19 agosto 2012
APPUNTI PER GAZZETTA - IL CASO ASSANGE
REPUBBLICA.IT
LONDRA - "Sono qui oggi, perché non posso essere lì con voi". Saluta così la folla Julian Assange, in camicia blu e cravatta rossa, dal balcone dell’ambasciata ecuadoregna a Londra, dove si trova in qualità di rifugiato dallo scorso 19 giugno. "La libertà d’espressione è minacciata", ha tuonato dall’alto della sua postazione. "Ho chiesto a Obama di fare la cosa giusta. Gli Stati Uniti devo rinunciare alla caccia alle streghe nei confronti di Wikileaks e smettere di minacciare la libertà dei mezzi di informazione, che si tratti del mio sito o del New York Times".
Il suo, però, è stato soprattutto un discorso di ringraziamento. Prima di tutto alla folla stessa: "Se Londra non ha buttato al vento la convenzione di Vienna è perché il mondo stava guardando, voi stavate guardando". Poi si è rivolto al Presidente, al governo e il ministro degli Esteri ecuadoregni, ringraziandoli per aver difeso il diritto internazionale. E al popolo dell’Ecuador e degli altri Paesi dell’America Latina che si riuniranno venerdì per supportarlo in questa causa. Ma anche a tutti coloro negli Stati Uniti, Regno Unito, Svezia e Australia che, nonostante i loro governi, non lo hanno abbandonato. L’ultimo pensiero è andato a Radley Manning, il giovane militare americano in carcere negli Stati Uniti con l’accusa di essere la fonte di Wikileaks: "È un eroe e deve essere liberato".
Prima di Assange, la parola è spettata al suo avvocato, Baltasar Garzon. "Julian è una persona che ha sempre difeso la verità, la giustizia e i diritti umani", ha dichiarato Garzon di fronte ai giornalisti radunati all’ingresso dell’ambasciata ecuadoregna. "Ho parlato con Julian, è combattivo - ha proseguito l’avvocato - e continuerà a lottare legalmente per protegegre Wikileaks, se stesso e tutti coloro sotto accusa".
Intorno all’ambasciata, tra i messaggi in appoggio al fondatore di Wikileaks, sono rimasti schierati una quarantina di agenti di polizia. Di fronte all’edificio si sono tradunati anche una ventina di sostenitori di Assange, che hanno parlato in sua difesa mentre aspettavano la sua apparizione pubblica.
Intanto il governo dell’Ecuador si è detto aperto al dialogo con la Gran Bretagna per risolvere la crisi diplomatica scoppiata dopo la concessione dell’asilo politico al fondatore di Wikileaks, a patto che Londra ritiri la minaccia di fare irruzione nell’ambasciata. "Abbiamo dialogato per due mesi, e la risposta finale è stata una minaccia. Aspettiamo che sia ritirata e torneremo a dialogare senza alcun problema", ha spiegato il ministro degli Esteri Ricardo Patino, aggiungendo che il negoziato non riguarda la decisione sull’asilo politico, ma la possibilità di "ottenere una dichiarazione di garanzia per la vita di Assange e che non venga estradato in un altro Paese".
In questa stessa direzione si muove anche Wikileaks. Kristinn Hrafnsson, portavoce del sito, ha detto infatti che se la Svezia dovesse impegnarsi formalmente a non consegnare Assange agli Stati Uniti, si creerebbe una buona base di negoziato per mettere la parola fine alla vicenda.
In Svezia Assange è sotto inchiesta per violenza e aggressione sessuale nei confronti di due giovani donne. Ha sempre negato le accuse e si è detto disposto a rispondere alle domande dei giudici. Ma teme che la giustizia svedese lo estradi negli Stati Uniti, dove è accusato di spionaggio, reato per cui è prevista anche la pena di morte, per la pubblicazione su Wikileaks di migliaia di cablogrammi diplomatici americani.
Il braccio di ferro è al momento tra Gran Bretagna ed Ecuador. E l’amministrazione Usa mantiene le distanze. "La questione deve essere risolta tra il governo britannico, quello ecuadoriano e quello svedese - ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest - In questa fase noi non siamo intervenuti e non ho nessuna indicazione su se si tratti di una faccenda su cui interverremo".
(19 agosto 2012)
CORRIERE.IT
Camicia azzurra, cravatta rossa e nuovo taglio di capelli. Julian Assange è apparso sul balcone dell’ambasciata dell’Ecuador, dove ha ritrovato rifugio due mesi fa. Quella del fondatore di Wikileaks è la prima apparizione pubblica da marzo, e arriva nel pieno dello scontro diplomatico a tre sul suo destino in corso tra Ecuador, Gran Bretagna e Svezia. Il fondatore di Wikileaks è accusato di stupro e la Svezia ne ha chiesto l’estradizione mentre l’Ecuador gli ha concesso l’asilo politico. «L’Ecuador, una coraggiosa nazione, ha preso una posizione per la giustizia», ha detto Julian Assange dal balcone mentre gli attivisti lo inneggiavano.
Il discorso di Assange a Londra Il discorso di Assange a Londra Il discorso di Assange a Londra Il discorso di Assange a Londra Il discorso di Assange a Londra Il discorso di Assange a Londra
LA RICHIESTA AGLI USA E L’APPELLO PER MANNING - Assange ha chiesto agli Stati Uniti di rinunciare alla caccia alle streghe perché «Chi minaccia Wikileaks minaccia la libertà di espressione». «Bisogna uscire da questo momento di oscurità. Gli Usa devono tornare indietro sulle loro decisioni e devono capire che non devono perseguirmi, non devono perseguire la democrazia». «Dobbiamo usare questo momento - ha continuato Assange - per garantire la scelta che devono adottare Regno Unito e Stati Uniti di riaffermare i grandi valori della libertà e della democrazia». L’australiano, che ha parlato per sei-sette minuti dal balcone dell’ambasciata dell’Ecuador di Knightsbridge, non poteva in teoria fare dichiarazioni politiche (è una condizione dell’asilo concesso dall’Ecuador) ma le critiche fatte a vari governi, e quello degli Stati Uniti in particolare, erano politicamente provocatorie. Il fondatore di Wikileaks ha anche ringraziato i popoli del Sud America per avergli dato appoggio e amicizia. «Sono qui, oggi, perché non posso essere laggiù, assieme a voi», ha esordito il fondatore di Wikileaks. «Ringrazio il presidente dell’Ecuador, il governo e il ministro degli Esteri che hanno difeso il diritto internazionale. Ringrazio anche il popolo ecuadoriano e anche la famiglia dell’ambasciatrice che hanno subito minacce per avermi accolto qui». «Bradley Manning è un eroe e deve essere liberato». Lo ha chiesto Assange riferendosi al giovane militare americano in carcere negli Stati Uniti con l’accusa di essere la fonte di Wikileaks. Poi un riferimento anche alle Pussy Riot «La condanna delle Pussy Riot a Mosca è un esempio di unità nell’oppressione».
L’AVVOCATO- «Siamo grati all’Ecuador e al suo popolo», l’avvocato di Julian Assange Baltasar Garzon ha parlato davanti all’ambasciata dove ha trovato rifugio il suo assistito. Garzon ha anche spiegato che Assange è in uno stato d’animo «combattivo». Il fondatore di Wikileaks ha incaricato il suo avvocato di «aprire un’azione legale per proteggere i diritti legali di Wikileaks e del suo fondatore». Garzon ha quindi sottolineato che il suo assistito «non si è mai rifiutato di rispondere alle autoritá svedesi. Chiede solo garanzie minime perchè questo possa avvenire. Fino ad oggi queste garanzie non sono arrivate». Il Regno Unito «deve riconoscere questo diritto fondamentale - ha poi aggiunto parlando dell’asilo concesso dall’Ecuador - che non può concludersi in modo diverso che con la concessione di un salvacondotto» per consentire ad Assange di andare in Ecuador.
LA MADRE - E Torna a difendere il figlio la madre di Julian Assange. «Vogliono portarlo in Svezia e metterlo in carcere prima di interrogarlo. Il motivo per cui vogliono farlo è che sarà lì quando arriverà l’incriminazione americana. È un caso pendente di estradizione verso gli Stati Uniti. Niente più e niente meno», ha accusato la donna, Christina Assange, che oggi ha parlato con il figlio.
PERCHE SUL BALCONE - Le autorità britanniche, che sorvegliano giorno e notte l’ambasciata, hanno messo in chiaro che Assange sarà immediatamente arrestato se mette piede fuori dai suoi locali: le parti comuni dell’immobile, ha precisato sabato il Foreign Office, sono infatti territorio britannico, e a maggior ragione lo è il terreno antistante. Ecco perché è stato scelto di far parlare Assange dal balcone, considerato ancora territorio ecuadoriano.
Julian Assange dentro l’ambasciata con l’avvocato Garzon (Ap)Julian Assange dentro l’ambasciata con l’avvocato Garzon (Ap)
IL MONITO DAL SUDAMERICA - Intanto fermo sostegno all’asilo politico concesso dall’Ecuador ad Assange e un severo monito sulle «gravi conseguenze» internazionali nel caso di un’irruzione della Gran Bretagna nell’ambasciata sono stati espressi dai paesi dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (Alba) - Ecuador, Venezuela, Bolivia, Cuba, Nicaragua e tre piccoli paesi caraibici - che hanno esaminato il caso durante una riunione a Guayaquil (Ecuador). Alla riunione era presente il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, il quale ha dichiarato che Londra «non ha ritirato la sua minaccia. Oggi, domani (domenica, ndr), potrebbero entrare nella nostra ambasciata», ha detto, definendo «grossolana e intollerabile» la «minaccia» delle autorità britanniche. Al termine della riunione di Guayaquil, i ministeri degli esteri dell’Alba hanno diffuso una nota che respinge «il modo contrario al diritto internazionale con il quale il Regno Unito vuole risolvere i contenziosi» e chiede «un ampio dibattito nell’Onu sul tema dell’inviolabilità delle rappresentanze diplomatiche». «Un’aggressione all’integrità territoriale dell’Ecuador a Londra scatenerebbe gravi conseguenze in tutto il mondo», ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Nicolas Maduro, mentre il collega cubano, Bruno Rodriguez, ha definito «inaccettabile anche solo il fatto che il Regno Unito possa insinuare che le leggi nazionali di uno stato debbano prevalere sulla Convenzione di Vienna riguardante i rapporti diplomatici». Nelle ultime ore anche il Brasile e l’Argentina hanno espresso la propria solidarietà all’Ecuador. Il ministro degli Esteri brasiliano, Antonio Patriota, ha tra l’altro sottolineato il principio «dell’inviolabilità» delle sedi diplomatiche. Simile anche la posizione manifestata dal ministero degli Esteri argentino.
Redazione Online
CORRIERE.IT - ASSANGE NELLA SUA STANZA
MILANO - Nella sua stanza al pianterreno ci resterà per mesi, forse anni: finché durerà l’impasse diplomatica tra Ecuador e Gran Bretagna, Julian Assange vivrà da rifugiato politico dentro l’ambasciata ecuadoriana. Un appartamento di dieci stanze al piano terra di un palazzo del quartiere londinese di Knightsbridge, a due passi dai grandi magazzini Harrods, dove il fondatore di Wikileaks si è barricato dal 19 giugno per sfuggire all’estradizione in Svezia.
VITA RINCHIUSA - Come si vive chiusi in una piccola ambasciata? Se nelle prime settimane Assange dormiva su un materassino gonfiabile, ora ha a disposizione una stanza trasformata in camera con un letto e una doccia. Può mangiare nel cucinino dell’ambasciata ma spesso, come fa notare l’Associated Press, ordina pizza e altri cibi a domicilio. Risolto, in parte, il problema dell’esercizio fisico: all’ambasciata hanno messo a sua disposizione un tapis roulant. Pare ci sia anche una lampada abbronzante: può sembrare un capriccio, ma come faceva notare un recente articolo del New York Times la stanza di Assange non riceve luce diretta dall’esterno.
VISITE - Nessun problema per le visite, anzi - amici e famigliari sono liberi di passare dall’ambasciata. Liberi, anche, di organizzare piccole feste: sempre secondo il New York Times spesso Assange balla con gli amici, un modo come un altro per fare un po’ di movimento. Il resto del tempo, il fondatore di Wikileaks lo passa leggendo e guardando dvd. Senza tralasciare il lavoro: con una connessione e un telefono a sua disposizione, resta spesso davanti al pc fino alle ore piccole. Il suo amico Vaughan Smith, il giornalista che lo ospitava nella sua tenuta prima del trasloco forzato nell’ambasciata, lo descrive all’Evening Standard come «una persona non sentimentale, felice di stare sul suo pc a lavorare anche se è difficile descrivere la sua stanza come un luogo confortevole». Ma come fa notare la madre Christine, intervistata dalla Bbc: «Lui è un nomade e da tanti giorni non vede il sole...». E chissà per quanti ancora non lo vedrà.
Greta Sclaunich
CORRIERE.IT - FINE DI UN MITO
In queste ore decisive per la sorte di Julian Assange, quello che resta di WikiLeaks, l’organizzazione che ha fatto tremare il mondo nel 2010 rivelando informazioni riservate sui governi, si stringe intorno al suo leader. Kristinn Hrafnsson, il cinquantenne giornalista islandese portavoce del movimento e braccio destro del rifugiato, mostra grande calma al telefono e si definisce «orgoglioso della scelta coraggiosa dell’Ecuador di respingere le pressioni di Stati Uniti e Gran Bretagna». Eppure la vicenda personale di Julian Assange, che rischia l’estradizione negli Stati Uniti e l’accusa di spionaggio, sta influenzando in maniera diretta lo staff di WikiLeaks. Il sito è ridotto oggi a dieci persone che lavorano full time al progetto. Il blocco delle donazioni tramite i più comuni sistemi di pagamento (via carte di credito Visa o Mastercard) - che di fatto impedisce il finanziamento - ha rappresentato l’ennesimo colpo per l’organizzazione. Ma i problemi non sono solo economici: la piattaforma non ha ancora ripreso a funzionare da quando, nel 2010, l’inventore del software, conosciuto come «l’architetto», ha lasciato l’organizzazione portando con sé il sistema informatico che raccoglieva e proteggeva le informazioni. «Al momento non abbiamo una tecnologia capace di garantire la sicurezza e l’anonimato di chi denuncia - spiega Hrafnsson - e non siamo in grado di gestire il flusso di dati che comporterebbe la riattivazione».
La guerra ad Assange si è trasformata in una guerra contro WikiLeaks. D’altronde era inevitabile. Daniel Domscheit-Berg, ex collaboratore di fiducia del fondatore, puntualizza: «Il movimento è la sua creatura di cui si sente il padrone assoluto». Fu lo stesso Assange a dichiarare in un’intervista al New York Times di essere «il cuore e l’anima di questa organizzazione, il suo fondatore, filosofo, portavoce, sviluppatore, animatore e finanziatore».
Ma i fedelissimi dell’attivista - insieme ad Hrafnsson, si contano il giornalista britannico Joseph Farrel e l’ex studentessa Sarah Harrison - non mollano Assange. Nulla mette in dubbio la sua onestà intellettuale: non lo fa la richiesta d’aiuto a un Paese tiepido sui diritti civili come l’Ecuador, né il rapporto di lavoro che l’attivista intrattiene con Russia Today , canale tv finanziato dal governo russo di Putin. «La trasmissione di Julian è indipendente - puntualizza Hrafnsson - non c’è alcun controllo editoriale: allora bisognerebbe condannare chiunque lavora per Murdoch o per Berlusconi». La colpa è dei media tradizionali che «invece di concentrarsi sul progetto, sono ossessionati da Julian». Qualcuno lo accusa di fare di tutto pur di attirare l’attenzione: «Cosa dovrebbe fare? - chiarisce il portavoce -. È l’unico modo che ha per difendersi». La solidarietà dello staff scalda i supporter del movimento, uniti dalla rabbia contro la giustizia americana e dalla difesa assoluta della libertà online. Dall’attivista digitale Jacob Appelbaum, anima del Tor Project (il software che permette la navigazione anonima online) alla star della tv australiana Phillip Adams, fino ai giovani hacker, la linea è una: Assange paga la colpa di aver svelato l’opacità del potere. I problemi però ci sono. Hrafnsson minimizza ma in parecchi - dal 2007 a oggi - hanno lasciato l’organizzazione in contrasto col fondatore. Daniel Domscheit-Berg, autore del libro Inside WikiLeaks (Marsilio), spiega: «WikiLeaks all’inizio non era un’organizzazione ma un progetto: valutavamo insieme, ognuno dal proprio pc, cosa pubblicare e perché. È stato Julian a creare una gerarchia e a porsi in cima».
Quando il sito è esploso nel novembre 2010 con la pubblicazione di 251 mila documenti diplomatici statunitensi sono cominciati i dissidi. In molti, come la parlamentare islandese Birgitta Jónsdóttir, ex supporter, hanno criticato l’attenzione eccessiva riservata agli Stati Uniti. Domscheit-Berg racconta che all’inizio: «WikiLeaks sceglieva i documenti da mettere online seguendo l’interesse dei cittadini di tutto il mondo, il progetto era "wiki" aperto, e allo stesso tempo molto selettivo». Nel 2010 tutto è cambiato: «La pubblicazione ha iniziato a seguire un’agenda politica e a farsi sempre più segreta: dichiaravamo di lottare per la trasparenza quando eravamo i primi a non promuoverla».
Atra causa di defezioni - tra cui lo scienziato del Massachusetts Institute of Technology David House e il giornalista James Ball - è stata la scarsa protezione delle fonti (la maggior parte dei documenti pubblicati riportava il nome della persona che li aveva trasmessi), che ha messo in pericolo tante vite, tra cui quella di Bradley Manning, il militare responsabile del rilascio di documenti sulla guerra in Iraq.
Domscheit-Berg spiega di aver provato ad avviare insieme ad altri membri una discussione interna su metodi e obiettivi ma la posizione di Assange è stata netta: WikiLeaks non sarebbe cambiata. «Avremmo dovuto espellere lui, o quanto meno mandarlo in vacanza per un mese - ammette l’informatico - ma abbiamo preferito lasciare: i rischi erano troppo elevati».
L’attivista ha provato a ricreare l’anima di WikiLeaks altrove, fondando la piattaforma «aperta e trasparente» OpenLeaks. È stato allora, lontano dal movimento e dal suo fondatore, che il giovane ha ricominciato ad apprezzare WikiLeaks: «Ha dimostrato che si può garantire sicurezza ai "whistleblower" (informatori anonimi) per diffondere informazioni di interesse pubblico». Questo spirito è confermato dai centinaia di attivisti digitali a lavoro in questi anni - dai Balcani con BalkanLeaks fino all’italiano GlobaLeaks - su piattaforme e software per la tutela dell’anonimato e dell’informazione.
Andy Greenberg, giornalista di Forbes , per il libro sul «whistleblowing» This Machine Kills Secrets , in uscita negli Usa, ha analizzato 50 casi di siti e organizzazioni che stanno provando a replicare il metodo WikiLeaks, compresi Al Jazeera e Wall Street Journal , arrivando a una cauta conclusione: «Occorre una policy per la privacy molto rigida, un software che garantisca l’anonimato, essere pronti a finire nei guai da un momento all’altro e un leader di grande personalità». Ancora una volta, lui: Julian Assange.
Serena Danna
PEZZO DI REPUBBLICA DI SABATO
PAOLO G. BRERA
DAL NOSTRO INVIATO
LONDRA
— Quanto può resistere Julian Assange a vivere come un galeotto nella sobria stanzetta dell’ambasciata ecuadoriana a Londra, circondata dalla polizia inglese? E quanto può sopportare il governo britannico il conto da 50mila sterline al giorno, una fortuna mensile da due milioni di euro, per mantenere l’esercito di 40 agenti piazzati ventiquattrore al dì intorno e dentro il palazzo per evitare che fugga? Stallo. È diventata una partita a scacchi in cui nessuno più ha le armi per vincere, il braccio di ferro diplomatico tra l’Ecuador e la Gran Bretagna intorno al giornalista australiano che ha inventato WikiLeaks. Una partita giocata all’ombra della storia: in piena guerra fredda, il cardinale ungherese József Mindszenty ci restò per 15 anni, chiuso nell’ambasciata ungherese a Budapest.
Questione di nervi, dunque, e Assange attizza il fuoco convocando per domani un discorso «dal vivo davanti all’ambasciata» che non potrà tenere se non affacciandosi a una finestra, gesto che ha evitato in questi giorni di massima tensione. Se non resta che vedere chi si stancherà prima, a Londra è una gara collettiva a indovinare tutte le possibili vie di fuga che il governo ecuadoriano potrebbe tentare per portare Assange fuori dall’Inghilterra. «Puo sgattaiolare via in una valigia? », titola il
Daily Mail
azzardando una delle possibili soluzioni che «preoccupano i ministri britannici». Non una valigia qualsiasi, s’intende, ma una “valigia diplomatica”, un termine con cui si indica qualsiasi oggetto etichettato come tale: non può essere aperta né sequestrata, ma si tratterebbe di un evidente trucchetto per aggirare la legge. Difficile che il governo britannico lo consenta senza intervenire, e se si pensa di far passare la “valigia” inosservata bisogna scritturare David Copperfield: gli agenti sono dotati persino di un sensore di calore per analizzare tutto quello che esce dall’ambasciata.
La via più semplice, per l’Ecuador, sarebbe fornirgli il passaporto diplomatico o l’immunità, ma il governo britannico non gli concederebbe
l’accredito né il visto e anche qui potrebbe far valere l’ovvietà del tentativo di aggirare le leggi, impedendolo. Altra cosa è se i diplomatici ecuadoriani riuscissero a farlo salire sull’auto dell’ambasciata, che è considerata territorio sovrano: sarebbe un caso molto delicato, ma la determinazione espressa dal governo inglese a non lasciarsi prendere in giro è tale che avrebbe poche possibilità di successo. L’obiettivo, naturalmente, sarebbe l’Eurotunnel per lasciare il Paese. Molto difficile anche la fuga in elicottero: l’ambasciata è al piano terra e gli ascensori, l’androne e le scale sono presidiati dalla polizia. Una cosa è certa: non c’è fretta. Il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha chiarito che «potrà rimanere in ambasciata a tempo indeterminato», e ha aggiunto: «Non sono d’accordo con tutto quello che ha fatto, ma questo
non significa che meriti l’estradizione, l’ergastolo e la pena di morte». Assange continua a chiedere ai magistrati svedesi di interrogarlo in ambasciata, e si dice disposto a deporre anche via Internet. Dietro le quinte, intanto, i messaggi incrociati per trovare
una soluzione politica sono intensi: il premier David Cameron e il vice Nick Clegg hanno fatto sapere di aver chiesto al ministro degli Esteri William Hague di «moderare i toni». Un «gesto positivo », per la controparte.
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Un sostenitore di Assange fuori dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra
PEZZO DEL CORRIERE DELLA SERA DI SABATO
SERENA DANNA
In queste ore decisive per la sorte di Julian Assange, quello che resta di WikiLeaks, l’organizzazione che ha fatto tremare il mondo nel 2010 rivelando informazioni riservate sui governi, si stringe intorno al suo leader. Kristinn Hrafnsson, il cinquantenne giornalista islandese portavoce del movimento e braccio destro del rifugiato, mostra grande calma al telefono e si definisce «orgoglioso della scelta coraggiosa dell’Ecuador di respingere le pressioni di Stati Uniti e Gran Bretagna». Eppure la vicenda personale di Julian Assange, che rischia l’estradizione negli Stati Uniti e l’accusa di spionaggio, sta influenzando in maniera diretta lo staff di WikiLeaks. Il sito è ridotto oggi a dieci persone che lavorano full time al progetto. Il blocco delle donazioni tramite i più comuni sistemi di pagamento (via carte di credito Visa o Mastercard) — che di fatto impedisce il finanziamento — ha rappresentato l’ennesimo colpo per l’organizzazione. Ma i problemi non sono solo economici: la piattaforma non ha ancora ripreso a funzionare da quando, nel 2010, l’inventore del software, conosciuto come «l’architetto», ha lasciato l’organizzazione portando con sé il sistema informatico che raccoglieva e proteggeva le informazioni. «Al momento non abbiamo una tecnologia capace di garantire la sicurezza e l’anonimato di chi denuncia — spiega Hrafnsson — e non siamo in grado di gestire il flusso di dati che comporterebbe la riattivazione».
La guerra ad Assange si è trasformata in una guerra contro WikiLeaks. D’altronde era inevitabile. Daniel Domscheit-Berg, ex collaboratore di fiducia del fondatore, puntualizza: «Il movimento è la sua creatura di cui si sente il padrone assoluto». Fu lo stesso Assange a dichiarare in un’intervista al New York Times di essere «il cuore e l’anima di questa organizzazione, il suo fondatore, filosofo, portavoce, sviluppatore, animatore e finanziatore».
Ma i fedelissimi dell’attivista — insieme ad Hrafnsson, si contano il giornalista britannico Joseph Farrel e l’ex studentessa Sarah Harrison — non mollano Assange. Nulla mette in dubbio la sua onestà intellettuale: non lo fa la richiesta d’aiuto a un Paese tiepido sui diritti civili come l’Ecuador, né il rapporto di lavoro che l’attivista intrattiene con Russia Today, canale tv finanziato dal governo russo di Putin. «La trasmissione di Julian è indipendente — puntualizza Hrafnsson — non c’è alcun controllo editoriale: allora bisognerebbe condannare chiunque lavora per Murdoch o per Berlusconi». La colpa è dei media tradizionali che «invece di concentrarsi sul progetto, sono ossessionati da Julian». Qualcuno lo accusa di fare di tutto pur di attirare l’attenzione: «Cosa dovrebbe fare? — chiarisce il portavoce —. È l’unico modo che ha per difendersi». La solidarietà dello staff scalda i supporter del movimento, uniti dalla rabbia contro la giustizia americana e dalla difesa assoluta della libertà online. Dall’attivista digitale Jacob Appelbaum, anima del Tor Project (il software che permette la navigazione anonima online) alla star della tv australiana Phillip Adams, fino ai giovani hacker, la linea è una: Assange paga la colpa di aver svelato l’opacità del potere. I problemi però ci sono. Hrafnsson minimizza ma in parecchi — dal 2007 a oggi — hanno lasciato l’organizzazione in contrasto col fondatore. Daniel Domscheit-Berg, autore del libro Inside WikiLeaks (Marsilio), spiega: «WikiLeaks all’inizio non era un’organizzazione ma un progetto: valutavamo insieme, ognuno dal proprio pc, cosa pubblicare e perché. È stato Julian a creare una gerarchia e a porsi in cima».
Quando il sito è esploso nel novembre 2010 con la pubblicazione di 251 mila documenti diplomatici statunitensi sono cominciati i dissidi. In molti, come la parlamentare islandese Birgitta Jónsdóttir, ex supporter, hanno criticato l’attenzione eccessiva riservata agli Stati Uniti. Domscheit-Berg racconta che all’inizio: «WikiLeaks sceglieva i documenti da mettere online seguendo l’interesse dei cittadini di tutto il mondo, il progetto era "wiki" aperto, e allo stesso tempo molto selettivo». Nel 2010 tutto è cambiato: «La pubblicazione ha iniziato a seguire un’agenda politica e a farsi sempre più segreta: dichiaravamo di lottare per la trasparenza quando eravamo i primi a non promuoverla».
Atra causa di defezioni — tra cui lo scienziato del Massachusetts Institute of Technology David House e il giornalista James Ball — è stata la scarsa protezione delle fonti (la maggior parte dei documenti pubblicati riportava il nome della persona che li aveva trasmessi), che ha messo in pericolo tante vite, tra cui quella di Bradley Manning, il militare responsabile del rilascio di documenti sulla guerra in Iraq.
Domscheit-Berg spiega di aver provato ad avviare insieme ad altri membri una discussione interna su metodi e obiettivi ma la posizione di Assange è stata netta: WikiLeaks non sarebbe cambiata. «Avremmo dovuto espellere lui, o quanto meno mandarlo in vacanza per un mese — ammette l’informatico — ma abbiamo preferito lasciare: i rischi erano troppo elevati».
L’attivista ha provato a ricreare l’anima di WikiLeaks altrove, fondando la piattaforma «aperta e trasparente» OpenLeaks. È stato allora, lontano dal movimento e dal suo fondatore, che il giovane ha ricominciato ad apprezzare WikiLeaks: «Ha dimostrato che si può garantire sicurezza ai "whistleblower" (informatori anonimi) per diffondere informazioni di interesse pubblico». Questo spirito è confermato dai centinaia di attivisti digitali a lavoro in questi anni — dai Balcani con BalkanLeaks fino all’italiano GlobaLeaks — su piattaforme e software per la tutela dell’anonimato e dell’informazione.
Andy Greenberg, giornalista di Forbes, per il libro sul «whistleblowing» This Machine Kills Secrets, in uscita negli Usa, ha analizzato 50 casi di siti e organizzazioni che stanno provando a replicare il metodo WikiLeaks, compresi Al Jazeera e Wall Street Journal, arrivando a una cauta conclusione: «Occorre una policy per la privacy molto rigida, un software che garantisca l’anonimato, essere pronti a finire nei guai da un momento all’altro e un leader di grande personalità». Ancora una volta, lui: Julian Assange.
Serena Danna
@serena_danna