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 2012  agosto 20 Lunedì calendario

Tonino scaricato da tutti: ora è davvero alla frutta - Quando per attaccare Giorgio Napolitano si è trincerato dietro il defunto Bettino Cra­xi, si è capito che Anto­nio Di Pietro è alla canna del gas

Tonino scaricato da tutti: ora è davvero alla frutta - Quando per attaccare Giorgio Napolitano si è trincerato dietro il defunto Bettino Cra­xi, si è capito che Anto­nio Di Pietro è alla canna del gas. L’ex pm ce l’ha con il Quirinale per il braccio di ferro con le toghe di Palermo che hanno sollevato il velo (o il polverone, questione di gusti) sull’accordo Stato-Mafia. Volendo insolentire Re Giorgio, anziché dirgli cosa pensa di lui, ha ripescato una testimonianza di Craxi ai tempi di Mani Pulite. Betti­no - rievoca Totò, presente all’in­terrogatorio - disse che Napolita­no aveva intrecci con Mosca e con le tangenti della Prima Repubbli­ca. L’ex pm aggiunge una riflessio­ne che vorrebbe essere un’ulterio­re frustata a Re Giorgio: «O i fatti raccontati non avevano rilevanza penale, oppure non vedo perché si sia usato il sistema dei due pesi e due misure». Ossia, da un lato Cra­xi infamato, dall’altro Napolitano sul Colle in pompa magna. L’espediente contro il Quirinale è talmente ributtante- non perché colpisce il capo dello Stato, ma per l’ombra che getta su Di Pietro - da nauseare. Innanzitutto, che il co­munista Napolitano prendesse soldi da Mosca e si spartisse la tor­ta politica degli anni Ottanta, è un’ovvietà che l’ex pm poteva riba­dire da sè lasciando riposare in pa­ce Craxi. Che invece abbia voluto utilizzarlo, per così dire, in positi­vo- lui che lo ha sempre denigrato - rivela il cinismo dell’uomo: pur di raggiungere il fine del momen­to, ribalta le sue convinzioni e riabi­lita opportunisticamente il nemi­co. Da prenderlo a pedate, infine, per l’accenno ai due pesi e due mi­sure. Di Pietro casca dal pero mo­strando stupefazione perché Cra­xi e il Psi uscirono decapitati men­tr­e Napolitano e il Pci passarono in­denni per la ghigliottina giudizia­ria. Fa il santarellino proprio lui che è stato tra i capi in testa di quel­li che hanno graziato i comunisti seguendo la tangente Enimont fi­no alla soglia dell’ascensore di Bot­teghe Oscure, ma chiudendo gli oc­chi per non vedere nella stanza di chi-Occhetto,D’Alema,Napolita­no? - sia entrato Sama per conse­gnare la mazzetta. Sprizza falsità da ogni poro, que­sto Di Pietro. Credo sia senz’altro il politico - nonostante i continui ri­ferimenti alla legalità- al quale me­no di ogni altro affideremmo, non dico il portafoglio che sarebbe fol­lia, ma una confidenza. Per lui, tut­to è strumentalizzabile: amicizie, inimicizie, confidenze, soldi, valo­ri. Negli anni della Milano da bere, Totò bisbocciava con il sindaco co­gnato, Paolo Pillitteri, ed era di ca­sa tra i socialisti che signoreggiava­no in città. Si dava alla bella vita, ar­raffava soldi senza interessi - dai Gorrini, i D’Adamo- per restituirli con comodo avvolti in carta da giornale o in scatole da scarpe; di­sponeva di case gratis; ebbe in do­no una Mercedes da 65 milioni che rivendette a prezzo maggiorato a un avvocato amico (il famoso Luci­bello), e cose così. Scoppiata però Mani Pulite, Totò voltò le spalle ai compagni di baldorie e cominciò ad arrestarli uno a uno. Conoscen­do i suoi polli, per averli bazzicati traendone profitto, sapeva anche dove cercare. Passò dal tu al lei e, spogliandosi della veste di scrocco­ne, si erse a intemerato rappresen­tante della Legge. Questo camaleontismo è tutto­ra una sua specialità. Non solo in politica, dov’è in buona compa­gnia. Ma è altrove che fa cose che pochi farebbero, rivelandosi un in­trigante patologico. Ricorderete che alcuni anni fa ebbe tre mesi di sospensione dall’avvocatura (ab­bracciata dopo l’abbandono della toga) per violazione dei «doveri di lealtà, correttezza e fedeltà» aven­do assunto un incarico contro un ex assistito. Sentite dove si può arri­vare quando si è Di Pietro. A Mon­tenero di Bisaccia, paese natale di Tonino, il suo più caro amico, Pa­squalino Cianci, è accusato del­l’uccisione della moglie, Giuliana D’Ascenzo.Siamo nel 2002,Di Pie­tro- già in Parlamento e leader del­l’Idv - è in ribasso, sommerso dal berlusconismo trionfante. Appre­sa la notizia, Totò si fionda da Mila­no per stare accanto all’amico e provarne l’innocenza. Lo ospita nella sua masseria, ne riceve ogni possibile confidenza, chiama le tv, si pavoneggia come uomo di cuo­re, si accredita come legale, si rilan­cia come politico e qualche giorno dopo sparisce. Di lì a poco, abban­dona la difesa di Cianci e, con uno spudorato voltafaccia, assume quella dei parenti della morta con­tro il suo amico. A fianco del padre restano i figli che non credono ab­bia ucciso la madre. Tuttavia- gra­zie a una teoria elaborata da Di Pie­tro nei giorni in cui carpiva gli sfo­ghi dell’imputato - , Cianci è con­dannato per uxoricidio con una procedura resa opaca anche dal ruolo dipietrista. Ora, sconta una ventina di anni di carcere. Come politico, Di Pietro non ha mai avuto altro programma che stare dalla parte dei giudici qualsia­si idiozia facciano. Pure ora, in pie­na crisi economica, non ha occhi che per Ingroia, manette e carcere duro. Si è beccato uno straccio di laurea in legge e l’ha fatta fruttare più di un Nobel. Un grande magi­strato, Corrado Carnevale, mosso a pietà, gli ha fatto vincere il concor­so per uditore, anche se non ne ave­va i numeri. Il capo del pool di Mila­no, Borrelli, gli ha dato spago per­ché gli serviva uno che azzannasse come un facocero salvo precisare, dopo averlo spremuto: «Mai anda­ti oltre il lei». Quell’intelligentone di D’Alema, con l’idea di imbri­gliarlo, lo ha catapultato in politica e ne è stato ricambiato a morsi. A molti, tuttavia, Di Pietro è pia­ciuto. Agli albori della sua fama, so­prattutto a destra. Nel 1994, il Cav disse: «Le mie tv sono al suo servi­zio ». Maurizio Gasparri, aggiunse: «È un mito: mejo lui del Duce». Francesco Cossiga, sparò: «Ha le qualità morali per andare al Quiri­nale ». In seguito, e fino a ieri, ha sbrodolato per lui la sinistra, so­prattutto quella che si riempie le fauci di legalità, antimafiosità, ecc. Incantava il linguaggio di Di Pietro. Non tanto l’ «inguacchio», «che c’azzecca»,«embè»,«inebèti­to », quanto la sua visione della vita in chiave criminal-giudiziaria. Gli uomini per lui non sono buoni, me­no buoni, cattivi, ma parte offesa, imputati, recidivi. La casa è la resi­denza, l’ufficio il domicilio,l’alber­go la dimora. Si distrasse una sola volta dicendo che «Berlusconi è un magnaccia», invece del penal­mente corretto «prosseneta». Co­sì, alle ultime politiche lo hanno vo­tato schiere di intellettuali, tra i set­tanta e i cento anni, da Vattimo, a Magris, Pressburger, Tranfaglia, Camilleri, ecc. Vattimo con la moti­vazione: «Legge molto più delle media di quelli che lo criticano». Pressburger e Magris, i mitteleuro­pei, stimolati invece «da una rifles­sione sul declino della civiltà euro­pea, piegata al culto del denaro». Cosa c’azzecchi Totò con questi vo­li pindarici è incomprensibile. La sola cosa certa è che, dipietresca­mente parlando, fu una colossale circonvenzione di incapaci. Sembra passato un secolo. Og­gi, Totò è isolato. Messo in quaran­tena dalla sinistra, è considerato un rammollito anche all’interno dell’Idv per quel suo scimmiottare servile di Beppe Grillo. Sta a vede­re che tra i tagli ci finisce pure lui.