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 2012  agosto 20 Lunedì calendario

ISOLE CONTESE, È GUERRA DI SBARCHI

Fine settimana di violenta protesta anti-giapponese in Cina, dopo che alcuni attivisti giapponesi hanno fatto sbarco alle isole contese fra Tokyo e Pechino, chiamate Senkaku dagli uni e Diaoyutai dagli altri. Dieci attivisti giapponesi sono sbarcati senza autorizzazione su una delle piccole isole all’alba di domenica, dispiegando bandiere giapponesi e infiammando ulteriormente gli animi in Cina, dopo che la scorsa settimana 14 manifestanti cinesi si erano recati all’arcipelago, sventolando alcune bandiere cinesi e taiwanesi. Fra gli attivisti che hanno scortato i dimostranti giapponesi verso le isole, anche otto parlamentari, che non sono però sbarcati, e che verso le 10 di mattina hanno ripreso il mare.

I 14 cinesi invece erano stati arrestati dalla guardia costiera giapponese, dato che l’amministrazione attuale delle isole è in mano di Tokyo, con la tacita approvazione di Pechino. In quest’occasione, fra l’altro, Pechino aveva dovuto cercare di presentare l’azione «eroica» dei 14 senza però mostrare le fotografie della bandiera della rivale Taiwan, ritrovandosi al centro di un caso di photoshopping delle immagini che non ha mancato di suscitare l’ilarità di Internet. Taiwan, al pari della Cina, reclama la sovranità sulle isole Diaoyutai/Senkaku, in una delle poche questioni internazionali che vedono Taipei e Pechino unite.

I 14 cinesi, arrestati mercoledì scorso, sono stati poi deportati verso Hong Kong, Macao e la Cina venerdì. Sabato e domenica almeno 12 città cinesi sono scese in piazza per chiedere un boicottaggio dei prodotti giapponesi, e per incoraggiare il governo a prendere misure diplomatiche più decise contro il Giappone: si tratta di manifestazioni che hanno l’approvazione delle autorità stesse, pronte a bloccare ogni mobilitazione di protesta considerata scomoda. Pechino infatti non esita a mettere in azione un ampio dispiegamento di forze ogni qualvolta un unico argomento – dalla richiesta di democratizzazione alle proteste contro la corruzione – rischia di creare un movimento su scala nazionale.

Nel caso delle isole contese, però, le autorità centrali reputano opportuno provare al Giappone la forza dei sentimenti nazionalisti cinesi, consentendo alcune manifestazioni: di nuovo però emergono decise discrepanze fra quanto riportato dal web e dai media ufficiali. Secondo le fotografie pubblicate dagli utenti in molti siti di micro-blogging simili a Twitter, infatti, le manifestazioni hanno visto una massiccia partecipazione, mentre la televisione ha riportato «poche centinaia». A Shenzhen e in altre città cinesi sono state anche vandalizzate auto di marca giapponese (prodotte in Cina) e catene di ristoranti che servono sushi, mentre alcuni negozi di elettronica hanno appeso dei cartelli alla porta proclamando di non vendere più prodotti giapponesi. Stando a testimoni oculari, nessuna azione è stata presa dalle forze dell’ordine per limitare le manifestazioni, e gli organi di propaganda non hanno cercato di limitare la crescente furia anti-giapponese.

Sia Tokyo che Pechino stanno però attraversando delicate fase politiche: in Giappone, il primo ministro Yoshihiro Noda, la cui popolarità è ai minimi storici sta cercando il momento migliore per indire nuove elezioni senza consegnare il Paese all’opposizione. In Cina, invece, il Partito Comunista prepara la successione decennale ai massimi vertici del potere, con la selezione, prevista per il prossimo ottobre in occasione del Plenum di Partito, dei nove membri del Politburo. Fra generali cinesi che lanciano appelli alla guerra sacra per difendere il territorio nazionale, e parlamentari giapponesi di destra decisi a non farsi dimenticare in vista delle elezioni, la tensione ha raggiunto livelli di guardia. La domanda popolare, sia giapponese che cinese, di mostrarsi «forti» con il vicino asiatico non rientrava nei piani di nessuno dei due Paesi.