Guido Andruetto, la Repubblica 19/8/2012, 19 agosto 2012
MILANO
L’intensità dello sguardo, la timidezza velata, e quel suo modo di stringere la mano, garbato e amichevole, rendono Violante Placido il tipo di donna ideale, bellissima ma anche raggiungibile, mai troppo distaccata. Arriva con passo svelto nella hall dell’albergo nel centro di Milano, alla fine di una lunga giornata che l’attrice romana ha dedicato quasi interamente all’altra sua grande passione nella vita oltre al cinema: la musica. Figlia d’arte nata dall’unione fra l’attore e regista Michele Placido e l’attrice Simonetta Stefanelli, l’interprete di
Jack Frusciante è uscito dal gruppo
e della serie televisiva su Moana Pozzi è, a trentasei anni, una persona felicemente caotica, anche nelle piccole cose quotidiane, ma con le idee piuttosto precise sulla direzione che deve prendere la sua carriera di attrice e di cantante. «Il cinema e la musica continuano ad assorbirmi totalmente », racconta con un leggerissimo tremolio nella voce, mostrando ancora un certo pudore a parlare di sé. «Se sono impegnata sul set o mi sto preparando per un film, cerco sempre di ricavarmi degli spazi per stare da sola a scrivere
canzoni o a provare con la chitarra. Per me è soprattutto un’esigenza, prima ancora che un lavoro. La musica su di me ha un effetto potente da sempre, è così da quando ero bambina, riesce a cambiarmi lo stato d’animo all’improvviso. Forse perché fa scattare qualcosa dentro che ci porta in contatto con le nostre emozioni più profonde».
Per Viola, il nome d’arte con cui la Placido ha firmato l’album di debutto
Don’t Be Shy,
pubblicato nel 2005, la musica arriva al cuore, spalancando la finestra su un mare di ricordi ed emozioni. «Quando ero piccola mia madre ascoltava un sacco di musica a casa, e a otto anni già andavo pazza per Annie Lennox e Dave Stewart degli Eurythmics, sentivo in continuazione il loro album. In macchina, addirittura, facevo un gioco che mi divertiva molto, fingevo di essere un juke-box e dicevo a mia mamma di mettere la moneta, poi le cantavo tutte le loro canzoni. A nove anni li ho visti in concerto, il primo della mia vita, e l’anno dopo ero di nuovo sotto il palco per Cindy Lauper. La musica mi trasmetteva un senso di indipendenza, mi dava modo di crearmi un mio mondo, un mio sentire, e questo è stato fondamentale nella mia vita». Per arrivare a cantare su un palco, però, la giovanissima Violante ha impiegato del tempo, lavorando molto su stessa. «Nonostante tutto questo amore per la musica», confessa timidamente, «ho sempre avuto un blocco, non mi sentivo adatta a suonare uno strumento. Sapevo che ci voleva disciplina, e io non ne avevo, ero una ragazza un po’ selvatica. Passavo la maggior parte del tempo in campagna, nella casa di famiglia, dove mi sentivo protetta».
A ventidue anni, però, un raggio di sole filtra nel bosco delle sue paure. «È successo a Pescara, durante un weekend che stavo trascorrendo con una mia amica a casa di Giulio Corda, che allora cantava in un gruppo poprock, i Giuliodorme. Tra noi è nata una profonda amicizia, e frequentandoci ho iniziato su suo consiglio a suonare nel tempo libero, ma per puro piacere. Quindi mi sono comprata una chitarra, un registratore a quattro tracce, e me ne stavo interi pomeriggi in campagna da sola, a cantare. Mi si è aperto un mondo, ho cominciato a scrivere dei pezzi che poi ho registrato nello studio casalingo di Giulio. Mi sono fermata tre mesi al mare per preparare il disco, che poi è uscito per l’etichetta indipendente
Benka Records, e non è casuale che l’abbia intitolato
Don’t Be Shy,
“Non essere timida”. Adesso, a distanza di sei anni, sto lavorando al secondo album, che sarà invece pubblicato dalla Mescal, e ho avviato una bella collaborazione con Lele Battista, un cantautore che vive qui a Milano e che ha composto un brano originale per me, mentre su altre canzoni abbiamo contaminato la nostra scrittura. Que-st’estate, accompagno in tour sia lui che Mauro Ermanno Giovanardi, e ne approfitto per testare sul pubblico qualche inedito».
Diverso è stato invece il percorso che l’ha portata ancora ragazzina sul grande schermo. «Il mio rapporto con il cinema è stato molto più conflittuale», ammette, «anche perché venivo da una famiglia di artisti, e questo poteva complicare le cose. Crescendo mio padre ha iniziato a lavorare tantissimo, c’era poco a casa, e io ero contrariata, mi rendevo
conto che il lavoro di attore ti portava via dalla famiglia. Così ho scelto di non prenderlo in considerazione e mi sono buttata nello sport: facevo salto a ostacoli con i cavalli a livello agonistico. Tutta la fase dell’adolescenza per me è stata solo natura, aria aperta, cavalli, gare, concorsi nazionali. Non andavo nemmeno in vacanza, facevo solo competizioni. Il mio sogno era arrivare alle Olimpiadi. Se ci ripenso quella è stata l’unica formazione che è riuscita a darmi disciplina, l’unica cosa a cui mi sono veramente dedicata anima e corpo». Una parentesi che l’ha tenuta lontana dal chiedersi se volesse o meno diventare un’attrice, finché un giorno... «A diciannove anni sinceramente pensavo ad altro, poi questo lavoro mi è venuto un po’ incontro, mi hanno cercata per propormi degli script e sono iniziate le prime esperienze. Ho debuttato in
Jack Frusciante è uscito dal gruppo,
ma subito dopo mi sono presa un anno di pausa: ero come svuotata, avevo capito che non c’era consapevolezza nella mia scelta e che mi si poteva anche ritorcere contro, essendo figlia d’arte. Non volevo niente di regalato, perché sono una persona orgogliosa, dovevo solo capire se quella era davvero la mia strada».
Poi arriva
L’anima gemella
di Sergio Rubini nel 2002: «È stato un nuovo esordio, pieno di consapevolezza. E da lì in poi non mi sono più fermata. Ho affrontato molte altre tappe importanti, per esempio il film con mio padre,
Ovunque sei,
in cui si trattava anche in modo coraggioso il tema dell’aldilà. Diciamo che è stata un’esperienza difficile per entrambi: per lui perché si è preso tanti rischi, sia per l’argomento che per la scelta di coinvolgermi nel cast, mentre per me la vera sfida era confrontarmi per la prima volta con lui sul lavoro. Poi ho fatto tante cose piccole, ma pazzesche. Sono stata due mesi e mezzo in Marocco da sola, con una troupe straniera, a girare un film indipendente che non ho mai visto, ma è stata un’esperienza molto interessante. Oppure in India per un’altra produzione minore dove giravamo in mezzo alla strada, tra i mercati, nulla a che vedere con Bollywood».
Impossibile non chiederle di
Moana,
la miniserie per la tv dove ha interpretato la celebre pornodiva: «Un’altra sfida elettrizzante. Quello che desideravo era solo rendere al meglio la figura di questa donna molto amata, che era ancora nella memoria delle persone,
realmente esistita, e con una grande personalità. Non volevo per forza azzeccare ogni minimo dettaglio della persona, ma mi ero creata un’idea di lei, del suo sentire, che mi faceva da guida, e questo mi ha avvicinato ancora di più al personaggio». Il viaggio nel cinema per Violante è proseguito fuori dai confini nazionali, come testimoniano i suoi ultimi lavori: «C’è stato
The American
con George Clooney, che mi ha aperto le porte all’estero e mi ha dato la possibilità di fare un secondo film straniero,
Ghost Rider,
insieme a Nicolas Cage, e il prossimo autunno uscirà un film francese poliziesco,
Le Guetteur,
per la regia di mio padre, dove recito con Daniel Auteuil, Mathieu Kassovitz e Luca Argentero».
Dulcis in fundo, nel momento più bello della carriera le arriva un riconoscimento inatteso, viene scelta come testimonial di L’Oreal per il 2012: «A dire il vero mi ha un po’ spaventata la prospettiva di avere una grossa visibilità, perché non l’ho mai cercata, però quando ho realizzato che altre testimonial del marchio sono attrici impegnate oppure donne con una personalità sfaccettata, penso a Jane Fonda o a Penelope Cruz, mi sono detta che potevo semplicemente provare a essere me stessa».