Silvia Fumarola, la Repubblica 21/8/2012, 21 agosto 2012
PIERFRANCESCO FAVINO “UN BRAVO ATTORE NON SI MASCHERA RESTA IN MUTANDE”
ROMA
Va bene lo sguardo da seduttore, il sorriso da mascalzone che ha fatto innamorare le spettatrici. Ma la vera forza di Pierfrancesco Favino, 43 anni, “Picchio” per gli amici, soprannome dato dal padre «dopo tre giorni che ero nato, tutti in famiglia ne hanno uno», è la simpatia. Due figlie, Greta e Lea, la compagna Anna Ferzetti che è un punto fermo, Favino — come ha dimostrato nello show di Maurizio Crozza — è strepitoso quando fa le imitazioni (da Tina Pica a Mastroianni) e confessa che gli sarebbe piaciuto fare il comico: «Io sono rigoroso, ipercritico, ogni volta che mi rivedo sullo schermo mi trovo un difetto, ma suscitare una risata è una soddisfazione».
Quest’anno è stato protagonista della stagione — ha interpretato
L’industriale di
Montaldo,
Acab di
Sollima,
Posti in piedi in paradiso
di Verdone,
Romanzo di una strage
di Giordana — ma guai a farglielo notare: «Coincidenze, giri i film in tempi diversi ed escono tutti insieme; povero pubblico. Ora per un po’ sparisco». La prima volta sul set, ventuno anni fa, se la ricorda bene: «Ho debuttato con una chioma rossa alla Rita Pavone. Era impossibile diventare biondo, ma pur di avere la parte…
».
Favino, parliamo di questa tintura per capelli sbagliata.
«Il film era
Una questione privata,
1991: sceneggiatura di Raffaele La Capria con un giovane Paolo Virzì, regista Alberto Negrin. Ero al secondo anno all’Accademia d’Arte drammatica, viene la casting Chiara Meloni a cercare attori, mi fanno il provino per il ruolo da protagonista. Negrin chiede che mi schiariscano i capelli. I miei erano neri corvini; primo risultato ramati, poi rosso carota che non stava bene coi miei colori».
In effetti.
«Un mostro. I tecnici mi rassicuravano: “La macchina da presa non legge quei colori”. Tutti convinti, il regista sempre meno, credo per ragioni estetiche. Spariscono. Dopo tre settimane chiamo io: novità? Risposta: “Per l’Italia sei tu” frase che nella mia testa associavo solo a
Giochi senza frontiere.
Nel frattempo la produzione era diventata internazionale».
Come andò sul set?
«Mi prendono ma non come protagonista, paga 250mila lire, per me tantissime. Mi ritrovo a Pianfei, tra Cuneo e Mondovì, ospite nell’albergo che aveva accolto la Colombia ai Mondiali 90. Parto che peso 76 chili, al ritorno sono 82, ricordo ancora gli gnocchi ai quattro formaggi. Non sapevo niente del set, dei movimenti della macchina da presa, Alberto Negrin urlava come un pazzo. Una delle prime scene era in un torrente, dovevo rincorrere Rupert Graves. Scivolo, mi rialzo tutto bagnato e mi scuso, Alberto mi copre di improperi: “Cos’è tutto ‘sto teatro?”».
Però poi con Negrin ha girato “Bartali” e “Di Vittorio”.
«A distanza di quindici anni — non ci eravamo più incontrati — lo vedo spuntare sul set dove lavoravo. Mi è preso un colpo, terrore puro. “Giro un film su Bartali, mi dicono che potresti farlo tu”. È diventato un amico, con lui ho imparato tanto».
Quanto è narciso come attore?
«Recitare mi piace e mi fa stare bene, però è quello che faccio per campare. Mi distingue da chi fa un altro lavoro ma non cambia la mia qualità umana, certe follie su di me non attecchiscono, e non lo dico per fare Padre Pio. Un attore è bravo quando non trattiene niente di sé. L’immagine ha a che fare col mercato, non col lavoro. Se la tua immagine t’impedisce di fare una scena, se ti controlli, se vuoi far vedere solo il “lato migliore”, come attore non potrai mai essere
sorprendente».
E il successo con le donne?
«Esci con una ragazza che ti piace, ti prepari, poi ti fidanzi con lei. Un giorno ricordate la prima volta che siete usciti e ti dirà le cose che volevi nascondere: “Eri così carino impacciato”… Ho un aspetto virile e in questo momento di crisi del maschio forse sono rassicurante. Ma sono rompiscatole, se le donne mi conoscessero».
Quando si è detto: ce l’ho fatta?
«Non me lo sono ancora detto, in questo un po’ di narcisismo c’è: ho un’idea alta del mio mestiere. Bravo è De Niro in
Toro scatenato,
bravo è Volontè nel film
La classe operaia va in paradiso,
loro sono inarrivabili. Non credo che sapessero quanto erano grandi o che Mastroianni pensasse: “Sono bravissimo”. E in questo probabilmente c’è la loro grandezza. Il pubblico intuisce se fai l’attore in maniera onesta».
Ha lavorato in America, di recente ha girato “Rush” di Ron Howard.
«Chiariamolo: in
Rushfaccio
un piccolo
ruolo, sono Clay Regazzoni, la storia ruota intorno a Lauda. L’America ti insegna il rispetto per il lavoro, qualsiasi cosa tu faccia; in Italia il mondo del cinema è visto come gente che ruba il pane ».
Che pensa di quello che sta succedendo a Cinecittà?
«Sono vicino ai lavoratori, Cinecittà è un simbolo di cui andare fieri, fa parte della nostra storia. A Los Angeles in ogni studio un cartello ricorda quali film sono stati girati: dal
Mago di Oz
a
Guerre stellari.
Non è un modo di tirarsela, ma di onorare quel luogo. Chiudere Cinecittà è come cancellare la nostra memoria ».
Recita da tanti anni, ha un obiettivo?
«Sergio Castellitto mi ha detto: “Un bravo attore rimane in mutande”. Più vai avanti più il bagaglio è pesante. Io voglio rimanere in mutande, m’interessa la ricerca, vorrei essere uno strumento attraverso il quale gli altri comunicano».