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 2012  agosto 19 Domenica calendario

L’open space è un abominio. C’è la collega che spiega le ricette al telefono alla figlia, quello che commenta le partite, azione per azione, e l’altro che convoca riunioni fiume a mezzo metro dal tuo orecchio

L’open space è un abominio. C’è la collega che spiega le ricette al telefono alla figlia, quello che commenta le partite, azione per azione, e l’altro che convoca riunioni fiume a mezzo metro dal tuo orecchio. Non vorreste seguire le loro conversazioni ma la mente, come il cuore, è una zingara e va. Per quanto proviate a tenerla ferma sul bersaglio, non c’è verso. L’ufficio senza muri è un’arma di distrazione di massa. L’abbiamo sempre saputo, senza averne le prove. Ce le ha fornite Julian Treasure, di mestiere sound architect, relatore all’ultima Ted Conference di Edimburgo: «In spazi del genere siete produttivi un terzo di quanto non lo sareste in una stanza tran- quilla. Se dovete lavorarci, portatevi delle cuffie». Non faranno di voi un campione di simpatia, ma almeno riuscirete a concludere qualcosa. Purtroppo il problema è più generale. Le città, stima il pioniere canadese dell’ecologia acustica Murray Schafer, sono ogni anno mezzo decibel più rumorose. Vivremo presto in una discoteca, senza averlo chiesto. Il suono del silenzio è diventato l’ultimo lusso. Non è un caso che i capi abbiano una stanza tutta per sé. Anche i peones però possono reclamare, a basso costo, la loro indipendenza acustica. Cuffie e tappi per le orecchie diventano così monolocali virtuali. Da noi è ancora raro. Se cercate “tappi orecchie” su Amazon.it vengono fuori dieci risultati. Fate lo stesso esperimento sull’omologo sito americano e sarete inondati da oltre 198mila ear plug. Sino a un paio di decenni fa, anche da quelle parti il monopolio era dei modelli di cotone cerato. Poi sono arrivati quelli di silicone, Pvc e poliuretano. Ce ne sono di specializzati nel neutralizzare le frequenze del russamento, di diversi tipi di musica, dei vari sottotipi di baccano da traffico. Migliaia di siti dedicati li recensiscono, prendendoli terribilmente sul serio. Repubblica ne ha provati sei modelli. Come ogni nuova scienza (merceologica) che si rispetti, anche quella dell’isolamento ha una sua unità di misura: l’Nrr che sta per Noise Reduction Rating. Il massimo per il momento è di 33 Nrr, che in pratica dimezza il livello di conversazione di un ufficio medio (60 decibel, come vi può confermare una delle varie app gratuite per smartphone in circolazione). Ma l’effettiva riduzione dipende molto da come li inserite e dalla conformazione del vostro orecchio, oltre che da una serie di preferenze individuali. I più classici sono quelli a tampone, cilindrici, da arrotolare e far espandere nel canale uditivo. Poi ci sono a cono, a più spire, di gomma morbida, spesso uniti con un lungo filo che riduce il timore irrazionale che non riusciate più a toglierli se spingete troppo. E altri ancora che sembrano di plastilina e vanno modellati per riempire l’intero padiglione. Considerando efficacia e comodità d’uso, quelli a cono convincono di più. Ma non esiste una ricetta buona per tutti. Universale è invece il bisogno che ha creato il loro rigoglioso mercato. Di recente un articolo sul New York Times lamentava la sempre più insopportabile cacofonia di Manhattan. Con ristoranti che raggiungono una media di 96 dB, il frastuono di un tagliaerba. In certe palestre, adepte dell’horror vacui sonoro imperante, la musica di sottofondo tocca i 105 dB. Per contestualizzare, basti sapere che gli esperti sostengono che già quindici minuti a quella soglia possono causare danni permanenti. Ieri erano livelli industriali, da fonderia. Oggi li ritrovi in certe spiagge del Salento o della riviera adriatica così come nei luoghi dello shopping e dello svago globalizzato. All’Hard Rock Cafe, per dire, hanno calcolato che alzando il volume della musica i clienti parlano meno, consumano di più e sloggiano prima. In catene di abbigliamento giovanile come Abercrombie&Fitch, ma anche H&M e Hollister, l’intensità sonora fa desistere gli adulti che rimangono all’esterno consegnando la carta di credito in mano ai figli. In pratica, un buttafuori acustico. Nicolas Gueguen, ricercatore dell’università della Bretagna del Sud, ha calcolato che in un bar con una musica a 72 dB i clienti ordinano 2,6 drink e ci mettono 14,5 minuti per finirne uno. Contro 3,4 bevute scolate in un intertempo di 11,5, solo alzando la manopola a 88 dB. La verità è che è più facile guardare altrove che tapparsi le orecchie. Siamo più indifesi di fronte a questo assalto sensoriale. E, come spiega l’esperto Treasure nella sua mini-lezione, il rumore influenza il nostro comportamento in almeno quattro modi diversi: fisiologico (alterando le secrezioni ormonali), psicologico (condizionando il nostro stato emotivo), comportamentale (ad Abu Ghraib e Guantanamo ci torturavano i prigionieri) e cognitivo. Perché i canali uditivi sopportano meno informazioni di quelli visivi. Hanno, come si direbbe oggi, una minore larghezza di banda. È tanto facile saturarli quanto è difficile seguire due persone che parlano simultaneamente. Perciò l’involontario multitasking uditivo che subiamo negli open space è catastrofico. A far perdere la concentrazione, riporta uno studio del Politecnico di Bari pubblicato sulla rivista La Medicina del Lavoro, sono in primo luogo le voci dei colleghi (31 per cento), i telefoni (27), gli impianti di condizionamento (15), le macchine da ufficio (13) e rumori esterni vari (13). «L’inferno sono gli altri» sentenziò Sartre. Non pensava necessariamente al cicaleccio, ma volendo... La recente ondata di richiami all’ordine artistico-letterari, dal documentario di Philip Gröning Il grande silenzio al viaggio per monasteri di Giorgio Boatti, Sulle strade del silenzio, testimoniano di un’urgenza crescente. Abbassare il rumore di fondo per cogliere il segnale, se non il senso. Resta valido l’avvertimento cantato da Mina, in tempi meno chiassosi: «Ci sono cose in un silenzio, che non m’aspettavo mai». Se non ve lo meritate da contratto, almeno ricostruitevelo per pochi spiccioli.