Mattia Feltri, la Stampa 20/8/2012, 20 agosto 2012
DC, SOGNO IMPOSSIBILE COSÌ LA RINASCITA È FALLITA
Roma
A un certo punto venne il dubbio che il Grande Centro - poiché è un luogo della geografia politica che al termine della Prima repubblica fu raso al suolo e cosparso di sale - fosse come la bella di Torriglia, che tutti la vogliono e nessuno la piglia: abitato qui e là, perifericamente, da partitini di antico orgoglio appoggiati a destra o a sinistra, se non altro per restar su. Eppure il desiderio di ricomporre la diaspora democristiana, e ridare forma al partitone, è paradossalmente affiorato nello stesso momento in cui nacque il bipolarismo, che per il centro è napalm. Un partita persa già negli spogliatoi. Ma è sempre bastato niente perché gli aspiranti rifondatori cominciassero a sognare: Silvio Berlusconi governava da pochi mesi in coalizione con Pier Ferdinando Casini e Rocco Buttiglione, col Ppi di Mino Martinazzoli a sinistra, e fu sufficiente che Karol Wojtyla da Loreto incitasse i cattolici all’impegno pubblico perché proprio Buttiglione coniasse la frase più pronunciata degli ultimi diciotto anni: «Un’alleanza politica dei cattolici può portare solo benefici all’unità del paese».
Anche Roberto Formigoni s’ingolosì: «Un paese non si governa dagli estremi, e quindi emerge la ricerca di uno spazio centrale di governabilità». Ma il punto è che da lì in poi, e anno dopo anno, il Grande Centro, la Nuova Dc o la Cosa Bianca sono state prefigurate, osteggiate, annunciate, sputazzate in un inestricabile groviglio di opinioni multicolor. Per dire, e senza l’intenzione di appendere nessuno a una vecchia dichiarazione, in quel 1994 Casini chiuse il discorso in quattro secondi: «Il bipolarismo è irreversibile, la Dc è morta e sepolta». Lui, che andando da solo alle elezioni del 2008 compì il primo vero passo in quella terra rasa al suolo e cosparsa di sale. E però - che meraviglia - a dare udienza a Buttiglione c’era il papà della riforma uninominale, Mario Segni, che ipotizzò «un grande centro, liberale e democratico» con cattolici, laici e riformisti, probabilmente persuaso, come tanti, che Berlusconi avesse le settimane contate. Ma non è mica finita lì. Nel 1997, al solito ritorno di progetto, Antonio Di Pietro scrisse una rubrica su Oggi che letta ora fa uscire gli occhi dalle orbite: «Mi offro come garzone del nuovo Grande Centro». Gli amici di ieri sono i nemici di oggi, e viceversa, in un frasario che ha dello psichedelico. Ecco una Emma Marcegaglia, 1998: «Ci fa molta paura questa nostalgia di proporzionale e di Grande Centro che rischiano di far fare un passo indietro al Paese». Ed ecco un Gianfranco Fini da ovazione, 2004: «Sento strani ragionamenti su un grande centro italiano con forze politiche del centrodestra e del centrosinistra: questo è il modo peggiore per presentare un progetto politico, poiché se nasce deve essere alternativo alle sinistre come avviene in Europa».
Un dibattito fra l’ambizioso e lo sclerotico di cui è impossibile prendere capo e coda e ricostruire un filo logico. Seguire le tracce soltanto della spartizione del simbolo, del nome, della sede della Dc, con le liti di ringhiera di leader ignoti come Giuseppe Pizza e Angelo Sandri, ognuno dei quali sosteneva di essere il legittimo erede del ben di Dio, impegnerebbe qualche volume. E senz’altro il tentativo più nobile, diciamo così, fu quello messo in piedi da Sergio D’Antoni (ex Cisl, oggi nel Pd) e Giulio Andreotti con Democrazia europea che si presentò alle politiche del 2001 con l’obiettivo di dare forza a un grande centro alternativo sia alla destra che alla sinistra: ma non raccattò un solo deputato e fece due senatori giusto col recupero proporzionale. Per il resto è stata chiacchiera, fumisteria che ha coinvolto chiunque, Bruno Tabacci, Clemente Mastella, Lamberto Dini, Paolo Cirino Pomicino, Gianfranco Rotondi, Giorgio Fanfani, Francesco Cossiga, Marco Follini, Giuseppe Fioroni, e decine di altri, uno armigero di un grande centro che guarda a destra, l’altro di un grande centro che guarda a sinistra, il terzo di un grande centro che guarda al centro, chi dell’una o dall’altra cosa o di quell’altra ancora: dipende dall’annata del dibattito.
Perché stavolta dovrebbe essere quella buona? In un’intervista pubblicata dalla Stampa nell’agosto del 2005 si legge: «Ho la convinzione, spero sbagliata, che né con un centrodestra come quello che abbiamo visto all’opera, né con un centrosinistra come quello che possiamo immaginare all’opera, l’Italia possa fare passi decisivi». Dunque forse avrebbe più credibilità «un Centro, se esistesse». Era l’uomo che oggi sta seppellendo il bipolarismo: Mario Monti.