Ettore Mo, Corriere della Sera 19/8/2012; Ettore Mo, Corriere della Sera 26/08/2012, 19 agosto 2012
GONFIATE CON LE PILLOLE PER LE MUCCHE A 11 ANNI LE SCHIAVE DEL SESSO IN BANGLADESH
FARIDPUR (Bangladesh) — Fanciulle di undici-dodici anni vittime di stupri quotidiani. Ragazzine che ogni giorno si accoppiano con cinque-sei uomini diversi per qualche soldo da portare a casa, a sostegno del magro bilancio familiare. Incessante, inoltre, l’attività dei bordelli legalmente autorizzati della città di Faridpur (due ore di macchina a sud-est della capitale) dove un migliaio di prostitute è al lavoro sette giorni la settimana, senza tregua. Così come avviene nell’isola di Bani Shanta, interamente popolata dalle «sex workers», le così dette «operaie del sesso», che alleviano la solitudine di turisti, marinai, scaricatori di porto e miriadi di sfaticati di ogni genere.
In realtà, i dati delle statistiche sulla prostituzione — che sembra essere la maggiore «industria» del Paese — vanno continuamente aggiornati: e non dev’essere stata poca la sorpresa — anzi, lo stupore — per i forestieri di passaggio quando, tempo fa, appresero dai giornali che il flusso dell’acqua nelle fogne era stato inesorabilmente bloccato da una «barriera di preservativi».
Nel primo giorno del mio non mistico pellegrinaggio busso alla porta del Ghat Brothel, casa d’appuntamenti sulla riva del Gange, che qui prende il nome di Padma. Le due signore che lo gestiscono — Rokeya, cinquant’anni, e Aleya, quaranta — sono impegnate nella lotta per la riabilitazione delle prostitute: che hanno avuto la riconferma del diritto di voto e che da ora possono uscire con le scarpe ai piedi. Sono pure riuscite a far aprire un cimitero musulmano (per seppellire degnamente le consorelle islamiche) e a ottenere che le ceneri delle donne Indù, bruciate sul rogo, vengano sparse nelle acque del fiume sacro.
In vetta alla graduatoria dei postriboli del Bangladesh si impone quello di Daulatdia — uno dei più grandi del mondo —, forte di un esercito di 1.600 donne, che ogni giorno provvedono a spegnere gli ardori di circa tremila uomini. Il bordello ha le dimensioni e la struttura di un vero e proprio villaggio, qual è nella realtà: con tutte le casette a un solo piano schierate lungo le strade e i vicoli che l’attraversano e i negozi e le botteghe degli artigiani sempre aperti. Un’atmosfera festosa e, a volte, un po’ sguaiata, da carnevale. Ma la gente sembra felice: come sono felici, in apparenza, le «sex workers» che non hanno neanche il tempo di rifarsi il trucco, visto il fiume di clienti che i rickshaw scaricano in continuazione davanti ai loro tuguri.
Il dilagare della prostituzione nel Bangladesh è senza dubbio un fenomeno che gli stessi abitanti non esitano a definire «repellente», anche se comporta una serie di vantaggi economici immediati: ma per spiegarlo occorre ricordare che dalla metà degli anni Settanta quasi il 50 per cento della popolazione — 140 milioni di abitanti — continua a vivere sotto la linea della povertà. Situazione sofferta anche dalle operaie del sesso, costrette a versare la maggior parte dei loro guadagni alla sardarnis, la padrona del bordello.
Fornitrici della manodopera locale sono per lo più le famiglie dei contadini ridotti in miseria che vendono le figlie per soli 20 mila taka (circa 245 dollari). È il caso di Eiti, 25 anni, che da 6 è ospite del Ghat Brothel, dove la madre infermiera, disoccupata e senza spiccioli nel salvadanaio, l’ha scaricata; e di Lima, 13 anni appena compiuti, che nell’Istituto ne ha già trascorsi due, ma «come una detenuta, perché questo non è un ospizio, è un carcere a tutti gli effetti, mancano solo le sbarre alla finestra».
Bisogna inoltre tener conto che l’alloggio nei «lupanari» della città — da quelli di 5 stelle al centro alle case-tende-capanne della periferia — non viene offerto gratis: e per pagare l’affitto, la luce, l’acqua, il cibo e quant’altro occorre per un’esistenza decente, le «sex workers» devono avere rapporti quotidiani con almeno quattro o cinque clienti. Insomma, «una vita da cagne», come ha scritto sgarbatamente qualcuno. Si rimane perciò sorpresi quando, varcando la soglia di un edificio di quattro piani come il Town Brothel, trovi decine e decine di ragazze accovacciate nei corridoi che mangiano e bevono allegramente e qualcuna osa perfino invitarti nella sua «cuccia» per un tè o una Coca Light. Grazie, no. Sono di fretta.
Ci sono poi anche quelle — le più sfortunate — che pur avendo lavorato tutti i giorni, per anni, non intascheranno neanche un centesimo di taka: è il destino delle Chukri, prostitute vendute dalla nonna, dalla mamma o dalla suocera, i cui miseri salari sono andati a impinguare il ventre delle sardarnis. Ma a quel punto, anche se hanno tolto loro le catene, che farsene della libertà? Andarsene? La società non sarà mai pronta ad accettarle. Meglio aspettare qui, la morte sarà più dolce.
Un altro capitolo doloroso, ancor tutto da scrivere, riguarda la presenza dei bambini in un bordello del Bangladesh, dove almeno trecento avrebbero trascorso qualche mese (se non qualche anno, i dati di cui dispongo sono incerti) della loro infanzia. «Fu un’esperienza terribile — ha raccontato una donna detenuta nel postribolo di Faridpur —. Quando arrivavano i clienti, nascondevamo i piccoli sotto il letto o li spingevamo fuori a giocare, nel corridoio, perché non vedessero».
In città c’è una scuola riservata esclusivamente ai figli delle prostitute, dove tra l’altro vengono impartite, per chi ne abbia il talento, le prime, elementari lezioni di danza classica: e quella mattina, venticinque alunni — 13 bambine e 12 maschietti — hanno deliziato le loro mamme con un balletto in costume che la diceva lunga sulla speranza di un completo riscatto, che avrebbe loro consentito di partecipare, a pieno diritto, alla serata di gala della vita.
Diversamente da quanto avviene in tutte le altre parti del mondo, le donne del Bangladesh non ambiscono a mantenersi filiformi, dal momento che ai loro uomini piace la «femmina in carne», con le dovute curve e rotondità. Perciò ricorrono assiduamente all’Oradexon, un farmaco che viene dato anche alle mucche perché raggiungano il giusto peso e adeguate dimensioni fisiche e viene appunto chiamato cow pill, la pillola delle vacche.
Questa la medicina che la sardarnis di un bordello impone alle sue sei «operaie» sottoposte a una ferrea disciplina anche se si rivolge a loro affettuosamente chiamandole «figlie» e «bambine». L’effetto taumaturgico dell’Oradexon è stato più volte decantato dalle giovani prostitute, come conferma Hashi, una ragazza di 17 anni che intraprese la sua «avventura» quando ne aveva solo dieci (proprio così) e adesso lavora a tempo pieno in un bastione di Kandapara, una città labirinto a nord-est di Dacca: «Tu non lo puoi immaginare — esordisce —, ma c’è una grande differenza fra il mio aspetto attuale e quello della bambina gracile e denutrita dell’infanzia. Ora godo di un’ottima salute e sono in grado di intrattenere e soddisfare ogni giorno un bel numero di clienti, talvolta fino a quindici».
Secondo dati forniti dall’Organizzazione non governativa ActionAid, che si occupa a tempo pieno del Bangladesh, il 90 per cento delle prostitute del Paese ricorre costantemente all’Oradexon nell’arco di età fra i 15 e i 35 anni. Ma gli steroidi della pillola — ammoniscono gli esperti — comportano anche effetti negativi come il diabete, la pressione alta, gli sfoghi cutanei e il mal di testa: occorre quindi farne uso con la massima cautela.
Lo spinoso argomento non può essere tuttavia accantonato senza ricordare che, tra le sue magie, la cow pill ha pure la facoltà di invecchiare gradualmente le ragazzine di 13, 14 e 15 anni che dovrebbero aspettare i 18 per intraprendere — come stabilito dalla legge — la carriera di famiglia così tenacemente onorata da trisavole, avole, bisnonne, nonne e mamme, oltre a una schiera infinita di zie e nipoti afflitte da incredibili longevità. Nel pomeriggio le strade sono quasi deserte e le poche persone che incontri rispondono al saluto con l’accenno di un sorriso o piccoli gesti del capo e delle mani. Pochi gli uomini che invece la sera sciamano lungo i vicoli appena illuminati del villaggio-bordello, dirigendosi verso il rettangolo di luce di una porta aperta dietro la quale s’intravede una stanzuccia dove c’è posto solo per il letto. Hai l’impressione di assistere a una funzione liturgica quaresimale celebrata sottovoce.
Contrariamente a quanto avviene in Occidente, dove gli alterchi fra le prostitute di uno stesso quartiere non sono radi, qui non sembrano affiorare né rancori né sussulti di competizione professionale. E come potrebbe essere altrimenti se, per tradizione millenaria, il mestiere è passato dalle mani della madre e quelle della figlia?
La conclusione è amara. Non sembra esserci alternativa alla prostituzione nelle città di Faridpur e Kandapara, la cui effimera vitalità è assicurata solo dai bordelli: e ancor meno nel postribolo sull’isola di Bani Shanta, il più incantevole dei rifugi per eremiti in cerca di pace, dove invece t’imbatti in anziane operaie del sesso a corto di clienti, povere, malate, rinsecchite come alberi nel deserto. Se metti un taka nel palmo della loro scarna mano, non lo respingono.
«Se anche riuscissi a fuggire dal Ghat Brothel — ha confidato un giorno una vecchia signora a un sacerdote che le aveva fatto visita nel bordello-prigione di Faridpur —, dove potrei andare? I miei mi hanno sempre detestato e certo non mi rivogliono indietro. Sono la pecora nera della famiglia. Noi tutte ci dobbiamo rassegnare al fatto che siamo delle schiave e come schiave dobbiamo morire».
«Il Bangladesh è un Paese povero — dichiara Aklima Begum Akhi, capo dell’Associazione operaie del sesso di Tangail — e le ragazze dei bordelli sono le più povere di tutti noi: anche perché non riusciranno mai a liberarsi dagli effetti negativi della cow pill».
Ma l’ultima immagine che riporto indietro dall’isola di Bani Shanta mi rasserena un poco. È l’apparizione di una splendida, giovane signora che corre a piedi nudi lungo l’argine come fosse una passerella, svelta e leggera e con le braccia distese come ali, e non finisce mai di correre...
Ettore Mo
LA CITTA’ DELLE DONNE SENZA VOLTO SFIGURATE PER AVER DETTO DI NO - — Neanche un mese e la sua amorevole zia aveva già pensato di lubrificarlo con qualche goccia di acido solforico e rispedirlo in paradiso. Motivo? La gelosia che la donna nutriva nei confronti della sorella (o cognata) per aver messo al mondo un maschietto, mentre a lei era toccata in sorte soltanto una bambina.
Cose che avvenivano e tuttora avvengono nel Bangladesh, uno dei più popolosi Paesi asiatici (140 milioni di abitanti), dove fin dalla più tenera età la condizione delle donne sembra essere tra le più ardue del mondo: condizione che non si esaurisce nel tumultuoso e affollato «girone» delle prostitute, indagato nel precedente reportage, ma riguarda tutti gli aspetti del vivere quotidiano.
Delitti e regolamenti di conti in questa remota contrada, chiusa fra India e Birmania e affacciata sul Golfo del Bengala, sono per lo più provocati da promesse di matrimonio non mantenute o da dispute su case, terreni e interessi economici di vario genere. Una specie di guerra locale, in cui si fa ricorso ad un’arma estremamente silenziosa ma letale: l’acido, appunto.
Che costa poco ed è abbondante: esso viene infatti usato ogni giorno per la produzione e lavorazione dei gioielli mentre fa inorridire il fatto che lo si sfrutti anche per deturpare il volto di tante donne. Secondo i dati dell’Acid Survivors Foundation, nell’ultimo decennio sarebbero state almeno 450 all’anno le vittime del disgustoso veleno spruzzato in faccia al gentil sesso. Tra queste la signorina Fozila, che anni or sono subì l’aggressione dell’ex fidanzato respinto e ne uscì col volto devastato: «Per cui da allora — ha ammesso senza rimpianti — non ho più osato guardarmi allo specchio».
Prima di intraprendere il nuovo pellegrinaggio nei «distretti — urbani e rurali — del vizio» sono investito dalla parole di una ragazzina che, mettendo a rischio l’integrità della laringe mi grida: «Ho cominciato a prostituirmi a 11 anni e adesso ne ho 17. Tutta colpa di quella zoccola di mia mamma, che non ho mai perdonato, anche se adesso ha smesso di battere. Per me, ormai, non c’è più scampo. Finirò i miei giorni qui dentro. Ma fin che campo, i clienti li voglio giovani». E bocca di rosa si spiega meglio, aggiungendo, senza perfidia: «Per gli anziani come te non c’è posto nel mio letto».
Durante una visita al Dhaka Medical College and Hospital, l’ospedale maggiore della capitale, ci dà il benvenuto una paziente di 21 anni, Helena, sulla cui pelle, dopo un violento alterco col marito, la vampa bollente dell’acido ha lasciato una ragnatela indelebile di lividi e cicatrici. Al fratello che ogni settimana viene a trovarla chiediamo se intende fare denuncia. Neanche per sogno, è la risposta immediata ed è subito chiaro che non ha alcuna intenzione di fornire spiegazioni sul proprio comportamento: che è comunque del tutto simile a quello di migliaia di mariti, autorizzati per tradizione millenaria a infliggere punizioni corporali alle mogli troppo indipendenti e civettuole.
Il machismo, nel Bangladesh, ha connotati suoi propri: ma non sembra esservi dubbio che nel Paese la sottomissione delle donne, il loro status sociale, i doveri e le consuetudini cui devono attenersi per non violare la netta linea di demarcazione fra i due sessi abbiamo finito per trascinarle fatalmente verso il «girone» della schiavitù dove sono confinate a vita le inquiline dei bordelli.
Asma Akhtar aveva 12 anni quando un ragazzo del suo villaggio le chiese di sposarlo: offerta drasticamente respinta dalla famiglia di lei, perché nella scala sociale lui era al di sotto di almeno un paio di gradini. E adesso, grazie alla punizione che ne è seguita, i lineamenti della sua incantevole adolescenza stanno aggrovigliati in una maschera buia, appena rischiarata dalla fioca luce dell’unico occhio rimasto incolume.
Stessa amara sorpresa per Monjla, 19 anni, che pure aveva fatto un «matrimonio d’amore» ma la notte di nozze non ci furono né baci né carezze da parte del marito: il quale invece — deluso dall’inconsistenza della sua dote — versò in faccia alla sposina una buona dose di acido. Era il dicembre dell’anno scorso, il Natale alle porte, Adeste fideles e via scampanando...
Quello degli attacchi al vetriolo continua ad essere un fenomeno allarmante e costituisce una grave minaccia per la popolazione del Bangladesh, anche se gli esperti segnalano un declino nel numero degli incidenti: che secondo un dato non proprio recente avrebbero coinvolto, nel periodo tra il maggio del ’99 e il dicembre 2010, 2.433 persone, in maggioranza donne e bambini.
Ma bastano cinque ore di macchina, da Dacca, in direzione Sud per sbarcare a Satkhira, città che ospita una fitta comunità di gente sconvolta dal vetriolo: dove incontri donne grottescamente sfigurate, alcune completamente cieche che tendono la mano, altre sorde, altre ancora totalmente svanite, creature di un pianeta alieno. Il cui più giovane fantasma si chiama Sonali, anni 10: aveva appena 18 mesi ed era a letto con papà e mamma quando un energumeno le spruzzò l’acido in faccia spegnendole in un colpo tutti e due gli occhi. Ma ancora più cupa è la storia di una signora trentenne, completamente accecata dal marito, che però alla fine torna da lui come una pecorella smarrita, non essendoci alternative, per continuare a vivere, che la fame e l’accattonaggio.
Le donne non hanno tuttavia voce in capitolo e tanto meno osano protestare, temendo altre misure punitive oltre quelle inflitte loro quotidianamente dalle istituzioni. Non deve quindi sorprendere se si arrabbiano quando qualcuno stupidamente insinua che a provocare l’intervento energico delle autorità sia stato il loro stesso comportamento, definito di volta in volta capriccioso, offensivo, se non addirittura indecente.
A chi obietta che si tratta di una vicenda datata, esplosa qualche tempo fa quando da Dacca filtrò la notizia di un gruppo di bambini ricoverati in ospedale con tremende ustioni sul corpo causate dall’acido solforico, rispondo che ha ragione. Ma devo aggiungere a malincuore che altri bambini sono ancora lì, adesso, in quegli stessi ospedali e sulle stesse rigide brandine in attesa della fine della sofferenza. Tra loro è adagiata una ragazza poco più che ventenne, indiana, vittima di un incidente sul lavoro: raccontano che il suo sari abbia preso fuoco e che in un attimo l’abbia avvolta in un sudario incandescente. Il volto è minuto e bianco mentre il petto ha il colore di una corteccia scorticata dal sole. Infermiere e medici danno per scontato che la poveretta non arriverà a domani.
Qualche giornale, riferendosi a Satkhira, l’ha definita «il museo delle sfigurate», ma appena ci metti piede ti rendi conto che la definizione è inadeguata: perché la città non è abitata da statue o mummie imbalsamate, ma da uno stuolo di ragazze cui i pretendenti del posto hanno spesso cambiato i connotati con l’acido. Faccende private in cui raramente interviene la legge. Indisturbati i proprietari delle grandi riserve di acido muriatico e il corollario di collaboratori grandi e piccoli che partecipano all’avventura.
Il dottor Samanta Lal Sen, primario del Dhaka Medical College and Hospital, ricorda che agli inizi della sua carriera nell’ospedale «c’erano solo cinque o sei letti» e che gli interventi su gente afflitta da gravi ustioni «venivano affrontati e superati con grande difficoltà nell’unica sala operatoria». Aggiunge anche d’aver fatto venire dall’Italia e dalla Spagna chirurghi altamente specializzati: «Ma che io sappia — conclude — nessuno è mai riuscito a restituire la fisionomia originale a una donna o a un uomo quando i loro volti avessero subito oltraggi e alterazioni davvero spaventosi oltre che indelebili».
Deve passare un po’ di tempo prima che si attutisca o addirittura scompaia il senso di amarezza e sconforto che colpisce chiunque appena mette piede in questo luogo dove il presente come il passato sono spesso scritti con caratteri funerei. Ma si può anche respirare una boccata d’aria buona quando vedi al lavoro la laboriosa compagnia di Action Aid, da sempre impegnata sullo sconnesso terreno della povertà, della fame e dei problemi sociali in ogni parte del globo, soprattutto nei continenti — come Asia, Africa e America Latina — dove l’affanno del vivere quotidiano è più intenso che altrove.
«Siamo venuti qui — mi spiega Amiruzzaman, vecchio amico ed instancabile globetrotter fin nelle periferie più remote del Bangladesh, attualmente funzionario della grande organizzazione non governativa — per renderci conto, da vicino, delle condizioni delle donne in questo Paese, ritenute fra le più disperate del mondo. E credo tu abbia ragione quando dici che siamo di fronte all’immobilismo di un governo e di istituzioni che non hanno alcuna intenzione di ridimensionare il ruolo del maschio, che qui non ha una moglie ma ha una schiava, così come sono schiave le sue figlie e come lo saranno le sue nipoti e nipotine. Ha torto marcio chi ritiene che di fronte agli sproloqui di certi retori di periferia la situazione possa cambiare».
Non si può ignorare che siano stati apportati dei miglioramenti in un campo che è rimasto immobile per millenni: solo qualche anno fa sembrava impossibile che in queste remote regioni asiatiche una donna potesse accedere all’università o che il suo salario si equiparasse a quello del consorte fino all’ultimo centesimo e che spartisse con lui il potere decisionale. Non deve quindi sorprendere — annotano gli arguti maestri della filosofia spiccia — se la donna, non potendo avere né un lavoro né un impiego che le procurassero un sia pur minimo guadagno, abbia messo in commercio la sola cosa di cui disponeva: il proprio corpo.
Professione da allora altamente onorata dalle sex workers di Faridpur e Daulatdia e dalle cowgirl dell’isola di Bani Shanta che si tengono in forma con la pillola della mucca. Il tutto consumato in un grande amplesso umano-animale-rurale che dovrebbe assicurare la pace nel mondo.
Ettore Mo