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 2012  agosto 19 Domenica calendario

GUSTAVO ZAGREBELSKI, SU REPUBBLICA VENERDI 17 AGOSTO

ETEROGENESI dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c’è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l’esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo
di nasconderla.
Questa è una prima considerazione. Ma c’è dell’altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come “potere dello Stato”, possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch’egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d’una controversia sui caratteri d’un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che
lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona. Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d’una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull’altra, l’autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l’esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per
la sua parte, sono entrambi “custodi della Costituzione”. Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l’uno che l’altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d’una alleanza in vista d’una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d’essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell’interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell’interesse della tranquillità del diritto.
C’è ancora dell’altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall’esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell’opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. “In ogni caso”, dice la norma, l’intercettazione deve essere disposta da un tale “Comitato parlamentare”
che interviene nel procedimento d’accusa con poteri simili a quelli d’un giudice istruttore. Nient’altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d’accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull’utilizzabilità, sull’inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente. A questo punto, si entra nel campo dell’altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un “consapevole silenzio” dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell’art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell’esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione. La “irresponsabilità” comporterebbe “inconoscibilità”, “intoccabilità” assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale
è chiamata ad avallare quest’interpretazione, che è una delle due: l’una e l’altra hanno dalla loro parte l’opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l’irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l’appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d’essere presidente della Repubblica. Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un’alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall’altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?
Coinvolgimento in una “operazione”, inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n’è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l’ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso “plusvalore” di chi dispone dell’autorità; un’altra cosa è l’informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano
di gran lunga le marmoree certezze. Il suo “decreto” del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino “precedenti” tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori. Nella Repubblica, l’integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l’acquiescenza di chi ricopre
pro tempore
la carica presidenziale. D’altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo.
Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata “leale collaborazione”, di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira – la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica – attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c’è d’un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s’è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d’applicare lealmente la legge?

EUGENIO SCALFARI, DOMENICA 19/8/2012
ETEROGENESI dei fini. Con queste due parole comincia l’articolo di Gustavo Zagrebelsky da noi pubblicato venerdì. E prosegue: «È molto difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, avesse previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per diventare il perno di un’intera operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati».
Infatti è molto difficile immaginarlo, tanto più che è stato lo stesso Presidente a fugare questo dubbio dichiarando più volte pubblicamente e scrivendo una lettera al Csm, alla Procura di Palermo e ai familiari di Borsellino (la moglie e il figlio) con cui ribadiva ed esortava all’impegno di fare piena luce sui fatti relativi alle inchieste in corso, con le quali il conflitto di attribuzione da lui sollevato non aveva alcun rapporto.
L’eterogenesi dei fini opera invece, anche se Zagrebelsky mostra di non rendersene conto, sulle opinioni da lui espresse nell’articolo in questione il quale rafforza e conforta col prestigio giudiziario del suo autore la campagna in corso da tempo contro il Quirinale. Una campagna in corso prima ancora che le inchieste palermitane fornissero un’ulteriore occasione e che ha poi acquistato una virulenza che va molto al di là del sacrosanto diritto di
informazione e di critica.
Ho molta stima per l’esperienza giuridica di Zagrebelsky e l’invito perciò a porsi il problema dell’uso che verrà fatto da quelle forze politiche e da quei giornali delle sue dichiarazioni. Ma mi coglie il dubbio che Zagrebelsky ne sia già perfettamente consapevole e che quindi, nel suo caso, non si tratti di eterogenesi dei fini ma d’un esito consapevole come dimostra la dichiarazione rilasciata qualche giorno fa al “Fatto Quotidiano” e altri suoi articoli e interventi sul medesimo argomento. Mi piacerebbe che il mio dubbio fosse fugato ma temo che questa mia speranza si risolva in una delusione.
Ricerca di intenzioni a parte, restano le tesi esposte da Zagrebelsky, che meritano
qualche commento.
*** Al primo posto campeggia una certezza dell’autore dell’articolo: l’esito del conflitto è scontato. «Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la Corte desse torto al presidente della Repubblica, così nel momento stesso in cui il ricorso è stato sollevato, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari ma la richiesta d’una alleanza in vista d’una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se desse torto al Presidente, sarà accusata di irresponsabilità; dandogli ragione
sarà accusata di cortigianeria ».
Poche righe dopo queste affermazioni, è lo stesso autore a scrivere: «Sulla fondatezza d’un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall’esprimersi». Infatti. Ma sconcerta constatare che un suo ex presidente si è già espresso poche righe prima e continua nelle tre colonne successive. Segno che l’eccezionalità del caso gli impone una scorrettezza che è lui il primo a considerare grave.
Nel merito, ricordo che la Corte si è più volte espressa, in varie occasioni e con vari presidenti della Repubblica, con sentenze e giudizi contrastanti con decisioni del Capo dello Stato. Ha bocciato atti da lui firmati, iniziative da lui prese, perfino leggi elettorali da lui promulgate.
Nel caso in questione Zagrebelsky ha caricato il ricorso di significati che esso non ha, quasi che fosse un tentativo surrettizio di forzare la Corte ad una trasformazione dello spirito e della lettera della Costituzione introducendovi un contenuto «più monarchico che repubblicano».
Dove si annidi questa forzatura ultronea di cui sarebbe reo Giorgio Napolitano e succube la Corte non esiste traccia alcuna. Il ricorso, anche ad esaminarlo con il microscopio, chiede soltanto che sulla base dell’articolo 90 della Costituzione venga chiarito se l’irresponsabilità politica del Presidente per atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni contempli anche l’inconoscibilità di quegli atti qualora
essi siano ritenuti processualmente irrilevanti.
La Corte, quando emetterà la sentenza, potrà benissimo dar ragione al Quirinale senza incorrere nell’accusa di cortigianeria o dargli torto senza provocare alcuna crisi costituzionalmente drammatica. Salvo che nella testa di quei politici e dei loro riecheggiatori che palpitano nella speranza che la Corte dia ragione al Capo dello Stato per poter accrescere i loro attacchi eversivi contro entrambi, preparandosi invece ad attribuirsi il merito d’una sconfitta di Napolitano del quale a quel punto reclamerebbero le immediate e infamanti dimissioni.
*** Ma c’è dell’altro, come lo stesso Zagrebelsky scrive. C’è che il ricorso, secondo l’autore dell’articolo, non è affatto una difesa delle prerogative presidenziali da trasmettere ai successori seguendo l’indicazione
(«monarchica») di Luigi Einaudi, ma una vera e propria innovazione del dettato costituzionale che la Corte non ha assolutamente i poteri di effettuare e che comunque costituirebbe un pericolosissimo precedente e un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità.
La ricerca della verità da parte della Procura di Palermo e di qualsiasi altro ufficio giudiziario è fuori questione. Nel caso specifico poi la richiesta di rinvio a giudizio è già stata depositata e spetta ora al Gip di dare il via libera al processo. A quel punto i titolari dell’accusa adempiranno al loro compito di pubblici ministeri e saranno i giudici ad accertare la verità attraverso il dibattimento.
Quanto ai poteri della Corte in merito alla lettera della Costituzione, non dovrei aver bisogno d’esser io a ricordare ad un ex presidente della medesima che esistono sentenze «addittive
» della Corte e sentenze «interpretative» queste ultime di particolare importanza e più volte emesse su questioni di grande rilevanza.
Quanto ai «precedenti» è vero che essi rappresentano uno strumento importante in diritto pubblico. Importante, ma non cogente. Tra i poteri interpretativi della Corte c’è anche quello di stabilire un principio, un criterio, una visione giuridica che confligge con quel precedente o gli si affianca. Il tutto per la ricchezza del materiale giurisprudenziale del quale si varranno gli studiosi e gli stessi collegi giudicanti nelle loro motivazioni. *** C’è dall’altro ancora? Sì, ci sarebbe, ma qui entriamo in una sfera più politica che giuridica. Zagrebelsky invita Napolitano ad arrivare ad un compromesso con la Procura palermitana. Essa ha già dichiarato che le sue conversazioni
con Mancino non sono processualmente rilevanti. Dia seguito a quella dichiarazione — esorta Zagrebelsky — distrugga quei nastri in un’udienza «secretata» e Napolitano ritiri il ricorso alla Corte. E così vissero tutti felici e contenti. Sennonché...
Sennonché la parola «secretato » ha due diverse interpretazioni. Per gli uni significa un’udienza con la partecipazione degli avvocati che difendono le parti; per altri la pura e semplice decisione del gip di procedere alla distruzione dei materiali in questione. E questo è appunto il merito del ricorso di cui si discute.
L’Avvocatura dello Stato, prima che il ricorso presidenziale fosse stato redatto, era andata in visita alla Procura di Palermo ed aveva appunto proposto la distruzione delle registrazioni in questione. Ne aveva ricevuto un rifiuto. E dunque il ricorso. Forse Zagrebelsky non era al corrente
di questo interessante dettaglio.
Ci sarebbero molte altre considerazioni da fare, pertinenti anche se non inerenti. Ci sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent’anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai magri risultati tranne quello — a Caltanissetta — d’aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell’omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato otto anni di carcere duro.
Ci sarebbe anche da distinguere tra trattativa e trattativa. Quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è pressoché inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi. Avvenne così molte volte ai tempi degli anni di piombo. Il partito della fermezza che non voleva trattare con le Br, e quello della trattativa. Noi fummo allora per non trattare; socialisti, radicali e una parte della Dc erano invece per la trattativa. A nessuno però sarebbe venuto in mente di tradurre in giudizio Craxi, Martelli, Pannella, ed anche Sciascia e molti altri intellettuali che volevano trattare.
Qual è dunque il reato che si cerca, la verità che si vuole conoscere? Deve essere un’altra e non questa. Deve essere — come alcune frasi d’una delle innumerevoli interviste di Ingroia fa pensare — una trattativa
svoltasi in una fase in cui la mafia era ridotta al lumicino e per tenerla in vita si invocava l’aiuto dello Stato. Questo sì, se fosse provato, sarebbe un crimine. Un crimine di enormi proporzioni. È di questo che si tratta? E quand’è che la mafia sarebbe stata ridotta al lumicino e costretta ad invocare il sostegno dello Stato? Nel ’92’93? Quando i Corleonesi presero il sopravvento sul clan di Badalamenti? Non sembra che in quegli anni fossero ridotti al lumicino, anzi.
Un ultimo ricordo a proposito dei magistrati che invocano il favor popolare e gli intellettuali che ritengono necessario darglielo.
Falcone aveva accertato quale fosse la struttura mafiosa e aveva mandato a processo la «cupola» di allora o perlomeno la sua parte emersa. Andò in Usa per interrogare il «soldato» Buscetta che era lì detenuto. Dopo l’interrogatorio Buscetta gli disse che avrebbe potuto rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del coinvolgimento di uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già risposto alle sue domande ed altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva che non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino. Buscetta riferì alla Commissione antimafia quanto sopra. Falcone non era un magistrato che rilasciasse facilmente interviste a destra e a manca. Prima d’arrivare alla «zona grigia» di cui conosceva benissimo l’esistenza saltò in aria
sulla bomba di Capaci.