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 2012  agosto 20 Lunedì calendario

USA, LA FRENATA CHE I MERCATI NON VEDONO

Secondo previsioni largamente condivise, quest’agosto avrebbe dovuto essere un mese di fuoco sui mercati finanziari. L’euro avrebbe dovuto subire l’attacco speculativo «finale» e semplicemente sparire dalla scena in uno scenario di forte disorientamento e di grande paura. Privi dell’aiuto del fondo salva-stati la cui gestazione appare particolarmente laboriosa, i titoli del debito pubblico dei Paesi europei, a cominciare da Spagna e Italia, si sarebbero trovati ad affrontare uno «spread» sempre più alto, fino a diventare insostenibile. In tutto il mondo i listini sarebbero stati caratterizzati da forti oscillazioni con una marcata tendenza al ribasso. Finora è, invece, successo l’esatto contrario.

Non c’è stato alcun crollo della moneta europea, il cui cambio è anzi rimbalzato da 1,20 a 1,23 dollari mentre il dollaro si è indebolito non solo verso l’euro ma anche verso le altre valute; gli «spread» sono diminuiti in maniera sensibile, smentendo, almeno temporaneamente, i profeti di sventura; con l’inizio di agosto le Borse hanno smesso di avere le convulsioni che ne avevano caratterizzato l’andamento nei 2-3 mesi precedenti, con sbalzi all’insù e all’ingiù di vari punti percentuali al giorno.

Così da mettere a segno un vistoso recupero con guadagni che, in Italia, si collocano attorno al 15 per cento da fine luglio. Naturalmente nelle prossime settimane potrà succedere di tutto e queste tendenze stabilizzatrici potranno essere cancellate. Occorre però dare atto che, se nelle città si respira a fatica per l’afa, nelle Borse si respira decisamente meglio di un paio di mesi fa.

Quali possono essere le ragioni di un simile cambiamento positivo che smentisce le previsioni di breve termine dei mercati finanziari? La domanda è tanto più opportuna in quanto i miglioramenti sul fronte finanziario si accompagnano a un ulteriore peggioramento, a livello dell’insieme dei Paesi ricchi, del quadro dell’economia reale. In Europa, il prodotto lordo del secondo trimestre ha fatto registrare un segno meno; se nel terzo trimestre il segno non si invertirà – e per ora non se ne vede alcuna premessa - l’economia europea entrerà ufficialmente in recessione. La Germania, unico grande Paese a poter ancora vantare un segno positivo, vedrà comunque avvicinarsi rapidamente la prospettiva di un arresto della crescita.

Anche negli Stati Uniti, con l’approssimarsi delle elezioni politiche la si fa crescita sempre più lenta. Il prodotto interno è salito del 2 per cento nel primo trimestre e solo dell’1,5 per cento nel secondo, un tasso all’incirca pari all’aumento della popolazione, il che significa che, a livello dei singoli cittadini, la crescita è sostanzialmente nulla; la disoccupazione non scende; le costruzioni di nuove abitazioni – uno dei termometri più sensibili dell’economia – sono diminuite smentendo le generali previsioni di un aumento. Il solo Giappone, un tempo pecora nera, prevede per il 2013 un tasso di crescita soddisfacente. Nel confronto tra le due debolezze parallele del dollaro e dell’euro l’attenzione si sta, sia pure lentamente, spostando dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico. Gli andamenti favorevoli dell’euro e delle Borse non sono il risultato della forza economica europea (che non esiste proprio in questo momento) ma della stanchezza dell’economica americana, una stanchezza troppo a lungo trascurata dai mercati. Gli Stati Uniti mostrano segni strutturali di scarsa elasticità impensabili prima della crisi, dell’insufficiente credito concesso alle piccole e medie imprese – che normalmente trainano le riprese americane – alla ridotta mobilità dei giovani che rende loro più difficile la ricerca di un lavoro. In questa situazione a rafforzare il quadro europeo hanno contribuito alcuni gesti concilianti del cancelliere tedesco Angela Merkel che ha dichiarato che esiste «identità di vedute» tra Germania e Banca Centrale Europea, in netto contrasto con le posizioni dei «falchi» anti-euro.

Mentre i toni delle polemiche sull’euro si abbassano, quelli della campagna elettorale americana si accendono. Facendo proprie le tesi più estreme della destra americana, il candidato repubblicano alla presidenza, Mitt Romney, e il suo candidato alla vicepresidenza, Paul Ryan vogliono realizzare una riduzione generalizzata di imposte che, se darebbe apparentemente respiro all’economia, trasformerebbe in realtà la prospettiva di un «baratro fiscale» nel quale l’economia e la finanza americana potrebbero cadere immediatamente dopo l’insediamento del nuovo Presidente alla Casa Bianca. Le prospettive non sono certo rese più rosee dall’assottigliarsi dell’attivo commerciale cinese che fa sì che la Cina avrà meno dollari da investire nei titoli del debito pubblico americano.

L’insistenza sui mali europei, insomma, sembra essere stato il risultato di una «distorsione», una «montatura» dei media che ha lasciato in ombra i mali americani, forse più gravi di quelli europei; chi ha fantasia può anche immaginare che tale trascuratezza dei media non sia casuale bensì il risultato di un complotto (fallito) contro l’euro. Vittime di questa distorsione, o di questo complotto, i mercati si sono baloccati per mesi con una crisi dell’euro alla quale è stato dato un risalto esagerato, e hanno tralasciato la vera crisi, quella del dollaro che fa sempre più fatica a essere accettato dai mercati e dell’economia americana che riesce a galleggiare ma non a far da motore della ripresa mondiale.