Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 04/08/2012, 4 agosto 2012
«UN GRANDE PESCE E IL GIOCO DELLE PORTE: LA BELLEZZA E’ COLORE»
Sette casette con sette cucine e sette focolari, una attaccata all’ altra e sormontate dai fienili, in un unico edificio lungo 55 metri e largo cinque. Cleto Munari, che una decina di anni fa vi ha ricavato la sua abitazione, lo chiama il Bigolo, perché assomiglia a uno spaghettone, di quelli grossi e ruvidi usati nella cucina veneta. Un’ abitazione nata per caso, perché l’ intenzione di Munari, designer come il suo omonimo Bruno (ma senza parentele) in realtà era di vivere in villa. Vicino al cancello, sul muro di cinta che circonda la proprietà incastonata nella campagna alle porte di Vicenza, la vecchia targa in marmo annuncia infatti: «Villa Anguissola». Il palazzo, su due piani più le soffitte, esiste: maestoso nel giardino davanti al Bigolo, con a fianco il pozzo scolpito e la barchessa porticata con magnifiche arcate a tutto sesto. Intorno, l’ antico muro che sorregge un filare di rose sarmentose e, in lontananza, la corona verde dei Colli Berici dove si fronteggiano i castelli Montecchi e Capuleti, quelli di Romeo e Giulietta. La villa, che risale al Cinquecento, è interamente in rovina, con i piccioni che vanno e vengono dalle orbite vuote delle finestre, e i portali in pietra che cominciano a spezzarsi. «Crollerà completamente nel giro di cinque o sei anni», prevede, amaro, Munari. L’ aveva comprata nel 1994 con l’ intento di restaurarla. «Ma il progetto mi fu bocciato per ben cinque volte dalla Soprintendenza», racconta. Nonostante che l’ avesse affidato a uno dei più prestigiosi architetti contemporanei, l’ austriaco Hans Hollein premio Pritzker nel 1985 e direttore della Biennale veneziana nel 1996. «Alla fine ho ripiegato sul Bigolo, dove in origine avevo progettato di affidare ognuna delle sette casette a un architetto diverso, per creare abitazioni destinate ad ospitare gratis studiosi da tutto il mondo, in una specie di cenacolo-laboratorio, aperto anche agli studenti della facoltà di architettura». Così Munari ha restaurato le residenze dei contadini, lasciando la struttura originale e ricavando una sala da ogni casetta. Nella parte centrale, dove si susseguono i due salotti e la stanza da pranzo, ha sfondato il soffitto che sorreggeva il fienile sostituendolo con un ballatoio. In questo modo ha potuto incastonare nella parete altissima il grande pesce-mosaico disegnato dal suo amico Alessandro Mendini. L’ intera abitazione, resa più luminosa dalla mano di bianco passata sulle vecchie travi in legno e dai pavimenti in marmo chiaro, è diventata uno scrigno degli affetti e delle memorie, oltre che una vetrina degli oggetti creati dal padrone di casa. Tavoli e credenze, bicchieri e vasi, argenti e poltrone sono sparpagliati in ogni stanza e portano una nota di colore in piacevole contrasto con i tappeti persiani, i mobili del Settecento napoletano e i quadri di Michelangelo Fracanzano, che la moglie Valentina, di origine partenopea, ha ereditato dalla famiglia. Si mangia intorno al tavolo disegnato da Carlo Scarpa, che ha avviato Munari alla professione di designer. «Fino ai quarant’ anni non ho fatto altro che passeggiare a cavallo, correre dietro alle donne, giocare a tennis, a carte, a biliardo», racconta. «Avevo una piccola rendita e vivevo con quella. Mia madre si vergognava di rispondere, quando le chiedevano che lavoro facessi. Nel 1970 ho conosciuto Giò Ponti e sono rimasto affascinato dal mondo dell’ architettura. Nel 1972 si è trasferito a Vicenza Carlo Scarpa e per sei anni mi sono insediato a casa sua. Lo guardavo lavorare, lo accompagnavo sui cantieri. E pian piano ho cominciato anch’ io a disegnare. Lui mi incoraggiò: "Ti te gà el sens de la proporsiòn, che nel design xè tuto". Poi sono diventato amico di Paolo Portoghesi e Costantino Dardi, di Ettore Sottsass e Marco Zanuso e attraverso di loro dei più grandi architetti e designer contemporanei. Loro disegnavano, io facevo l’ editore, nel senso che facevo realizzare le loro opere». La confidenza con i maestri di tutto il modo è testimoniata dai settanta bicchieri in vetro di Murano, bene in mostra in una vetrina sul ballatoio, che Munari ha commissionato ad altrettanti personaggi: da Kisho Kurokawa a Richard Meier, da Amyas Wade a Flavio Albanese, da Oscar Kogoy a Matteo Thun. E dalle porte che collegano l’ infilata di stanze del Bigolo, decorate da Mendini, Sottsass, Milton Glaser, Mimmo Paladino, Giancarlo Campigli, Dan Reisinger. Colori splendenti protetti da uno strato di resina trasparente. Ogni anta dipinta da due artisti diversi. «Le ho fatte viaggiare in aereo da uno studio all’ altro, da Milano a New York, da Roma a Tel Aviv». Del maestro Carlo Scarpa conserva un ritratto eseguito da Andy Warhol. Ma la stanza più divertente è la cucina, progettata da Munari nelle tinte allegre di Mondrian: turchese per il mobile-frigo, rosso per i fornelli, giallo per la dispensa. Sopra ogni mobile, una lampada dello stesso colore, ritagliata in un foglio di lamiera umanizzato. Gli occhi sono sempre accesi. «Sono i guardiani della notte. Quando mi alzo al buio in cerca di un bicchiere d’ acqua, sento che mi guardano e mi proteggono, come guerrieri rinascimentali».
Lauretta Colonnelli