Emanuela Audisio, la Repubblica 20/8/2012, 20 agosto 2012
SAMIA, DALLE OLIMPIADI ALLA MORTE SU UN BARCONE
LO SPORT a volte salva, ma la vita più spesso condanna. Non basta correre, non serve partecipare, se vuoi un futuro o almeno provarci devi traslocare i tuoi sogni in un’altra geografia. Partire, emigrare, senza una corsia. Da clandestina, verso un traguardo che non dà medaglie. E toglie il respiro. Dall’affanno per la gara a quello per l’esistenza. La pena è troppa, smetti di giocare, niente salvezza.
Che eri e che potevi essere viene cancellato dal mare Mediterraneo. Samia Yusuf Omar, ragazza somala, ai Giochi di Pechino corse i 200 metri con fierezza. E fece anche la portabandiera. Non era Bolt e nemmeno una sua sorellina. Arrivò ultima nelle batterie in più di 32 secondi. Ma il pubblico applaudì lo stesso: perché conta da dove parti e non quando arrivi.
Samia veniva da Mogadiscio, non aveva motivi per sorridere, anche se li cercava: era la più grande di sei figli, sua madre era fruttivendola, il padre era morto ucciso da un proiettile. Quell’esperienza olimpica le era piaciuta, per una volta si era sentita normale e non Cenerentola: «È stato bellissimo, ho sfilato con i migliori atleti del mondo». Sembrava la scelta giusta, l’inizio di un riscatto, lo sport che riesce a superare ostacoli, a dare un’altra dimensione. Invece no, non stavolta. Mentre Londra applaudiva altri atleti somali come Mo Farah (naturalizzato inglese), Samia non poteva più farlo. La sua storia l’ha raccontata su
Pubblico
Igiaba Scego, scrittrice italiana di origini somale, citando anche la testimonianza di Abdi Bile, ex mezzofondista, oro nei 1500 metri ai mondiali di Roma del 1987. Samia è scomparsa a 21 anni nel Mediterraneo mentre dalla Libia su un barcone cercava di raggiungere l’Italia. Da sprinter
a boat-people. Nell’indifferenza generale di chi non sa e di chi crede che lo sport che merita è solo quello che sale sul podio. Le sfilate olimpiche illudono, sembra che tutti i paesi giochino allo stesso gioco. Non è così, la Somalia non è pacificata, prima di fare sport ci sono altre necessità, bisogni e priorità. Dove c’è o c’è stata guerra ci sono ferite e miserie, lo sport da solo non è un balsamo curativo. È troppo scivoloso per offrire salvezza, se dietro non ha un programma educativo e una solida assistenza.
Lopez Lomong, uno dei ragazzi perduti del Sudan, mezzofondista, ce l’ha fatta. Grazie alla sua forza e a una borsa di studio. Nel ’91 a 6 anni, mentre si trova a una cerimonia religiosa, viene rapito dalle milizie filo governative dei Janjawid. I genitori lo credono morto e celebrano i suoi funerali. Ma lui resiste alla prigionia e dopo tre settimane fugge in un campo profughi del Kenya dove resta per dieci anni. Nel 2000 percorre a piedi oltre 8 km per poter assistere, su una vecchia tv in bianco e nero, alla cerimonia di apertura dei Giochi di Sydney. Nel 2001 fa domanda
per vivere negli Usa e si trasferisce da una famiglia adottiva, di fede cattolica, a Tully, nello stato di New York, in modo da diventare cittadino americano. Nel 2003 ritrova i genitori naturali, che credeva morti nella guerra civile, parla con sua madre che utilizza per la prima volta il telefono, e si riunisce ai fratelli. Gareggia per gli
Usa ed è stato il portabandiera americano ai Giochi di Pechino.
Lo stesso Abdi Bile, che si è messo a piangere quando ha raccontato la storia di Samia, a 31 anni, dopo l’oro di Roma spiegò che al suo ritorno a Mogadiscio era stato molto festeggiato, ma che lui non voleva parlare di Somalia. «Undici
miei parenti erano su una barca, naufragata senza superstiti al largo delle coste del Kenya. Stavano tentando di fuggire. Mio zio, quello che mi aveva avviato agli studi e allo sport, è stato ucciso. Mia moglie Shadia era a Kuwait City il giorno in cui arrivarono gli iracheni, restò ferita e ostaggio nella città occupata per mesi. Dove c’è la
guerra civile e l’anarchia, dove la gente muore di fame e dove non ci sono le cose più elementari, lo sport è un’astrazione» Lo stesso Mo Farah, vincitore a Londra dei 5 e dei 10 mila metri, nuovo eroe della Gran Bretagna, ha alle spalle un’infanzia spezzata. Suo fratello gemello, Hassan, come ha rivelato il
Mail on Sunday
vive
ancora in Africa. Hassan Farah e Mo sono cresciuti nello stesso letto. Ma a otto anni sono stati separati dai genitori che hanno deciso di inviare tre dei loro sei figli in Gran Bretagna, alla ricerca di una vita migliore. Mo Farah è andato a vivere con il padre in Inghilterra, mentre Hassan è cresciuto a Gibuti, in una casa modesta di Hargeisa. E da lì ha visto in tv le gare del gemello e ha ripensato alla separazione. «Come molte famiglie somale, ci ha lacerato la guerra. Nel mio caso, è stato ancora più tragico, eravamo una cosa sola. Ora mi chiedo: chissà cosa sarei potuto diventare? Forse anch’io avevo i mezzi per diventare campione olimpico. Non ho potuto fare a meno di pensarlo mentre lo guardavo vincere. Ma è mio fratello, gli voglio bene e sono felice dei suoi grandi successi. Io e mia madre speriamo di vederlo presto, ma dal vivo». Hassan è diventato un ingegnere delle telecomunicazioni, è sposato e ha cinque figli. Sliding doors. Porte che scorrono, ma a volte non si aprono, e s’inceppano. Su Samia e tante altre vite.