riescono a comprare, la benzina può essere prodotto o sottoprodotto. Non solo, la benzina che si vende oggi alle pompe può derivare da greggio raffinato un mese, due mesi o anche sei mesi fa. Questa complessità tecnica si traduce in un rebus contabile. Quando affronta le multinazionali petrolifere, il fisco dispone soltanto di due parametri molto vaghi, ossia il prezzo del greggio in dollari e il cambio del dollaro con l’euro. Questi parametri hanno mostrato una tendenza a cadere per buona parte dell’anno e la caduta si è effettivamente tradotta in una riduzione del prezzo della benzina che ha in parte cancellato un precedente aumento. Poi l’euro si è indebolito e il prezzo del greggio è risalito, due condizioni negative per l’acquirente italiano e ne stiamo sopportando le conseguenze. Ora però l’euro sta risalendo, sia pure in un panorama confuso, il che fa sperare che gli aumenti siano di breve durata. Quando però gli aumenti – e il superamento di quota 2.00, per ora documentato solo in alcune parti del Paese – vengono annunciati a ridosso di uno dei fine-settimana dal traffico più intenso dell’anno, durante il quale milioni di automobilisti acquisteranno benzina, il sospetto che le grandi società di distribuzione vogliano trarre un rapido vantaggio commerciale non può essere del tutto trascurato. La stessa difficoltà di indagine tecnica sui costi dell’industria petrolifera, che impedisce al fisco accertamenti dettagliati, impedisce altresì di «assolvere» automaticamente i produttori da ogni dubbio sul funzionamento del mercato. Uno spazio per miglioramenti indubbiamente c’è. Fisco e petrolieri dovrebbero «parlarsi» molto di più e mettere assieme un sistema di rilevazioni contabili che consenta maggiore trasparenza. E soprattutto sarebbe auspicabile che le società petrolifere dimostrassero sul mercato della benzina quello stesso tipo di lungimiranza di cui danno prova quando impostano piani più che decennali e affrontano spese gigantesche per la «coltivazione» di un giacimento petrolifero. Correre dietro agli spiccioli, togliere qualche decina di euro dalle tasche di milioni di famiglie italiane che fanno il pieno alla fine delle vacanze non è precisamente un atteggiamento coraggioso. E potrebbe risultare controproducente.