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 2012  agosto 19 Domenica calendario

LE BONIFICHE IMPOSSIBILI

La storia delle bonifiche delle aree industriali inquinate è un classico italiano: le leggi ci sono. Ma non ci sono i soldi per attuarle. E chi ha inquinato e non vuole pagare può paralizzare tutto con ricorsi penali ed amministrativi.
Risultato: dei 57 «Sin» (i siti di interesse nazionale che in base alla legge 426 del 1998 dovrebbero essere bonificati) soltanto uno, quello tristemente celebre di Cengio, al confine tra Piemonte e Liguria, è da considerare «ripulito». Per un altro, quello di Bari-Fibronit, la bonifica è in stato avanzato.
Tutti gli altri? Poco o niente, visto che in soli 22 «Sin» sono stati avviati modestissimi interventi che non hanno cambiato nulla. Parliamo di quasi il 3% del territorio nazionale. Trieste, Venezia, Porto Marghera (3.200 ettari a terra, 350 ettari di canali e 2.200 ettari di laguna); Livorno e il litorale domizio-flegreo (186.000 ettari tra Caserta e Napoli, 75 chilometri di costa distrutta), Brindisi, Porto Torres e Taranto.
Un bilancio francamente imbarazzante, ammesso dallo stesso ministro dell’Ambiente Corrado Clini in molte audizioni parlamentari. Una situazione gravissima che secondo l’Istituto Superiore di Sanità genera danni incalcolabili, 1250 morti all’anno, e chissà quanti malati e malformati che gravano sulla sanità pubblica. La prima ragione dello stallo sono gli ingentissimi costi necessari per bonificare le aree inquinate, decine e decine di miliardi di euro, stimano gli esperti.
La legge dice che lo Stato deve pagare soltanto per pulire le aree pubbliche e demaniali; a quelle di proprietà privata (cioè delle industrie) ci devono pensare appunto i proprietari. Sul versante pubblico, si legge in un rapporto dello scorso aprile della Cgil, la situazione è catastrofica: nel dicembre 2007 venivano stanziati oltre 3 miliardi per il triennio 2010-2012, ma prima si sono ridotti gli stanziamenti a 1,7 miliardi, poi la Finanziaria 2009 di Giulio Tremonti (che ha stroncato del 70% i fondi per il ministero dell’Ambiente) li ha letteralmente azzerati. Con l’aria che tira, il governo Monti non ha certo aperto i cordoni della borsa.
Il secondo problema, denuncia un rapporto di Greenpeace, è che le industrie non hanno nessuna intenzione di pagare. E fanno di tutto per non rispettare il principio stabilito della legge che inquina paga. Ad esempio, con una miriade di ricorsi legali ed amministrativi, che conoscendo la notoria lentezza della cosiddetta giustizia italiana, hanno paralizzato tutto. Ad esempio, nel sito ex Sir-Rumianca di Pieve Vergonte, in Piemonte, il tribunale ha condannato nel luglio 2008 in primo grado la Syndial-Eni a pagare per inquinamento da Ddt ben 1,8 miliardi. Ma la causa può andare avanti per vent’anni.
Infine, la legge 13 del 2009 voluta dall’allora ministro Stefania Prestigiacomo. Stabilisce che le imprese riconosciute responsabili potranno «regolare» il conto della bonifica attraverso un negoziato diretto e una transazione con lo Stato.
Per gli ambientalisti è la pietra tombale per le bonifiche. Finora di transazioni ce ne sono state poche, e con esborsi irrisori rispetto a quanto necessario. Sempre l’Eni per bonificare nove siti industriali ha offerto 1,1 miliardi, quando il solo progetto per Porto Torres veniva quantificato a 500 milioni.
«Molto semplicemente - accusa Roberto Ferrigno, di Greenpeace - non c’è la volontà politica di far partire le bonifiche. E si vorrebbe piuttosto chiudere il discorso per sempre». E per l’associazione, anche l’attuale ministro Corrado Clini sembra intenzionato a favorire questo processo, aprendo alla riperimetrazione delle aree inquinate, da lui giudicate «troppo ampie».
Ci vorrà tempo per fissare i nuovi confini, poi qualcuno ricorrerà... e la terra resterà avvelenata.