Concita De Gregorio, la Repubblica 21/8/2012, 21 agosto 2012
LE CINQUE GIORNATE DI LUCERA “NOI, TERRA DI BOSS SPIETATI E LO STATO CI PORTA VIA I GIUDICI”
LUCERA (Foggia)
TUTTI scrivono, a Lucera, come se le parole potessero salvarli. È sabato sera, in questo angolo di Puglia dove lo Stato sta per congedarsi dalla gente lasciandola sola con tutto quello che manca.
SCRIVE il vescovo: una lettera al presidente della Repubblica, una supplica «perché non ci lasci soli con la pressione
mafiosa, sarebbe la morte della speranza» rilegge fra le labbra don Mimmo Cornacchia, poi fa suonare a morto le campane del Duomo. Diecimila persone in piazza per la festa patronale di Santa Maria Assunta e quei rintocchi a lutto nel tramonto che fa rosse le torri
moresche, la folla muta. Scrive il procuratore capo, «il mio testamento», dice. Tre volte minacciato di morte, raggiunto da proiettili croci e bare disegnate col sangue Mimmo Seccia, il pm, scrive la storia dei 140 delitti di mafia garganica: un elenco di morti ammazzati
lungo fin qui, fino a ieri. Scrivono gli uomini della sua scorta, imbustano e inviano relazioni sulle nuove dichiarazioni dei pentiti, un ergastolano ha deciso di collaborare due mesi fa. Scrivono i sindaci che restituiscono al prefetto di Foggia le loro fasce tricolore. Scrive a Monti il presidente dell’ordine degli avvocati Pippo Agnusdei, che con soavità degna del cognome che porta si chiede e chiede se non ci siano «suggestioni politiche» a orientare la decisione di sopprimere l’antico tribunale di Lucera, perché di tecniche, elenca con dovizia di dettaglio, non ce ne sono. Suggestioni politiche che riconsegnerebbero Cerignola, San Nicandro e il triangolo garganico della “mafia sterminatrice” agli eredi di Matteo Ciavarella, l’uomo che beveva il sangue delle sue vittime, oggi all’ergastolo in carcere di massima sicurezza, e a quelli di Angelo Tarantino, il capo del clan nemico. Gli ultimi contatti registrati tra quarte e quinte linee della vecchia dinastia — raccontano in procura — risalgono a poche settimane fa: si riorganizzano. Scrivono le donne del paese riunite in comitato cittadino: hanno consegnato ieri alle autorità migliaia e migliaia di certificati elettorali, la gente è andata
in Duomo a restituirli per protesta «che tanto che ci andiamo a fare a votare se ci vogliono morti». Scrive, infine, il Procuratore della repubblica di Bari Antonio Laudati. Parole pubbliche e messaggi privati distensivi quanto tardivi: è anche sulla base della sua relazione al ministro Severino (i pericoli di mafia su questo territorio sono «ormai totalmente privi di attualità», ha dettato) che il governo ha inserito il Tribunale di Lucera nella lista dei presìdi di giustizia da abolire. La decisione ultima, in Consiglio dei ministri, è attesa per il 24.
Tutti scrivono, nelle case ombrose di Lucera, perché tutti sanno che cancellare il tribunale in una terra di mafia è un segnale molto preciso, una resa dello Stato, una festa per le cosche, una condanna per i giovani che — dice il vescovo — «sono messi di fronte alla scelta di vivere senza lavorare o lavorare senza vivere ». Lavorare senza vivere. «Togliere l’argine anche simbolico della giustizia significa accelerare il processo di reclutamento criminale dei giovani, in una zona afflitta da disoccupazione gravissima, e autorizzare la giustizia privata. Io sono un pastore di anime, ma le anime abitano i corpi. La chiesa ha il dovere di ascoltare le ragioni della sua gente e di farsene portavoce presso chi ha il potere di decidere per il bene comune. Un vescovo deve suonare le campane». È per questo che la sera del 16
agosto don Mimmo Cornacchia ha fatto suonare a lutto le campane del duomo, ha consentito la raccolta dei certificati elettorali sulle scale della Cattedrale, ha applaudito l’iniziativa dei sindaci decisi a restituire le loro fasce. «Mi avevano chiesto di non fare la festa in segno di protesta ma la festa invece è il luogo della condivisione, è un palco da cui far salire la nostra voce». Da quel palco ha detto ai fedeli: «Prego perché coloro che ci governano possano promuovere solo il bene comune, di tutti e non di pochi. Porto con voi e per voi la croce di quelli che non ce la fanno, che temono la chiusura dell’ospedale, del tribunale. Vorremmo che i sacrifici per il bene della collettività fossero di tutti e non solo dei più deboli». La folla ha applaudito a lungo. La lettera di supplica a Napolitano reca le stesse parole: che il capo dello stato possa «riconsiderare la decisione» alla luce della «pressione mafiosa presente nei territori interessati». È dunque il vescovo a pronunciare la parola mafia, quella che manca nella relazione al ministro firmata dal procuratore di Bari Laudati.
Domenico Seccia è in ferie, ma è seduto nella sua stanza al secondo piano della procura.
Gli uomini della scorta pure: in ferie, al lavoro. È stato pm al maxiprocesso Iscaro-Saburo, 102 imputati tra cui Matteo Ciavarella il bevitore di sangue, ergastolo. E’ stato cinque anni alla direzione antimafia di Bari, poi procuratore capo a Lucera. 53 anni, due figli. Un libro uscito a novembre per la Meridiana,
La mafia innominabile.
«La mafia garganica non esisteva perché tutti la negavano, anche i magistrati che se ne occupavano. Una faida come le altre. La mafia garganica però esisteva eccome. Ammazzava e ammazza». La corte suprema lo ha certificato con sentenza dell’8 ottobre 2011: criminalità organizzata di tipo mafioso. «Cioè: la corte ha detto quel che non ha detto per la mafia del Brenta, per la banda della Magliana. Ha sancito ciò che le carte processuali di cento processi mostrano con evidenza: c’è una mafia sterminatrice, nel Gargano, che non lascia vivo nessuno dei maschi delle famiglie in lotta per il controllo del territorio. Ogni primo novembre si celebra la festa dei morti con un nuovo omicidio. Una storia che ha origini lontane, nasce dai furti di bestiame, e che oggi vede un clan alleato delle ‘ndrine e l’altro della camorra napoletana,
una rete attraverso la quale passa il commercio di armi, di droga, il controllo delle estorsioni e l’industria agricola, la raccolta dei pomodori per prima. Sono stati tutti estorti, qui. Il commercio controllato, i locali incendiati e comprati dalla mafia per farne centri di riciclaggio del denaro». Racconta, Seccia, la storia della mafia di Lucera: del libanese Khaled, oggi all’ergastolo, contro il clan di Antonio Tedesco. Delle edicole di Monte Sant’Angelo macchiate di sangue, altari di mafia mascherati. Dei riti di morte che si mescolano con quelli religiosi, questa è la terra di padre Pio, agli uccisi si segna in fronte una croce disegnata col loro stesso sangue. Racconta la lunghissima scia di omicidi della faida garganica fra i Tarantino e i Ciavarella e dell’incredibile storia di Rosa Di Fiore, la magnifica ragazza oggi sotto protezione prima moglie di un Tarantino, poi di un Ciavarella. Madre di quattro figli, due dall’uno e due dall’altro, pentita non ancora quarantenne «per amore dei suoi figli — racconta il procuratore — prima di scomparire in una nuova identità con tutti e quattro mi ha detto: le sono grato, i miei ragazzi non impareranno a sparare».
Se Lucera perdesse davvero il suo tribunale, spiega l’avvocato Agnusdei, tutto finirebbe a Foggia. E basta dir questo, basta nominare Foggia per suscitare sospiri e occhi bassi. Tempi lunghissimi, sabbie e nebbie burocratiche. Poi mostra i dati. Dei 58 tribunali sotto osservazione del ministero per l’ipotesi di soppressione, quello di Lucera (per carico processuale, 13 mila nuove cause all’anno, per estensione del territorio, 2813 chilometri quadrati, e per popolazione, 172 mila abitanti) occupa in una media matematica il quarto posto per efficienza. Quarto su 58, e ne vengono soppressi 31: perché siamo in quella lista?, chiede nella sua lettera al ministro e a Monti. C’è forse un errore materiale o sono altre le ragioni, e in questo caso quali? Poi cita un’antica perorazione di Giambattista Gifuni, storico lucerino, in difesa del tribunale: fondato nel 1808 da Giuseppe Napoleone, fu soppresso del 1923 dal Fascismo per un problema di «revisione delle circoscrizioni giudiziarie» orientato a maggiori economie. Allora come oggi, legge, «i lieti onori tornarono tristi lutti». Tristi
lutti. Le campane a morto in chiesa, i killer che rimettono mano ai loro arsenali, le donne che fanno la fila in duomo per dire che a votare non ci andranno più. In una città governata dalla destra, dove lo Stato smantella i suoi ospedali, manda a casa i giudici e lascia nel carcere attrezzato per cento persone 260 detenuti. Nove su dieci hanno meno di 30 anni, quasi la metà sono stranieri. Come la manovalanza del libanese Khaled, come i braccianti nei campi di pomodori. «I nostri figli da qui devono solo scappare», dice Anna che ha quarant’anni segnati di fatica. Poi butta la sua tessera elettorale nel cesto, si stringe nello scialle leggero, volta le spalle alla chiesa e se ne va.