Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore 22/8/2012, 22 agosto 2012
SUL RISCHIO DEFAULT SCOMMESSA PERSA
Esistono soglie più o meno significative per i mercati finanziari. Quella di 400 punti base raggiunta e oltrepassata al ribasso dai credit default swap (Cds) sul debito italiano, gli strumenti utilizzati dagli investitori professionisti per «assicurarsi» contro un’eventuale insolvenza del Tesoro sui titoli a 5 anni può passare inosservata, ma non è certo priva di segnali di interesse in questa particolare fase. Maximilian Cellino Sotto l’aspetto puramente pratico, un Cds che quota al di sotto di 400 punti base significa che per proteggersi da un eventuale default dello Stato italiano si dovevano ieri versare poco meno di 4mila euro per assicurare un investimento di 100mila euro. Dal punto di vista statistico, invece, l’evento di ieri non si verificava dai primi giorni di aprile e riflette, a suo modo, un ulteriore testimonianza dell’aria differente che si respira sui mercati in questo mese d’agosto. Ma le curiosità attorno alle quotazioni del Cds italiano non si esauriscono qui, perché a ben vedere il derivato si muove al ribasso più in fretta di quanto non faccia il rendimento del titolo sottostante, cioè quel BTp a 5 anni che viaggia sì ai minimi (ieri al 4,63%, cioè 463 punti base), ma da soli 3 mesi. Il confronto fra Cds e tassi dei titoli sovrani non è poi così privo di interesse in una fase in cui, al di là delle smentite della Banca centrale europea e della secca opposizione della Bundesbank, ci si continua a interrogare sul livello adeguato al quale piazzare un «tetto» al costo del debito di un Paese. Il presidente della Bce, Mario Draghi, a suo tempo ha infatti isolato le tre differenti componenti che influenzano i rendimenti dei titoli sovrani europei: ai due rischi classici, quello di credito (ovvero la possibilità che un emittente non sia in grado di ripagare cedole e capitale) e quello di liquidità si aggiunge un ulteriore fattore che è diretta conseguenza della crisi dell’euro, ovvero il pericolo avvertito dagli investitori di ottenere alla scadenza un rimborso in valuta differente e meno pregiata (cioè in «nuove» lire anziché euro). Su quest’ultimo elemento – definito rischio di «conversione», e chiaramente legato al pericolo di una disgregazione dell’euro – Draghi ha fatto chiaramente capire di potere e dovere intervenire per frenare la deriva del costo del debito dei Paesi periferici. Anche perché sul fattore liquidità si è già operato (e probabilmente si tornerà ad agire) attraverso le aste a lungo termine (Ltro), mentre il rischio di credito non è influenzabile almeno in via diretta dall’Eurotower. Quantificare in sé le diverse componenti che determinano la crescita dei tassi di interesse dei bond «periferici» oltre il dovuto è impresa ai limiti del possibile, dato che i tre fattori di rischio sono intimamente connessi e difficilmente separabili. Ma il Cds, con le dovute cautele vista la non elevata liquidità e l’opacità del mercato, può rappresentare un buon elemento segnaletico, quantomeno perché riflette pur con approssimazione il rischio di credito «puro» di un emittente, l’elemento su cui la Bce non può agire. Riportare i tassi italiani ai livelli dei premi dei rispettivi Cds (o, meglio ancora, al differenziale che esiste su questi strumenti con la Germania, l’investimento ritenuto «free risk») potrebbe quindi rappresentare un obiettivo plausibile per Francoforte, che in questo modo tenderebbe a rimuovere almeno in parte significativa dai bond sovrani il rischio di liquidità e quello di conversione. Un target dinamico, quindi, perché il livello del rischio di credito muta ogni giorno ed è a sua volta inevitabilmente influenzato dalle mosse di Draghi per minimizzare gli altri due fattori di pericolo, ma non per questo meno efficace di un tetto statico quale quello che si invocava qualche giorno fa.