Raffaello Masci, la Stampa 18/8/2012, 18 agosto 2012
GLI EVASORI CI COSTANO 154 MILIARDI DI EURO L’ANNO
Saremo anche un popolo «di santi e di eroi» per dirla con la retorica del Ventennio, ma siamo soprattutto un popolo di furbi-fessi, che per non pagare le tasse oggi, penalizza il futuro dei figli (oltreché il proprio). Il male è antico ed è stato combattuto con uno zelo mutevole, a seconda della sensibilità dei governi e delle pressioni delle lobbies sia economiche che geografiche. Fatto sta che evadiamo molto, ma paghiamo anche (quelli che pagano, beninteso) una esagerazione di tasse. E le due cose, almeno in parte, sono connesse.
Sull’evasione esistono delle stime fatte da soggetti differenti e sostanzialmente (decimale in più o in meno) concordi. L’ultimo centro studi, in ordine di tempo, ad aver compiuto questa valutazione è stato quello di Confcommercio nel giugno scorso: l’economia sommersa, quella cioè che prospera al di fuori della legalità e quindi delle regole fiscale e contributive, è - secondo lo studio - pari al 17,5% del Pil. Una cifra identica a quella stimata dall’Istat e appena inferiore (18,5%) a quella che risulta alla Banca d’Italia, mentre lo studio americano riportato nella pagina accanto parla di oltre il 21%. In sostanza ogni anno verrebbero sottratti all’esazione fiscale circa 255-275 miliardi che produrrebbero un gettito stimato dall’Istat in almeno 100 miliardi e da Confcommercio in 154, ben più che un respiro di sollievo.
L’evasione, peraltro, pone l’Italia in una luce pessima agli occhi dei mercati e degli investitori, i quali ci guardano come ad un Paese di mariuoli. «L’Italia - è ancora il centro studi di Confcommercio a dirlo - presenta un tasso di sommerso che è il doppio rispetto a quello del Regno Unito (8,1%), tra le cinque e sei volte quello francese (3,9%), otto volte il tasso stimato per il Canada».
Chi evade? Non i lavoratori dipendenti, il cui reddito è tassato alla fonte, ma neppure tutto il comparto del lavoro autonomo. Secondo l’Istat, il furbo-vizietto alligna «solo» per il 12% nell’industria e per il 21% nei servizi e nelle attività finanziarie, ma per il 30% nell’agricoltura e addirittura per il 50% nel turismo. Fatto sta che nel 2009 ha rilevato una indagine del Sole 24 Ore gli italiani hanno dichiarato al fisco redditi per 783 miliardi, ma per vivere (e trastullarsi) ne hanno spesi 918. Insomma su 100 euro dichiarati ne abbiamo spesi 117 e in Calabria, per dire del picco, siamo arrivati a 140.
Il governo Monti ha dato segnali di voler lenire (se non stroncare, che sarebbe troppo) questo fenomeno e dopo aver messo in campo alcune operazioni di forte impatto mediatico, come il blitz a Cortina a inizio anno, seguito da quello sul Ponte Vecchio di Firenze, e poi a Capri, a Courmayer e altrove, ha introdotto l’obbligo per gli operatori finanziari di comunicare tutte le movimentazione all’Anagrafe tributaria e quello per la Guardia di Finanza di accertare i redditi degli autonomi che si discostino dagli studi di settore. Infine ha disposto il limite di 1000 euro per la circolazione del contante senza tracciabilità.
Ma se siamo un popolo di evasori, lo siamo anche di forti pagatori di tasse. Il prelievo fiscale in Italia è in media del 45,2% e pone il nostro paese al quinto posto tra i tartassati del pianeta, dopo Danimarca, Francia, Svezia e Belgio. Ma questo prelievo è definito da Confcommercio «apparente», in quanto si basa sul rapporto tra gettito e Pil, ma poiché una parte rilevante del pil sfugge alla pressione fiscale, il gettito va rapportato alla quota di chi effettivamente paga, e allora arriviamo al prelievo record del 55% del pil. Il che significa - lo ha spiegato l’Agenzia delle Entrate, confermando un dato di Confindustria - che alcuni imprenditori tra tasse, oneri sociali, addizionali varie, arrivano a pagare il 70% .