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 2012  agosto 20 Lunedì calendario

PASSIONI

[Paola Pitagora: “i tormenti privati della fidanzata d’italia”] –
LECCE - «Chi lo dice che l’amore sia un sentimento indispensabile? Se ne farebbe volentieri a meno. È anche una guerra, non è né buono né onesto, soprattutto non contribuisce alla felicità in maniera affidabile». Paola Pitagora ripone nella borsa l’agendina dove si era appuntata l’epitaffio amoroso scritto da Alice Munro. «Non è forse così?», aggiunge spavalda. Lo sguardo è diretto, una bellezza luminosa incredibilmente integra —
Tuttadoro
la chiamava Giancarlo Fusco — unico vezzo la stola di voile distrattamente gettata su braccia ancora
forti.
L’amore l’ha molto vissuto e interpretato, da fidanzata d’Italia nella manzoniana Lucia di Sandro Bolchi alle più recenti fiction di successo. L’ha anche raccontato in
Fiato d’artista,
un prezioso libro di memorie che evoca il dirompente talento nei primi anni Sessanta di amici eccentrici come Schifano, Pascali, Festa, Kounellis — e la sua turbinosa passione con Mambor, il più ’maledetto’ tra loro. E poi tanta letteratura, tanto teatro di parola, e anche cinema d’autore, scelta da Bellocchio per l’inquieta Giulia di
Pugni in tasca.
Ora si riposa in un rudere ristrutturato nel Salento, dove confessa di aver guadagnato popolarità grazie al suo personaggio di nonna contadina nella saga televisiva de
Le tre le rose di Eva.
È molto single — singlissima dice lei — con una figlia trentenne che fa l’attrice.
Amore e arte non sempre coincidono. Lei era la fidanzata d’Italia quando interpretava Lucia nello sceneggiato di Bolchi e intanto la sua storia con Mambor andava a rotoli.
«Sì, molto amata dal pubblico e molto tradita nel privato. Il successo dei
Promessi Sposi
mi spingeva verso un epilogo tradizionale come il matrimonio, e invece la storia con Renato stava finendo. Tirammo avanti ancora un paio d’anni e poi ci lasciammo».
In Tv l’icona della composta femminilità, nella vita invece...
«... lacrime e sangue, materassi che volavano giù dalle scale. Oggi con Renato ci scherziamo sopra, ma all’epoca... Feci una cosa che nella vita avrei imparato a non ripetere più».
Cosa?
«Io giravo con Bolchi a Milano e Renato da Roma mi mandava segnali inquietanti. Così gli piombai a casa senza preavviso. È un errore gravissimo, ma queste semplici regole si apprendono col tempo. Ebbene, lo trovai con la sua bella. I momenti tragici possono essere comici, e anche quello lo fu. Staccai i miei due ritratti appesi alla parete, li calpestai e poi fiondai lenzuola, cuscino e materasso nella tromba delle scale».
Passionale.
«Uhh, quanto l’ho pagata. Ho sempre preso le cose di petto, sbattimento di porte, valigie, e infatti sono scappati tutti... ».
Cosa l’ha spinta poi a fare di una storia privata un diario in pubblico?
«Lo straordinario contesto, quegli amici di Piazza del Popolo con cui la sera si litigava e oggi sono nei musei di tutto il mondo. Naturalmente ho chiesto il permesso a Renato e a quella splendida donna che è la sua compagna».
Colpisce anche l’intimità del suo racconto, quando scrive dell’ultimo atto amoroso.
«Sì, c’è sempre un’ultima volta in cui si fa l’amore. I corpi consapevoli si toccano, ma qualcosa in loro avverte che è diverso. Basta un niente, un’esitazione, e il corpo amato si appresta a diventare un corpo estraneo».
Lei cita Pratolini, l’amore come disperazione e come paura della perdita. Ne è sempre convinta?
«Credo che ogni felicità estrema si declini con il terrore della rinuncia. Quando ti nasce un bambino, ti stupisci che sia vivo. Quando vivi un amore felice, convivi con il fantasma della perdita. Ed è qui che s’ingenera l’attaccamento, la dipendenza, che è poi l’aspetto malato».
In che senso?
«L’attaccamento è una grande fregatura. Lo fa capire bene
Honour,
un testo teatrale di Joanna Murray
Smith, che riprenderò in ottobre a Milano. È la storia di una poetessa di valore che però rinuncia alla sua originale vocazione per farsi moglie perfetta. Arrivata alla boa dei sessant’anni viene abbandonata dal marito, uno scrittore molto influente che s’innamora di una giornalista più giovane. E la povera Honour — così si chiama la moglie — si rimbocca le maniche recuperando la sua energia talentuosa
».
Finisce bene.
«È una storia scritta da una donna che ha introiettato il femminismo: non a caso l’autrice è un’australiana sui 45 anni. E fa dire all’intelligente giornalista, causa del tradimento: lei, Honour, ha commesso l’errore di abbandonare il suo talento per mettersi a cucinare le costolet-
te d’agnello, ma oggi gli uomini vogliono donne che chiedano per sé. Un messaggio prezioso: bisogna conservare sempre il proprio orticello da coltivare».
Lei quando l’ha imparato?
«Tardi. Appartengo a una generazione di donne che sono passate attraverso il sacrificio per il proprio compagno: senza di te mi è impossibile vivere. Poi negli anni Novanta lessi il libro della psicoterapeuta Robin Norwood che s’intitolava
Donne che amano troppo.
La dipendenza dall’amato era equiparata a quella dall’alcol. Cominciai a lavorare su me stessa, comprendendo quanto c’era di sbagliato in questo mio affidarmi totalmente a qualcun altro’.
In che modo ne uscì?
«Ero disperata perché stava finendo una storia d’amore importante. Feci sette anni di analisi e forse è anche per questo che le ho citato Alice Munro sulla non indispensabilità dell’amore».
La letteratura può aiutare?
«La poesia, soprattutto. Piccole lucciole che si accendono mentre cammini al buio. La disperazione per amore può portarti alla totale cecità».
Chi l’ha guidata?
«Un senso l’ho trovato nei versi di Gibran: Quando l’amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese. E quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume vi può ferire...’.
Ma non abbiamo detto...
«No, un momento, mi faccia concludere: Ma se per paura cercherete nell’amore unicamente la pace e il piacere, allora meglio sarà per voi coprire la vostra nudità e uscire dall’aia dell’amore, nel mondo senza stagioni, dove riderete ma non tutto il vostro riso e piangerete, ma non tutte le vostre lacrime. Ecco: io non so se ho riso tutto il mio riso e ho pianto tutto il mio pianto, però certo...».
Non si è risparmiata.
Tra i registi con cui ha lavorato, chi ha saputo raccontare meglio l’amore?
«Nel cinema italiano l’amore è sempre stato visto con grande ironia, senza crederci poi tanto. Se penso a un autore che ha raccontato l’eros come nessun altro mi viene in mente la Campion di
Lezioni di piano.
O anche Sautet di
Un cuore in inverno.
L’eros non è un dettaglio fisiologico ma un crescendo musicale. Noi italiani non siamo capaci: troppo pudichi o troppo cinici. Però Bolchi nei
Promessi Sposi
ci mise del suo».
In che modo?
«Seppe cogliere tra Renzo e Lucia quei pochi attimi di desiderio che non era certo nel Manzoni. Avrei capito solo più tardi perché scelsero me nel ruolo di Lucia».
E oggi continua a scrivere lettere d’amore?
«No, quella era un’attività dei miei vent’anni. Sono sempre molto diretta, occhi negli occhi, e respiro. Dopo di che, finita una storia d’amore, ci sono persone che non vorrei più incontrare. No, non dico una cosa allegra, ma è
parte delle mie ferite».
Ma non è insensato perdere dei pezzi di vita?
«Sì, il mio desiderio sarebbe riscoprire con il distacco una fraternità affettiva, ma a parte Mambor non ci sono mai riuscita: gli uomini scappano, sono così fifoni. Ho sempre lasciato una porta socchiusa, poi però c’è una scadenza. Mi viene in mente un verso di Pascoli nel
Vischio: E tu saprai che per la vita si getta qualche cosa anche più bella della vita: la sua lieve fiorita d’ali».
Cos’è «la lieve fiorita d’ali»?
«L’amore ha il diritto di finire, ma dopo c’è quella ’lieve fiorita d’ali’, sapere che siamo anime in transito e che possiamo vedere sorridendo insieme quel che abbiamo attraversato, per poi tornare ai nostri affetti, ai nostri nuovi amori. È anche sapere dire grazie».
Cosa ha imparato Paola Pitagora dell’amore?
«Poniamo che questa domanda me la ponga un giorno il Padreterno. Non potrei mentire, e dovrei dirgli che non ho capito niente. Però in quel momento — se ho la fortuna di trovarmi davanti al Padreterno — io mi innamoro di lui. E così si ricomincia».