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 2012  agosto 22 Mercoledì calendario

PRIMO ARTICOLO DI MARIA PIA VELADIANO (14-8-2012)

E POI bisogna anche parlare dei voti. Perché se i test non hanno vita felice qui da noi in Italia, e il perché lo ha raccontato per bene Stefano Bartezzaghi domenica, poi però tutti i test, proprio tutti, diventano numeri che danno idoneità, promozioni, accessi all’università o a selezioni. Sì e no ai nostri progetti di vita. Un test è un bivio: di qua o di là.
Per questo non può essere sbagliato, sciatto, ambiguo. E anche quando è perfetto, è solo un puntino nello scorrere dei giorni e delle esperienze di una persona. Niente di più.
Dovrebbe.
Soprattutto a scuola, dove i test dilagano, importati all’ingrosso dal mito dell’oggettività del valutare. E diventano voto.
E allora parliamo del voto. E quindi della valutazione, della scuola che vogliamo, del mondo in cui viviamo. Tutto si tiene quando si parla di scuola e di ragazzi.
Dopo decenni ormai di letteratura sulla valutazione, il voto incendia sempre ancora le discussioni più scomposte. È così sovraccarico d’altro che quando è negativo per legge sparisce dai tabelloni finali, quasi che l’insufficienza a scuola sia stigma di insufficienza personale e umana di fronte all’universo mondo. E a volte, lo sappiamo, capita qualcosa che non può nemmeno essere nominato. Eppure i giornali devono scriverne. C’è chi, giovanissimo, prende un brutto, bruttissimo (troppo brutto?) voto a scuola e poi ci lascia. Lascia la sua vita.
Sotto quale cielo può capitare questo? Se la vita è altrove – sta scritto nei diari di scuola pieni di tutto: foto, ritagli, lettere, poesie, canzoni, fiocchi di regali, che sporgono colorati, di tutto tranne cose di scuola – allora perché il
voto cattivo può per un momento magari, solo un momento, diventare il mondo che si rovescia addosso?
Dei ragazzi spesso non sappiamo nulla. Ostentano quel che non sono per nascondere meglio quel che vorrebbero essere. Dopo la tragedia si dice: ma come si fa? La scuola non può farsi carico di tutto.
Ed è così.
Ma valutare è uno dei suoi compiti, serve a capire se il passo di chi insegna è giusto, se chi apprende lo sta facendo, a certificare al mondo che un percorso è compiuto davvero, che ci si può fidare, che quel diploma racconta ciò che i ragazzi sanno e sanno fare e che anche grazie a questo sapranno diventare quel che desiderano.
A scuola la valutazione incrocia tutto intero il tempo in cui i ragazzi esplorano ancora intatte tutte le loro possibilità, cercano conferme del loro valore, hanno paura di non trovarle. È la formazione del sé. Un momento benedetto. In cui ci vuole tempo, spazio per l’errore, e per rimediare all’errore. La valutazione degli apprendimenti, e oggi delle competenze, accompagna questo periodo e pur in una cornice che deve essere definita, chiara, rigorosa e comune, la scuola deve sempre sapere che la vita sorprende, che tutto può accadere, nel bene e nel male. Il voto è solo lo strumento che ci siamo dati per comunicare fra professori, ragazzi, famiglie, mondo. Non è nemmeno così necessario, almeno all’inizio.
La scuola trentina prevede che nei primi quattro anni delle elementari i bambini siano valutati per
aree di apprendimento.
Non ci sono voti per le singole discipline. A dire che il processo che porta un bambino ad avere gli
strumenti per valorizzare le proprie attitudini è meravigliosamente unitario. E non ci sono i voti fino alla terza media. Ci sono giudizi. Articolati ma non bizantini, poche voci che dicono come e cosa è accaduto. Vien così meno la tentazione di quella contabilità lineare della valutazione che i ragazzi delle superiori consegnano a volte all’ultima pagina (il valore simbolico degli spazi!) dei loro diari: cinque più, sei e mezzo, quattro, sei = 5,44. Sarà sufficiente o no? Versione artigianale di certi fogli di excel che invece capita siano i professori a compilare. Ma lo sappiamo che questo non è valutare.
Nella
didattica modulare
se la verifica mostra che i contenuti del modulo sono stati fatti propri, il voto va a sostituire quello eventualmente negativo nella verifica precedente. Il modulo è appreso. Il brutto voto è rimediato. La recente riflessione sulla
valutazione autentica
chiede verifiche che mettono in gioco la scuola e la vita, e portano lo studente a misurarsi con
quesiti di realtà.
Lo sappiamo ormai che la valutazione è un processo di osservazione, interazione, che chiede tempo e trasparenza e tanta tanta fiducia. Reciproca. Lo studente che si fida, perché ha visto già molte volte che tutto è equo e chiaro: richieste, criteri, modalità di recupero. L’insegnante che si fida dello studente, gli dà credito: di poter migliorare, poco a poco, perché la fiducia dell’altro attiva la fiducia in se stessi. Ai ragazzi la scuola importa, eccome. Nelle aule costruiscono la rete di fiducia in se stessi e negli altri che permetterà loro di resistere anche alle sconfitte.
Certo, poi alla fine c’è un voto. Una sintesi, un punto in cui si concentra tutto il processo. E allora, alla fine, si può parlare del voto. Al riparo dalla carica emotiva perché il voto è
anche
potere: quanta letteratura e quanta esperienza ce lo hanno raccontato? Al riparo dalla carica ideologica perché la scuola è oggi luogo di battaglia politica
e nella furia del dibattere si vorrebbe far credere che i voti bassi aiutino la qualità e il merito.
Non è così. Il Trentino registra l’eccellenza nei test Invalsi e nelle indagini internazionali Ocse-Pisa. Eppure il Regolamento di valutazione della scuola trentina non permette voti sotto il 4 nelle pagelle delle superiori. Dietro c’è una riflessione pedagogica precisa: allo studente si dà un messaggio chiaro, sufficiente a bocciarlo se serve, niente di più.
E infatti poi il Regolamento impedisce quella finzione iniqua che è data dai sei
necessari
a essere ammessi all’esame di stato come invece capita nel resto dell’Italia. I 4 restano e fanno media vera. Trasparenza, anche qui.
Perché la valutazione ha assoluto bisogno di avvenire in un contesto di giustizia. E allora i voti minuscoli, tredue- uno (
zero meno,
in una fulminante battuta dei
Peanuts)
non sono necessari, non fanno bene e possono invece fare male. Inutile lasciarli visto
che l’autonomia delle scuole permette altre strade condivise.
Questa è la scuola. Poi c’è il mondo. Se noi consegniamo ai ragazzi un mondo in cui la violenza delle parole, dei rapporti, dell’ingiustizia sociale è normale, accettata e inevitabile, in cui nei film, nei libri, nella realtà la violenza fisica è una strada possibile, quasi ordinaria di risposta all’offesa vera o presunta, o solo equivocata, allora certo un ragazzo può pensare che anche la frustrazione di un voto negativo può essere risolta con la violenza. Contro di sé. Anche il mondo c’entra, eccome.
E così certamente no, la vita dei ragazzi non è mai altrove.



RISPOSTA DI LODOVICO GUERRINI (22 AGOSTO 2012)
Gentile Veladiano, sono un tuo collegaetiscrivoapropositodell’articolo del 14 agosto “Cari prof, non date mai meno di 4 agli studenti”. Ho sempre ritenuto opportuno usare tutta la gamma dei voti (escluso per la verità l’1 ed assegnando con molta parsimonia il 10) e non ho mai avuto casi di autolesionismo; e molto raramente casi di ritiro da scuola. Il problema, secondo me, non sta nel voto numerico, che resta, nella totalità della sua gamma, il mezzo più diretto, economico, semplice e trasparente per graduare i risultati dell’apprendimento; i giudizi rischianodiessereintrisidi“didattichese” e di eufemistiche ipocrisie, come spesso è avvenuto in questi anni nella scuoladell’obbligo;siaccusanosempre i voti troppo bassi di creare disagio psicologico, ma non si dice mai che certi entusiastici giudizi ammanniti con larghezza ed opportunismo nella scuola dell’obbligo, anche nella tanto esaltata scuola elementare, hanno talora creato sensi di onnipotenza altrettanto pericolosi ed incapacità di rapportarsi alle
difficoltà della vita. Ricordo che qualche anno fa un mio conoscente lamentava il fatto che la propria figlia di 9 anni commetteva errori di ortografia ma che i suoi elaborati venivano valutati con il giudizio di “eccezionale” o “eccezionale ++” (
sic.);
per cui quando raccomandava alla bambina di stare più attenta agli errori, lei rispondeva: «Ma non sono “eccezionale”?». Non si tratta di abolire il voto numerico o eliminare quelli meno graditi, ma di ricondurre il voto alla sua giusta dimensione: ovvero la misurazione singola di una singola prova, che fa parte di un percorso di apprendimento- formazione, il cui andamento complessivo, con tutti i suoi margini di progresso, se saputi cogliere, determinerà la vera e propria valutazione. Sarebbe opportuna proprio una distinzione terminologica fra i due momenti, per togliere drammaticità, mantenendo l’oggettività, alla “misurazione” della verifica. Ovviamente, il voto numerico negativo dovrà essere sempre accompagnato da una spiegazione di ciò che si è sbagliato a livello disciplinare o
metodologico e del percorso da svolgere per progredire, e dall’uso “saggio ed esperto dell’incoraggiamento” (splendida espressione di R. Dreikurs); sarà poi cura del docente cogliere tutti i successivi spunti positivi, per rafforzare l’autostima dell’alunno: io mi servo ad es. dei famigerati voti spezzettati (ad 7-, invece di 6,5; 5-invece di 4,5): ho visto molti esultare per un 6-- dopo una serie di voti insufficienti, perché fa loro capire che, sebbene non tutto sia risolto, il risultato è a portata di mano. Occorrerebbe poi un’analoga educazione riguardo alla natura del voto anche nei confronti dei genitori, i quali lo considerano sempre più spesso un trofeo da esibire o una vergogna da nascondere o un’offesa personale. Molte delle tragiche vicende cui facevi riferimento nel tuo articolo nascono, più che dagli errori della scuola, da una pressione familiare derivata da questa perversa e deformata visione del voto.
Lodovico Guerrini —
Liceo Classico Piccolomini, Siena