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 2012  agosto 20 Lunedì calendario

DUE ARTICOLI DI ADRIANO SOFRI SULLA ROMANIA

La Romania è piena di banche e di chiese, come l’Italia. Ma è soprattutto piena di farmacie e di Case de amanet, banchi dei pegni. Innumerevoli farmacie, a pochi metri l’una dall’altra: non è un buon segno. La durata media della vita è di otto anni più bassa di quella italiana. La gente non si cura e rincorre i malanni con le medicine. Le ricette valgono per tre mesi: nel mese della prescrizione e dell’acquisto si tira di più la cinghia. Molti medici e infermieri emigrano, nella sanità la corruzione è capillare. Le paghe sono irrisorie, le pensioni derisorie. L’altro ieri hanno arrestato un ginecologo perché aveva chiesto per un parto troppo più della mancia corrente, e i genitori l’hanno denunciato: eccesso di corruzione. I pazienti si presentano all’ospedale con gli infimi gruzzoletti destinati a ciascuno, accettazione, infermiere, portantino, medico, fino all’anestesista aspettato su una barella dall’operando nudo che tiene stretti i suoi
lei
nella mano, prima di addormentarsi. Come il morto antico, cui si metteva l’obolo sotto la lingua per pagare il traghettatore.
Per un mese, a gennaio scorso, in una Bucarest stretta nel gelo e altrove, ci furono manifestazioni di protesta di pensionati, lavoratori, giovani, tifoserie, e perfino la polizia si schierò dalla loro davanti al palazzo presidenziale. A far traboccare il vaso era stata la decisione governativa di privatizzare l’unico servizio efficiente, la medicina d’urgenza, opera di un popolare medico di origine palestinese, Raed Arafat, che aveva perciò dato le dimissioni.
La corruzione è universale, nella scuola, nella polizia, nel commercio, nel fisco, nei concorsi, e soprattutto nella politica, che ha tradotto le privatizzazioni, caldeggiate da Europa e Fondo Monetario senza troppi riguardi al modo di attuazione, in liquidazioni madornali delle risorse nazionali. Fra le accuse mosse al presidente della repubblica contestato, Traian Basescu, 61 anni, già capitano di marina mercantile, c’è quella di aver svenduto brevi manu, da ministro dei trasporti, la flotta del paese. La situazione istituzionale romena è un pasticcio pittoresco. Il partito socialdemocratico (il nome non inganni: è l’epigono del partito comunista), oggi guidato dal quarantenne Victor Ponta, ha ottenuto la maggioranza parlamentare grazie a un’alleanza col partito nazional-liberale, e ha usato il governo per compiere una serie di colpi di mano sugli organi giudiziari e per mettere in stato di
accusa e dichiarare decaduto Basescu, del partito democratico, ma già coinvolto anche lui, come chiunque avesse incarichi responsabili sotto Ceausescu, nelle reti della famigerata Securitate. La
destituzione di Basescu è stata oggetto, lo scorso 29 luglio, di un referendum, come già nel 2007, quando vinse largamente: da allora la sua popolarità è crollata, per la spietatezza delle misure economiche
imposte sul dettato di Fmi e Ue, per il fallimento dei proclami anticorruzione e per un atteggiamento giudicato arrogante e fazioso, incapace di favorire il dialogo fra le parti. Nel 2007 a una gior-
nalista importuna disse: «Sporca zingara». Ora, al rivale Antonescu, che perse la moglie per un cancro, ha rinfacciato di non saper prendersi cura delle donne. Cose così.
L’Unione Europea, allarmata dalla sveltezza di mano del governo Ponta, ha chiesto che il referendum avesse uno svolgimento regolare e che stabilisse un quorum del 50 più uno per cento degli aventi diritto. L’obiettivo di Ponta e del suo alleato Crin Antonescu, intanto nominato presidente al posto di Basescu, è fallito perché al voto ha partecipato il 46 per cento degli elettori. Ma se si considera che poco meno del 90 per cento hanno votato contro Basescu, e che c’è una consistente percentuale “fisiologica” di non votanti (per giunta si votava in agosto), la sconfessione di Basescu è stata drastica: non abbastanza da indurlo a lasciare. È cominciata allora da parte del governo una delegittimazione a ritroso del referendum, sulla quale la Corte Costituzionale si pronuncerà domani, 21 agosto. La disputa, che riempie implacabili programmi televisivi, ha delle sue eleganze bizantine, come osserva la professoressa Smaranda Elian, che del resto ha tradotto Giordano Bruno in romeno: «La Corte ha chiesto al governo le liste aggiornate, e il governo dice che la Corte ha chiesto di aggiornare le liste». Nel frattempo il ministro dell’Interno, che aveva proclamato l’esito del referendum, si è dimesso. Pressioni e manovre su giudici ordinari, per ogni genere di frodi elettorali, e sulla Corte suprema, hanno imperversato, in un paese in cui è difficile trovare una qualche carica che non sia di no-
mina diretta di un capofazione. È probabile che comunque la Corte convalidi la nullità del referendum, e rimetta formalmente Basescu in sella, e che Ponta e i suoi facciano buon viso alla “coabitazione”, fino alle elezioni politiche di autunno che dovrebbero confermare il loro successo, già registrato alle amministrative. I più smaliziati (direbbero i cronisti: ma qui il problema è che tutti sono smaliziati a oltranza) pensano che la questione stia nel trovare una onorevole via d’uscita, cioè un salvacondotto, a Basescu, perché se ne torni tranquillamente agli affari privati e non in carcere: problema peraltro notissimo agli italiani. Pensano che anche a questo servisse la visita a Bucarest nei giorni scorsi di Phillip Gordon, sottosegretario Usa ai rapporti con l’Europa: gli americani sono stati amici di Basescu, e sono interessati a bilanciare i legami dei suoi avversari con la Russia: a questo si riduce infatti l’alternativa fra destra e sinistra, che soprattutto in Romania è per il resto la perpetuazione di un tristo equivoco. Dietro Ponta e i suoi compagni di scalata c’è sempre Ion Iliescu, 82 anni, il marpione della “seconda fila” di Ceausescu che, se non fu il burattinaio, come in tanti ormai sostengono, della “rivoluzione” dell’89, ne fu certo il manipolatore e l’usufruttuario, così da farne una rivoluzione dimezzata e cruenta, a differenza di quelle “di velluto”, non solo della Cecoslovacchia di Havel, ma della stessa Bulgaria. E l’esecuzione di Ceausescu e moglie non fu più pulita di quella di Gheddafi. Iliescu fu poi l’uomo che mandò migliaia di minatori a pestare a sangue gli stuper
denti di Bucarest nel 1990, e che guidò nella continuità la “transizione” romena. Poveri studenti — e poveri anche i minatori, alla lunga. Che i giochi di mano del potere romeno siano pesanti lo mostra la sorte toccata all’ex premier socialdemocratico, e rivale di Basescu nel 2004, Adrian Nastase, il quale è in galera da giugno dopo una condanna a due anni per l’utilizzo illegale di fondi elettorali: accusa forse fondata, ma che ha fatto da pretesto a una ennesima prova di forza di Basescu. Al momento dell’arresto, Nastase tirò fuori una pistola per spararsi: il colpo deviato dagli agenti lo ferì alla gola. C’è che ci vede la brutalità della vendetta di Basescu, e chi si congratula che a respingere il ricorso di Nastase e mandarlo in carcere sia stata una corte coraggiosa composta di cinque donne. Farsa e tragedia si mescolano, naturalmente. Ponta, per esempio, scoperto anche lui ad aver copiato un buon terzo della sua tesi di dottorato, ha variamente reagito sciogliendo d’autorità il
Comitato responsabile della validità dei titoli di studio, o sostenendo che nel 2003, anno di redazione della tesi, l’uso delle virgolette nelle citazioni non era in vigore… (Il plagio dottorale, che da noi è restato roba da trote, era costato le dimissioni al presidente della repubblica ungherese e al rampante ministro della Fifesa in Germania). C’è probabilmente una sola figura pubblica la cui autorevolezza non è messa in discussione oggi in Romania, ed è da 22 anni il governatore della Banca Nazionale (con l’intervallo di un anno da primo ministro), Mugur Isarescu: ma anche questa è storia comune, e anche in Romania i fenicotteri del Fondo Monetario e della Commissione europea fanno avanti a indietro coi loro pallottolieri.
Non sorprende che, in un simile contesto pubblico, le opinioni dei cittadini romeni siano al tempo stesso estreme e intercambiabili. Si sentono usare con altrettanta indignazione e amarezza gli stessi argomenti per sostenere o
deplorare Basescu e Ponta (o Iliescu), e molto spesso l’uno e l’altro. Qualcuno dice che bisogna aspettare che i giovani arrivino e cambino tutto; altri, i più, dicono di averli già aspettati e che i giovani sono arrivati e non cambiano niente, e tutt’al più se ne vanno dal paese, o non vedono l’ora di andarsene. I più dicono: «Che cosa vuoi farci, noi romeni siamo fatti così, non c’è niente da fare»; è l’espressione più proverbiale. Resta quella sfilata ininterrotta di Case de amanet, banchi dei pegni. Cominciarono, pare, dopo Ceausescu, quando arrivarono i turchi a comprare l’oro, e poi si aggiunsero gli arabi e gli zingari ricchi. Ci si impegna di tutto. Sono, come le farmacie le banche e le chiese, le istituzioni solide della Romania povera: che è davvero molto povera. Certe Case de amanet inalberano la scritta: Aperte 24 ore su 24. La gente può aver bisogno di impegnare la fede alle tre di notte, per bussare alla farmacia. Però Sergiu Shlomo Stapler, 65 anni, uomo d’affari di successo, mi ha ammonito a non fraintendere: la Romania in vent’anni sarà una Svizzera, dice, ha giovani intelligenti e preparati, che hanno appena fatto la miglior figura nelle Olimpiadi di chimica a Washington, ha risorse che imparerà a sfruttare, a partire dal petrolio — che oggi è affare di austriaci e kazaki, e russi e francesi italiani e americani, mentre i romeni prendono la mancia coloniale. Stapler andò in Israele da ragazzo, e lì fece il militare per una vita, fino a diventare colonnello. «Qui mi dicevano: Ebreo! – dice – là mi dicevano: Romeno!».

*****

Le storie più notevoli le ho sentite nella Bucovina. Per esempio dal nonno, “tataje” Michaj, 81 anni, e sua moglie, “mamaje” Maria, 83. «Avevo otto anni, la mia sorellina sei. I genitori erano a lavorare nel campo. Ci avevano detto di stare attenti, ma abbiamo aperto il cancelletto del recinto e il vitellino è scappato nel giardino del vicino. Non siamo riusciti a farlo tornare, e il vicino ha ucciso il vitello. Allora siamo andati a chiamare i genitori. Mio padre è andato dal vicino: Perché hai ammazzato il vitello? Quello ha risposto che gli stava rovinando il giardino, e che non voleva ripagarlo. I genitori esasperati andarono dal pope a raccontare che cosa era successo e pagarono perché dicesse le messe e facesse maledire il vicino se non avesse riparato la sua cattiva azione. Andò avanti così, poi il vicino, che aveva paura delle maledizioni, offrì di ripagare il vitello, e mio padre accettò. Allora andò dal pope a dirglielo e che non occorreva più continuare con le preghiere. Il pope si arrabbiò perché mio padre aveva accettato senza rivolgersi a lui e disse che ormai le messe erano state pagate e che ora le maledizioni sarebbero ricadute sui miei genitori. Mio padre tornò spaventato, e pochi giorni dopo
mia madre, mentre falciava, si ferì un piede, e la ferita fece infezione e dovette andare alla città dove c’era l’ospedale, e là le dissero che dovevano amputarle la gamba. Mia madre non voleva e si fece riportare a casa e diventò pazza per la paura e per il dolore. Dovettero amputare la gamba e poi la portarono in un altro ospedale perché era diventata pazza. Il pope non volle pregare e diceva che li aveva avvertiti. Mio padre andava da lei e lavorava e chiamò una zia per stare con noi, ma poi mia madre morì in quell’ospedale e dopo pochi giorni mio padre ebbe un colpo e morì anche lui. Fu così che rimanemmo orfani quando avevamo otto e sei anni».
Lui era troppo giovane, di appena un contingente, per fare la guerra. I tedeschi, dice, erano educati, tenevano in ordine perfetto le uniformi, erano motorizzati; i russi erano selvaggi, saccheggiavano, violentavano. (Lo sentiremo ripetere dovunque, a Costanza uno userà addirittura, per definire il comportamento dei militari nazisti, l’aggettivo italiano: impeccabile). Si ricorda degli ebrei perché erano stati portati dalle città a fare i lavori forzati sulle strade, e i ragazzini gli portavano qualche frutto e altre cose da mangiare in cambio di denaro. Poi li hanno portati via, dice. Che
cosa è successo davvero sembrano non saperlo. Hanno la pensione, 100 euro lui, 60 euro lei. Il denaro serve solo per le medicine e lo zucchero: hanno il pozzo, fanno la polenta col loro mais, hanno ortaggi e mele e pere, e la mucca, il maiale, galline e conigli; non più il cavallo. Se non fosse per le medicine, non si riterrebbero poveri. Sotto Ceausescu lui è stato arrestato un paio di volte, da soldato e dopo, per aver detto qualcosa di troppo, sa bene che non c’era la libertà, e tuttavia dice che le persone stavano meglio, avevano un lavoro, la scuola era seria.
A metà agosto Ponta assegna il ministero dei rapporti col parlamento a un suo amico, Dan Sova, avvocato 39enne. In tv Sova aveva dichiarato che il dittatore fascista Ion Antonescu aveva salvato dalle persecuzioni gli ebrei romeni, e che nel pogrom di Iasi del 28-29 giugno 1941, ordinato personalmente da Antonescu, non erano stati trucidati fra i 13.300 e i 15 mila ebrei, ma solo 24. Di fronte allo scandalo, il neoministro dice che si era sbagliato, e che effettivamente fra i 250 e i 300 mila ebrei romeni erano stati sterminati (la cifra più accurata è di 350-400 mila). L’episodio rivela la sua volgarità, ma anche l’indifferenza in cui passa la storia degli ebrei. Paragonata con quella ungherese, la situazione romena è meno virulentemente segnata dall’antisemitismo, ma molto più dalla rimozione. Basta una visita alla Sinagoga
Grande di Bucarest e al Museo Ebraico, dove la buona volontà della comunità — al lumicino — ha messo modestamente insieme dati e documenti sulla Shoah; il riconoscimento pubblico si limita a un monumento cittadino inaugurato nel 2009. Alla rimozione contribuì il silenzio del regime comunista, teso a cancellare la peculiarità della persecuzione degli ebrei (e dei rom) e a fomentare l’antisionismo. I pogrom antiebraici erano raccontati come rivolte contadine. Nelle scuole romene della Shoah non si parlava, e la situazione è cambiata solo con internet.
«Chi ha mai visto un cuculo covare e uno zingaro lavorare»: Carmen Duta cita il vecchio detto. Ha sempre fatto l’insegnante, si affezionò a due fratellini rom, erano molto intelligenti, poi non ne ha saputo più niente, dice, fino a quando ha rivisto il maggiore in tv, aveva fatto la più grande rapina postale. È difficile trovare dei romeni che non ce l’abbiano coi rom, e però paragono l’insofferenza nostrana per la vicinanza di qualche zingaro, così facile a passare alle vie di fatto, alla coabitazione fra i “gaggé” e i rom in Romania. Ce la sogniamo. «I francesi di destra e di sinistra ce li rimandano indietro», ironizzano, a ragione. Dopo di che, raccontano imprese di rom arricchiti. Come la storia di Dan Finutu, morto l’altro giorno a 44 anni con la moglie a Tulcea, in un incidente con la sua Bmw. Finutu si era fatto costruire a Buzesti, nel Teleorman, una casa che riproduceva esattamente il tribunale nel quale era stato processato, e inciso il suo nome sul frontone. «Fanno il mercato nero, carne, frutta, fiori, e poi la droga, la prostituzione. Si fanno dei grandi palazzi, poi vivono tutti nella stessa camera, anche col cavallo, caso mai». In realtà, i romeni gaggé conoscono i loro compatrioti rom molto meglio di noi coi nostri, spesso amano
la loro musica, sono fieri degli “zingari di seta”, quelli educati, come il violinista Ion Voicu, o la pianista Mihaela Ursuleasa, morta pochi giorni fa. Sanno che i rom sono ricchi e soprattutto poveri. L’esibizione della ricchezza esaspera la maggioranza delle persone sempre più impoverite. La ragione prima della scandalosa nostalgia per il tempo di Ceausescu (scandalosa per l’Europa, che vi si dovrebbe specchiare) sta nel fatto che allora la ricchezza era riservata ai satrapi, e sotto c’era una società livellata: la democrazia è uno smanioso sventolio di soldi davanti al naso di chi fa la fame. Il salario medio è di 350 euro. La gente sa tutto e tutto sospetta delle fortune dei potenti: case parigine di Basescu; il famoso marmo colorato di Ruschita nelle mani del sindaco di Bucarest, Videanu; gli stadi in pendenza costruiti coi fondi Ue dall’ex ministra del turismo Elena Udrea, che mandava scarpe coi tacchi alti per tirare su il morale alle donne della Moldavia inondata; lo scialo di Mazere, il sindaco “socialista” che sfila in uniforme nazista e tiene nella bruttezza la nobile città di Costanza… E poi ci sono i tycoon della politica. Uno è Dan Diaconescu, proprietario di una tv di gran successo, Otv, scandalismo e dibattiti violenti e pagliacceschi. Ricatti, estorsioni — redditizie, conosciamo il genere. Ha fatto un partito, alle amministrative ha preso l’11
per cento. Un altro si chiama “Gigi” Becali, pastore di pecore sotto il comunismo, poi si mise a fare traffici, blue jeans, terreni comprati dai contadini poveri alla periferia nord di Bucarest poi edificati, ha comprato la Steaua di Bucarest e il palazzetto Manu-Auschnitt, coi fregi in oro sulla facciata: ha spiegato di averlo comprato senza guardarlo, solo misurando i metri quadri — restauro decoroso, ha calcato un po’ la mano sull’oro a 24 carati e sostituito icone sacre ai quadri, e piazzato un gran Gesù in giardino. Infatti è devotissimo, dà gran soldi alla chiesa, frequenta il monte Athos, salda le bollette della luce ai rom allacciati abusivamente. Anche lui ha un partito, si candidò alla presidenza, alle europee del 2007 prese il 5 per cento. Viene da sorridere, no? Poi si pensa all’Italia.
Dice Carmen: bisogna andare nei mercati per vedere gli anziani che girano col sacchetto vuoto e un bastone. Ho dato un pacco di cose a una vecchia signora, stando attenta a non offenderla. Mi sono voltata a guardarla e ho visto che le correvano le lacrime sotto gli occhiali,
era tutta rossa.